Sergio Minerbi
Non sono d’accordo con l’articolo di Anna Foà. Anzitutto mi sembra un tentativo piuttosto goffo di rifare una verginità ebraica per Israel Zolli il quale dopo la liberazione, sparito il pericolo nazista, accettò la carica di Capo del Seminario Rabbinico. Nella mattinata egli andò a presiedere una seduta del Tribunale Rabbinico e il giorno stesso nel pomeriggio andò in una chiesa, prescelta in anticipo, e si convertì al cattolicesimo. Non c’è nessuna scusa valida per chi abiura la sua fede e se fu un atto di ripicca ciò significa che egli preferì salvaguardare il proprio onore personale, piuttosto che l’ebraismo. Che vergogna.
E’ vero che i dirigenti della Comunità si opposero alle proposte di Zolli. Ma esse furono avanzate il 9 settembre 1943, il giorno dopo l’occupazione nazista, quando ancora la situazione era poco chiara (si combatteva ancora a Porta San Paolo), era molto difficile trovare degli alloggi alternativi per migliaia di persone, molte delle quali senza mezzi finanziari e con molti bambini. Gli Ebrei di origine polacca avevano una maggiore sensibilità che non era condivisa dagli Ebrei italiani a Roma. Mia madre, nata a Varsavia, era andata a Varsavia nel 1940 e ne era tornata l’11 Aprile portando con sè i suoi genitori per i quali aveva ottenuto un visto di transito italiano. Nel settembre 1943 con mia madre andai in giro per Roma per tentare di convincere i conoscenti ebrei a cercare un rifugio. Mi ricordo il caso di una famiglia benestante nei pressi di Corso Trieste. Era un Sabato pomeriggio e attorno a tre tavolini si giocava a bridge. Mia madre parlò sottovoce col padrone di casa e questi si arrabbiò e ci cacciò urlando.
La stragrande maggioranza dei conventi che accolsero gli ebrei lo fecero per l’inziaitiva dei singoli sacerdoti e non per ordini ricevuti da Papa Pio XII. Io fui salvato da Don Alessandro Di Pietro, Procuratore dei Maristi e Preside del collegio San Leone Magno. Molti anni dopo quando gli portai il certificato di giusto da parte di Yad Vashem, gli chiesi se avesse ricevuto ordini da Pio XII, che egli incontrava una volta al mese. “No” fu la sua risposta. Anche dall’ottimo saggio della Suora Grazia Loparco sui conventi che salvarono ebrei a Roma, si ricava l’impressione che mancasse il tempo materiale per chiedere istruzioni a chicchessia. Su un centinaio di pagine il Papa vi è nominato se non erro una sola volta.In un articolo su “Jesus” del luglio 2009 è scritto a questo proposito:
È anzi «probabile che l’accoglienza negli istituti fosse cominciata senza attendere direttive esplicite dalla Santa Sede” E’ dunque erroneo presumere che l’assistenza “non poteva non essere concordata con il Papa” come scrive la Foà senza nessuna prova.
Leggendo i documenti pubblicati dal Vaticano nel volume IX, si può giungere alla conclusione che il Vaticano si preoccupava che Roma fosse riconosciuta città aperta, e che fosse salvaguardata la neutralità del Vaticano. Di Ebrei se ne parlò molto poco.La neutralità fu riconosciuta da von Ribbentrop, Ministro degli Esteri, il 6 Ottobre il giorno stesso in cui il Console Moelhausen inviava un telegramma ad Hitler e Ribbentrop sull’imminente deportazione e “liquidazione” degli Ebrei romani. Dopo aver visto il Segretario di Stato Maglione, l’Ambasciatore di Germania fu ricevuto il 9 Ottobre da Sua Santità Pio XII. Ma si ignora il contenuto dell’udienza privata. Il 16 Ottobre, il giorno stesso della razzia, Maglione convocò l’Ambasciatore per porgergli una protesta ma accettò che non fosse trasmessa a Berlino. Nei tre giorni seguenti gli Ebrei catturati furono rinchiusi al Collegio Militare a Roma mentre i nazisti discutevano se invarli a Mauthausen o a Auschwitz. Forse a Mauthausen molti si sarebbero salvati ma il treno partì per Auschwitz con 1020 Ebrei dei quali tornarono solo 15. Ma non è vero che il Vaticano rimase del tutto in silenzio. Sull’Osservatore Romano del 29-30 ottobre 1943 fu pubblicato un comunicato della Santa Sede nel quale si riconosceva che le truppe tedesche avevano rispettato la Curia romana e la Città del Vaticano.