Incontro in “I Giovedì della Sapienza Islamica: Escatologia e rivelazioni”
Al tema del messianismo ebraico sono stati dedicati negli ultimi anni, anche in lingua italiana, vari volumi[2]. In termini assoluti gli studi scientifici sul messianismo ebraico si sono sviluppati in larga misura nell’ultimo secolo, soprattutto in seguito all’uscita dell’opera Le grandi correnti della mistica ebraica di Ghershom Scholem[3]. I primi studi furono condotti dal primo grande storico ebreo dai tempi di Giuseppe Flavio, Heinrich Graetz. Numerosi lavori negli ultimi decenni hanno portato alla luce molto materiale inedito, conducendo all’elaborazione di vere e proprie riconsiderazioni del fenomeno messianico nell’ebraismo.
Il messianismo come categoria concettuale, sebbene il termine sia ottocentesco e si sia diffuso principalmente in ambito filosofico[4], ha una storia estremamente lunga e tormentata. Molti eventi della storia ebraica, antica e moderna, sono influenzati dall’attesa della venuta messianica. E’ sufficiente pensare agli sconvolgimenti che accompagnarono la diffusione del sabbatianesimo e nel frankismo nel mondo ebraico. I falsi messia Shabbetai Tzevi, al quale Scholem ha dedicato una monumentale monografia[5], e Jacob Frank si convertirono rispettivamente all’Islam e al Cristianesimo. Questa estrema antinomia viene supportata da affermazioni, che staccate dal proprio contesto possono essere usate come giustificazione come “la trasgressione della Torah è il compimento della Torah” (Menachot 99b).
Nell’Epistola allo Yemen, Maimonide “esprime la convinzione che le crescenti persecuzioni siano all’origine dei movimenti messianici… Nel tentativo di ‘fermare il tempo storico’, caratterizzato da oppressione e sofferenza, l’individuo proietta tutte le sue ansie in un tempo escatologico: l’ebreo perseguitato ripone tutte le sue aspettative in un Messia, il bisogno del quale è talmente immediato da fornire terreno fertile alla nascita dei movimenti messianici[6]”. La stessa idea messianica assume centralità alla fine dell’epoca del Secondo Tempio, quando la società ebraica vive in condizioni estremamente difficili a causa del dominio romano[7]. Secondo Scholem i mistici messianici e lo sviluppo della kabalah luriana, strettamente dipendente dalle categorie di esilio e redenzione, non sono altro che il prodotto della frattura ingenerata dall’espulsione degli ebrei dalla Spagna. André Neher rileva come alla metà del XVI sec. “i grandi mistici di Safed, anch’essi quasi tutti originari di Spagna, avevano avuto la smagliante consapevolezza del carattere provvidenziale dell’evento: il 1492 non rappresentava il castigo; ma l’esplodere delle scintille, il loro disperdersi attraverso il mondo, l’occasione finalmente offerta al popolo ebraico di sciamare, di fecondare, di redimere[8]”.
Introducendo il concetto di messianismo Levinas scrive “Questa nozione è complessa e difficile. Solo l’opinione popolare la concepisce con semplicità[9]”.
A livello metodologico è necessario premettere che nell’ebraismo l’ideale messianico è molto meno centrale che nel Cristianesimo: “il Cristianesimo senza messianismo non esiste, perché è tale per definizione[10]”; “C’è la tendenza a dimenticarlo, ma è iscritto nel suo stesso nome: cristiani o christianoi, ossia ‘messianizzanti’, ovvero coloro che testimoniano la fede nel Messia; mentre nell’ebraismo troviamo anche chi ritiene inessenziale il messianismo, o quanto meno assolutamente accessorio in rapporto all’osservanza dei precetti[11]”. G, Scholem[12] illustra il motivo di questa incompatibilità nelle visioni: “In tutte le sue forme e costruzioni, l’ebraismo si è infatti sempre attenuto a un concetto di redenzione come evento pubblico che si compie sulla scena della storia e nel cuore della comunità. Insomma, come evento che si produce essenzialmente nel mondo del visibile e che al di fuori di questo suo manifestarsi nel visibile è impensabile”.
