Il senso degli esilî
Molto prima della nascita del popolo d’Israele, Dio annuncia ad Abramo la sorte che attende la sua discendenza. Sappi che la tua progenie sarà straniera in un paese non suo. Per 400 anni lo servirà e verrà oppressa (Genesi, 15, 13). Perché questo esilio? Quale colpa diede origine a questo primo esilio, alla cattività egiziana?
Se l’annuncio fu fatto ad Abramo, vuol dire che è in lui che la colpa si situa. La colpa dell’esilio d’Egitto certamente, ma anche, secondo il midrash, degli esili di Babilonia, di Persia e di Roma, perché attraverso queste situazioni storiche diverse si manifesta un unico modo di essere, un identico errore, ed è sin dalle origini che bisogna ricercarne il senso.
La situazione da cui si va inizialmente formando il popolo ebraico dà una sua impronta alle linee portanti della sua storia.
Il Talmud riferisce tre opinioni che situano la colpa di Abramo in circostanze diverse, ma concordano nel rilevare che il primo patriarca non diede prova di fede assoluta e totale in Dio.
La prima opinione gli rimprovera di avere mobilitato ed armato i suoi seguaci per liberare il nipote Lot. Benché sia legittimo fare uso della violenza per garantire la propria difesa, Abramo non aveva il diritto di stornare i suoi seguaci dallo studio allo scopo di forzare il destino. Obbligandoli a prendere le armi, non ha loro permesso di seguire una strada, una via che li destinava a una diversa testimonianza.
Con un moto di generosa, ma intempestiva impazienza, Abramo non ha forse intaccato un ricco capitale di speranza? Questa sottomissione di un’idea, della ricerca esistenziale dell’essere, alla preoccupazione di un’efficace immediata, la ritroviamo nel Faraone quando riduce in schiavitù i discendenti di Abramo.
Attraverso il timore e la precipitazione, Abramo lascia scorgere una carenza della sua fede in Dio.
È lo stesso criterio di giudizio a guidare, a determinare la seconda opinione del midrash. Abramo avrebbe dato prova di esagerato scetticismo nei confronti della promessa divina. Egli chiede un segno: la prova che Dio avrebbe sicuramente dato la terra di Canaan ai suoi figli. Questa richiesta provocò l’esilio, in quanto la terra deve sottomettersi all’ideologia ebraica e non costituisce in alcun modo un a–priori. Era quindi necessario che la sua discendenza diventasse straniera, per riimpatriare e possedere una terra.
Il verbo ebraico GUR significa soggiornare, sia in qualità di straniero che come abitante. L’ebreo è “straniero e abitante” nei paesi altrui, nella Diaspora, come nel proprio paese, in Erez Israel. L’uomo, ebreo per eccellenza, è a tempo “straniero e abitante” su questa terra.
In base alla terza opinione, è sempre Abramo a causare l’esilio. Ci sarebbe stata, da parte usa, una carenza di iniziativa a favore del nuovo ordine da instaurare. In effetti, egli trascurò di attrarre a sé gli uomini suscettibili di aderire alla fede in Dio. Egli rafforzò così indirettamente “le nazioni” a scapito di Israele, e aprì la strada che doveva portare all’asservimento della sua posterità.
Tutte e tre le opinioni collegano quindi l’esilio a un errore commesso da Abramo. Fin dalla sua formazione, un difetto originario doveva orientare in maniera irrevocabile l’ulteriore evoluzione del popolo ebraico.
L’esilio di Israele sancisce sul piano della storia lo spazio vuoto che assicura questo esilio, questa situazione limite per l’uomo ebreo in questo mondo, che germina la verità e prende forma la restaurazione di un universo infranto. Questa confusione e questo smarrimento sospingono l’uomo ebreo fin nelle sue ultime trincee e lo costringono ad impegnarsi nella ricerca di un indispensabile superamento.
Esiste quindi nell’esilio un fine educativo: esso permette al popolo ebraico di crearsi e di creare il mondo.
La mistica ebraica dimostra nel migliore dei modi come i diversi esili siano necessari al mondo nei diversi stadi del suo sviluppo e nelle differenti epoche della sua storia.
Grazie alla sua presenza creatrice nelle diverse parti della terra, è Israele ad essere in grado di aiutare i singoli, e i popoli a disfarsi dei loro rispettivi esili, dei quali non sono neppure coscienti.
Israele contribuisce così alla restaurazione del mondo e così prepara il proprio ritorno in Erez Israel.
Ecco perché l’esilio è stato previsto da Dio prima ancora che Israele divenisse un popolo di Dio gli impone questo ruolo di educatore attraverso il mondo e la storia.
Giacobbe scende in Egitto costretto dalla parola divina e vi visse da straniero.
Partendo dall’Egitto, osserva il commentatore chassidico Noam Elimelech, Israel ha voluto addolcire e alleggerire il vigore dei decreti divini, ma anche perseguire costà un’opera di restaurazione.
Noi iniziamo la Agadà con Ha lachmà ‘anijà, col pane della povertà che abbiamo mangiato in Egitto e nel corso di tutti gli esili. Proseguiamo invitando chiunque ha fame di restaurazione e di rinascita a mangiare con noi, per partecipare al nostro m’a nishtanà ‘(= in cosa è diversa…). Ed è così che, poco a poco, arriveremo a superare lo stadio di “quest’anno qui, ma l’anno prossimo liberi in terra d’Israel”.
Michel Monheit