Legge e morale della metafisica maimonidea
Secondo alcuni Maestri, quando Mosè spezzò le Tavole della Legge, operò grazie al consenso accordatogli successivamente da D–o (Es. XXXIV, I). Nello stesso modo, Mosè Maimonide avrebbe in un certo senso spezzato violentemente le tavole della prassi codificatoria coraggiosamente intrapresa da R. Jehudàh ha–Nasì nel 220 D.E.V.
Si può proporre una lettura di Maimonide che spezza anche i canoni dell’Etica per passare ad una trans–etica, compiendo il cammino inverso a Nietzsche, secondo cui l’immagine delle Tavole spezzate rappresenta la separazione tra il Bene e il Male.
Il tentativo di ricomporre la frattura tra la Teologia e la Morale, attraverso l’idea contrattuale di un berith (patto) basato sulla giustizia, è vissuto con lo stesso coinvolgimento sentimentale di quei Maestri che arrivando al verso “Cercate la giustizia” (Zephanià II, 3) scoppiavano in un pianto dirotto.
L’eterna domanda della teodicea non è più vissuta unilateralmente come nel libro di Giobbe, ma va inserita nel rapporto costante con un D–o che continuamente si interroga sull’assenza del mondo; Maimonide avrebbe aperto lo spiraglio al dubbio, affrontando la problematica nella chiara coscienza dell’incomprensione esistente tra l’uomo e il mondo da una parte, e D–o ed il mondo dall’altra.
La distruzione dell’essere, separata dalla morale, ripropone quotidianamente quel dubbio che spezza sì le tavole, ma che gode, come l’opera maimonidea, del consenso e della partecipazione divina.
Andrè Nehèr