Nella tradizione rabbinica troviamo numerosi testi, disseminati nelle varie fonti. La maggiore concentrazione di informazioni è contenuta nel cap. XI del trattato Sanhedrin del Talmud. In questi brani troviamo numerose allusioni a quanto avverrà quando arriverà il Messia. L’insegnamento più significativo è forse però quello secondo cui “Siano maledette le ossa di coloro che si mettono a contare la fine”. Scrive Riccardo Di Segni “per ‘fine’ s’intende la data, perché nel momento in cui arriva questa data, se non viene il Messia, la disillusione che ne deriva è drammatica[13]”.
La domanda da porsi, quando si affrontano questi testi, è “se ciò che afferma il Talmud riguardo all’epoca messianica rientra nella componente halakhica (legale) o aggadica (non legale). La distinzione non è accademica: nel primo caso, possiamo aspettarci che i codici legali ne trattino, altrimenti no[14]”.
Da un punto di vista linguistico, il termine messia significa “unto”. Per comprendere il senso dell’espressione è indispensabile comprenderne la portata all’interno della narrazione biblica. L’olio veniva impiegato “per dare sacralità agli oggetti e alle persone, per trasformarli da profani in sacri[15]”. Parlando di esseri umani il rituale dell’unzione riguardava sacerdoti, re, e talvolta profeti. Tutte le volte in cui il termine mashiach compare nel testo biblico non si fa riferimento all’inaugurazione di un’era di salvezza[16]. E’ notevole come nel libro di Isaia (44,1) venga chiamato Messia un re non ebreo, Ciro, che permise agli ebrei di tornare nella propria terra in seguito all’esilio babilonese.
Nel testo biblico sono individuabili vari temi, non sviluppati organicamente, che poi confluiranno nella configurazione dell’ideale messianico[17]: anzitutto a livello generale la speranza di tempi migliori, in vari ambiti; la fine della sottomissione del popolo ebraico a potenze straniere, l’instaurazione della giustizia sociale e quindi la riforma dello stato a partire dalla prospettiva di giustizia, la fine dell’esilio di Israele, il riconoscimento da parte dei popoli della terra dell’esistenza di un D. unico, la cessazione della violenza a livello universale, la sconfitta della morte. Molto spesso questi concetti sono sviluppati attorno ad un’immagine regale; “Tra Roma e Gerusalemme corre una particolare tensione messianica[18]”. Nel XIII sec. Avraham Abulafia ha una visione nella quale gli viene ordinato di recarsi a Roma e chiedere udienza al Papa. Mosheh Idel riteneva che in quell’incontro il Messia sarebbe stato incoronato dal Papa; “Poiché il Messia era concepito come il Re degli ebrei, l’incontro avrebbe potuto significare la sua consacrazione, analoga a quella dei sovrani cristiani, da parte del pontefice[19]”. Il Talmud (Berakot 34b e Sanhedrin 91b) afferma che “La sola differenza tra questo mondo e i giorni del Messia è l’asservimento (di Israele) alle nazioni”. Secondo questa visione delle cose, l’era messianica è la continuazione naturale della storia, e l’unica differenza è che il sistema politico che regnerà sarà onesto, umano e giusto[20].
La caratterizzazione biblica e talmudica, così come verrà intesa da numerosi filosofi ebrei del Medioevo, primo fra tutti Maimonide, lascia intendere che il Messia sarà un essere umano, identico agli altri uomini. Questo non è l’unico modello emerso, altri hanno sviluppato l’immagine del Messia come dotato di poteri sovrannaturali.
