BhK Noam – Milano
Dal racconto della manna nella Parashat Beshallach si impara una Halakhah: è Mitzwah alzarsi presto al mattino del venerdì per i preparativi di Shabbath, che non vanno lasciati alle ultime ore della giornata, ma devono essere eseguiti subito. Si discute sull’espressione della Torah da cui la Halakhah si impara. Per il Talmud e i Posseqim la si evince dalla seconda parte del versetto Wehayah bayom hashishì wehekhinu et asher yaviu (“e sarà il sesto giorno prepareranno ciò che avranno portato” – Shemot 16,5): come la raccolta e il trasporto della manna avveniva “al mattino presto” (v. 21), così anche la sua preparazione per Shabbath doveva avvenire al mattino presto.
E’ la procedura del heqqesh (“accostamento”), che consente di applicare a due verbi appunto accostati (“prepareranno ciò che avranno portato”) gli stessi dettagli sebbene la Torah li specifichi per una delle due azioni soltanto. Il Ben Ish Chay di Baghdad ritiene invece che alla base della Halakhah citata vi sia semplicemente il verbo iniziale Wehayah (“e sarà”). I Maestri del Talmud spiegano infatti che ogni passo biblico che cominci con Wehayah contenga un racconto positivo, di simchah. E simchah, tradotta in termini pratici e concreti, significa zerizut, “sollecitudine”. Infatti che è contento di fare qualcosa corre a farla prima possibile.
Ma c’è anche il risvolto della medaglia. I Chakhamim aggiungono infatti che invece ogni passo biblico che cominci con Wayhì contenga un racconto negativo, di tristezza e punizione. E’ il caso della Meghillat Ester (wayhì bimè Achashverosh), ma anche di brani della Torah come la ribellione nel deserto (wayhì ha’am kemit’onenim – Bemidbar 11). Anche in questo caso c’è una spiegazione ufficiale e una diversa. La spiegazione più comune è che l’espressione Wayhì ricorda un lamento (“ohi”) o l’espressione ebraica nehi dallo stesso significato. Personalmente penso che la ragione vada ricercata nella grammatica. In ebraico biblico wayhì e Wehayah sono rispettivamente il passato e il futuro del verbo essere. Il passato si ricollega a una visione pessimistica della vita e quindi a un’idea di tristezza e negatività, laddove il futuro è connesso con una visione ottimistica, positiva dell’umana esistenza.
Ciò ci rimanda alla Parashah in maniera più complessiva. Al centro della Parashat Beshallach vi è, come è noto, la Shirat haYam (“Cantica del mare”) intonata dai Figli d’Israel subito dopo aver attraversato il Mar Rosso. La Cantica fa da spartiacque fra le due metà della Parashah e non solo nel senso letterale conseguente al fatto che le acque del mare si sono materialmente divise, ma anche in un senso più profondo. La prima metà della Parashah è introdotta da Wayhì. Essa è rivolta al passato, con il ricordo delle brutture dell’Egitto nei loro ultimi strascichi, fino all’annegamento dei nemici. Dopo la Cantica il racconto riprende adottando un registro tutto differente: si parla del futuro del nostro popolo in un mondo diverso, pacifico, segnato dal “pane del cielo” con cui D. nutriva gli Ebrei. Il verso specifica che essi “mangiarono la manna per quarant’anni finché giunsero in terra abitata” (v. 35), facendoci intravvedere la prospettiva tutta positiva dell’ingresso in Eretz Israel. Non a caso tutta questa seconda parte è introdotta addirittura da un doppio Wehayah, come leggiamo in 16,5 dal quale siamo partiti.
Le due parti della Parashah corrispondono a due tipi di Ebrei. Vi è l’Ebreo Wayhì e vi è l’Ebreo Wehayah. L’Ebreo Wayhì è tutto rivolto al passato. Egli vive della costante commemorazione delle brutture e delle persecuzioni che hanno costellato la storia del nostro popolo. L’Ebreo Wehayah è invece proiettato al futuro. La sua è una visione positiva e costruttiva delle sorti ebraiche. Dirò che la questione è ancora più complessa. Grammaticalmente esiste in ebraico biblico il fenomeno della waw hahippùkh (“waw conversiva”) che trasforma il futuro in passato e il passato in futuro. Wayhì è propriamente un futuro del verbo essere che la waw ha trasformato in passato. A sua volta anche Wehayah è una forma passata del verbo essere che la waw ha trasformato in futuro. L’Ebreo Wayhì trasforma il futuro in passato. Per lui il futuro del nostro popolo è inconcepibile, o meglio consiste solo nel reiterare invariabilmente il ricordo delle persecuzioni subite. Per lui Ebraismo significa solo memoria, in genere memoria negativa. Egli di fatto cammina con la faccia rivolta all’indietro, nel timore inconscio di vedersi riproporre ciò che i suoi padri hanno subito. L’Ebreo Wehayah è invece colui che ha certo ben presente il passato, ma sa trasformarlo in futuro. Egli ha una prospettiva positiva: per lui l’Ebraismo è una visione attiva e propositiva del mondo. E’ l’ebreo della manna, i cui valori fondanti sono, come abbiamo già visto, l’osservanza dello Shabbath e l’attaccamento a Eretz Israel.
Resta da fare un’ultima considerazione. La Ghematriyà di Wayhì è 31, corrispondente alle lettere alef-lamed del Nome Divino connesso con l’idea di middat ha-din (“giustizia”), laddove Wehayah è invece l’anagramma del Tetragramma yud-he-waw-he, tradizionalmente associato con l’idea di middat ha-rachamim (“misericordia”). Lo scopo della Torah è la hamtaqat ha-dinim, lo “addolcimento” della Giustizia in modo da trasformarla in Misericordia. Trasformare un passato di punizioni in un avvenire ricco di prospettive. E’ il messaggio davvero prezioso su cui deve indurci a riflettere la struttura stessa della Parashat Beshallach al centro della Torah.