Nel Talmud (Sanhedrin 97b) troviamo un’interessante discussione fra Rav e Shemuel su come i nostri comportamenti possano influenzare la venuta del Messia: Rav sostiene che “tutti i termini prefissati sono finiti e la cosa dipende soltanto dal pentimento e dalle buone azioni”; secondo Shemuel “basta che chi sta in lutto stia nel suo lutto”. Il lutto ritualmente prevede dei tempi prefissati. Secondo Rav quindi è necessario pentirsi, affinché il Messia arrivi, secondo Shemuel c’è invece un tempo prefissato, indipendentemente dai nostri comportamenti.
Anche un testo normalmente sobrio come la Mishnah (Sotah 9, 15[21]) presenta una descrizione del periodo messianico molto particolare: “Sulle orme del Messia crescerà l’insolenza e il rispetto verrà meno. Il governo si consacrerà all’eresia e scomparirà ogni riprovazione morale. La sinagoga diventerà un bordello; la Galilea sarà devastata e gli abitanti della frontiera vagheranno di città in città senza incontrare compassione. La saggezza degli scribi risulterà odiosa, e disprezzati saranno coloro che rifuggono dal peccato, La verità non dimorerà in alcun luogo, i giovani umilieranno gli anziani e gli anziani si alzeranno di fronte ai giovani. Il figlio sarà disonore del padre e la figlia si rivolgerà contro la madre, e l’uomo avrà per nemici i membri della sua stessa casa. Il volto dell’epoca sarà come il muso di un cane. A chi potremmo allora affidarci se non al Padre nostro che è nei cieli?”. Alla luce di ciò è comprensibile l’affermazione di tre maestri nel trattato Sanhedrin (98a), che dichiarano “Che Egli venga, ma io non voglio vederLo”.
La caratterizzazione dell’escatologia ebraica si muove fra due grandi polarità, quella presentata dai profeti, che è sostanzialmente un’escatologia di carattere nazionale, in cui si parla “della riedificazione della casa di David caduta in rovina, della gloria futura di Israele ritornato al suo D., della pace perpetua e della riconversione di tutti i popoli, rigettati i culti e gli idoli pagani, all’unico D. di Israele[22]”, e l’apocalittica, in cui fa la sua comparsa la dottrina dei due eoni, che si susseguono e restano contrapposti, “questo mondo e il mondo futuro, il dominio delle tenebre e quello della luce… Al contenuto nazionale dell’escatologia fa ora da sfondo uno scenario più ampio, cosmico, su cui si compie lo scontro finale tra Israele e le nazioni pagane[23]”.
Il tentativo più significativo di confrontarsi e contrastare l’apocalittica viene da Maimonide, che affronta la tematica messianica in chiusura del suo grande codice legale, il Mishneh Torah. La scelta è anzitutto significativa, dal momento che Maimonide affronta la questione anche in altri testi, come la Lettera allo Yemen o il Commento alla Mishnah, includendo la credenza nella venuta del Messia fra i principi di fede dell’ebraismo. A tali principi è dedicato il primo trattato della sua opera legale, le Hilkhot Yesodè ha-Torah, Le regole sui fondamenti della Torah. Maimonide include invece due brevi capitoli (i capitoli 11 e 12) sul Messia al termine dell’opera, in chiusura delle Regole sui re. In questo modo “probabilmente il Rambam voleva rimuovere tutte le possibili implicazioni metafisiche che l’argomento poteva avere[24]”.
Maimonide riporta alcuni insegnamenti fondamentali[25]: “Il Messia verrà e restaurerà il regno di David nella sua potenza originaria. Ricostruirà il Santuario e riunirà i dispersi di Israele. Nei giorni del Messia, tutte le leggi saranno ristabilite come nei tempi antichi… Colui che non crede nella venuta del Messia o che non aspetta questa venuta rifiuta non solo gli altri profeti, ma anche la Torah e il nostro Maestro Mosè… Non crediate che il Messia debba dare segni e fare miracoli, che debba instaurare un nuovo stato di cose nel mondo, resuscitare i morti, ecc. Non sarà così… Nessuno pensi che nei giorni del Messia cesserà il corso naturale del mondo o che saranno introdotte innovazioni nella creazione. Il mondo continuerà il suo corso naturale. Le parole di Isaia (11,6) ‘il lupo dimorerà con l’agnello, si coricherà il leopardo con il il capretto’ sono una parabola e un’allegoria che sta a significare che Israele abiterà in sicurezza anche tra i malvagi delle nazioni pagane che vengono paragonati al lupo e al leopardo. Perché tutte (le nazioni) accetteranno la vera fede e non si abbandoneranno più al saccheggio né alla distruzione… Tutti i passi simili della scrittura che parlano del Messia devono essere considerati come allegorie. Solamente nei giorni del Messia tutti comprenderanno cosa significano le metafore e a cosa si riferiscono”.
Affrontando la trattazione maimonidea G. Scholem scrive[26]: “Nella sua sobria accortezza, questo testo codifica la protesta contro l’apocalittica, contro la fantasia esuberante degli aggadisti e contro gli autori dei midrashim popolari, zeppi di descrizioni degli stadi della fine e delle catastrofi naturali e storiche che dovrebbero accompagnarla. Tutto ciò viene cancellato con un solo potente gesto da Maimonide. Egli non fa alcun cenno ai miracoli o ad altri segni messianici. Il tempo messianico porta con sé, in negativo, la libertà d’Israele dal presente asservimento, e, come contenuto positivo, la libertà che gli consente di adire alla conoscenza di D. Ma perché si arrivi a ciò non necessario che venga meno né la legge dell’ordinamento morale, la rivelazione della Torà, né la legge dell’ordine naturale. Né la creazione né la rivelazione saranno trasformate… Per Maimonide non è l’interferenza di cielo e terra a costituire il criterio di legittimazione del Messia e della sua missione; egli riconosce soltanto un criterio pragmatico: il successo del Messia nella sua opera”.
Nella sua principale opera filosofica, la Guida dei perplessi (principalmente II, 40 e III, 27), Maimonide descrive i tempi messianici “come i tempi che dovranno assicurare la pace e la sicurezza degli esseri umani facendo scomparire la violenza reciproca fra gli uomini e, dall’altra come i tempi che porteranno le creature alla perfezione spirituale e razionale[27]”. Nella visione maimonidea “i tempi messianici non sono al di là della storia. Fanno parte della storia. Qualsiasi elemento apocalittico è attentamente eliminato perché la cosa fondamentale è di mantenere i tempi messianici nel quadro e nei limiti della realtà umana. La città messianica non è al di là del politico, ma non è neppure al di qua del religioso. Al contrario, comporta la fiducia in un ordine politico ragionevole, capace di assicurare la fine di ogni esilio e di ogni violenza, capaci di raggiungere, nella pace e nella serenità, la felicità della contemplazione[28]”. Per via della sua visione, che ha “ripensato il Messia entro una dimensione storica plausibile, senza i tratti escatologici estremi del messianismo tradizionale, Maimonide ha quasi ‘corso il rischio di essere ritenuto un ateo’ dall’Ebraismo rabbinico[29]”.
Aprendo uno scritto di oltre trent’anni fa[30] Riccardo Di Segni riporta i famosissimi versi di Isaia (2,2-4), considerandoli “uno dei culmini del messaggio religioso e politico di un’intera cultura, l’ebraismo biblico”: “Avverrà in un giorno che il monte della casa di D. sarà stabile in cima ai monti e sarà più alto delle colline e tutti i popoli affluiranno ad esso. Genti numerose andranno e diranno: ‘Venite, saliamo al monte di D., alla casa del D. di Giacobbe, e ci insegnerà le sue vie, e cammineremo per le sue strade’. Poiché da Sion uscirà l’insegnamento e la parola di D. da Gerusalemme. E giudicherà tra i popoli e ammonirà molte genti; e spezzeranno le loro spade per farne vomeri e le loro lance per farne falci. Un popolo non alzerà la spada contro un altro popolo e non studieranno più la guerra”. Questa speranza, espressa oltre venticinque secoli fa, deve rimanere sempre al centro della nostra esperienza religiosa.
[1] Scopo di questo intervento è fornire solamente alcune informazioni di base, senza alcuna pretesa di completezza, vista la vastità della bibliografia sul tema e le numerose posizioni espresse dai Saggi e dagli studiosi nei secoli.
[2] In lingua italiana si segnalano, oltre agli ormai classici lavori di Scholem e Idel, per una disamina storica, D. Banon, Il messianismo, Firenze 2000, e per una trattazione filosofica I. Bahbout, D. Gentili, T. Tagliacozzo (a cura di) Il messianismo ebraico, Firenze 2009.
[3] Per la storia recente di questi studi e per un’ottima rassegna bibliografica vedi M. Goldish, New Approaches to Jewish Messianism, AJS Rewiew 25, pp. 71-83.
[4] I. Bahbout, D. Gentili, T. Tagliacozzo, cit., p. 8.
[5] G. Scholem, Sabbetay Sevi. Il messia mistico, Torino 2001.
[6] R. Della Rocca, Maimonide e il Messianismo in I Bahbout, D. Gentili, T. Tagliacozzo, cit., p. 27.
[7] D. Jaffè, Croyances et conceptions messianiques dans la littérature talmudique: entre rationalisme et utopie in D. Hamidovic (a cura di) Aux origines des messianismes Juifs, Leiden-Boston 2013, p. 174.
[8] A Neher, Il Messianesimo umanistico del Maharal di Praga, La Rassegna Mensile di Israel, 34,5, pp. 259-260.
[9] E. Levinas, Il messianismo, p. 49.
[10] R. Di Segni, I testi: Torà e Talmud, in I. Bahabout, D. Gentili, T. Tagliacozzo, cit. p.12.
[11] D. Banon, cit., p. 10.
[12] G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, Genova 2005, p. 107.
[13] R. Di Segni, cit. p. 15.
[14] G. Di Segni, Messianesimo e Halakhà in I. Bahbout, D. Gentili, T. Tagliacozzo, cit., p. 19.
[15] R. Di Segni, cit. p. 10.
[16] J.J.M. Roberts, The Old Testament’s Contribution to Messianic Expectations in J. H. Charlesworth (a cura di) The messiah. Developments in Earliest Judaism and Christianity, Minneapolis 1992, pp. 39-51.
[17] Vedi R. Di Segni, cit. pp. 11-12.
[18] M. Morselli I passi del Messia, Genova 2007, p. 10.
[19] M. Idel, Mistici messianici, Milano 2004, p. 92.
[20] A. Bar Levav, Cercle messianiques: les mouvements messianiques des Juifs d’Orient in Shemuel Trigano (a cura di) Le monde Sepharade, vol. II Civilisation, p. 175.
[21] Citato in G. Scholem, cit., p. 120.
[22] G. Scholem, cit. p. 113.
[23] G. Scholem, cit. p. 113.
[24] G. Di Segni, cit. p. 19.
[25] La traduzione è ripresa da D. Banon, cit. pp. 36-37. ; per una traduzione integrale in italiano dei cap. 11 e 12 delle Regole dei re vedi L’era messinica in G. Laras, Il pensiero filosofico di Mosè Maimonide, Roma 1985, pp. 195-198.
[26] G. Scholem, cit., p. 140, citato in G. Di Segni, cit., p. 21.
[27] Banon, cit., p. 30.
[28] Banon, cit. p. 35.
[29]C.C. Scordari, Logica della comunità sofferente: per una rilettura dell’Epistola alloYemen (1167-1173) di Mosè Maimonide in C. Basile (a cura di) I filosofi e la politica, Pisa 2017, p. 35.
[30] R. Di Segni, La pace messianica in La pace sfida del regno, Atti della XX sessione di formazione ecumenica organizzata dal S.A.E., Torino 1983, pp. 148-158.