Adon ‘olam è un componimento poetico che è entrato a far parte della liturgia, quotidiana e dello Shabbat, probabilmente non prima del XV sec. È possibile sostenere ciò partendo dalla sua omissione nell’Abudarham (che risale circa al 1340). Tuttavia è opportuno segnalare come, pur essendo stato rinvenuto in testi della ghenizà, non ci siano elementi che consentano di individuarne la provenienza o la datazione. La prima apparizione certa del brano è nell’Etz chayim, di Ya’aqov ben Yehudà di Londra, che risale circa al 1286, alla fine della tefillà di Shachrit di Tishà beAv.
Adon ‘olam fa parte di un gruppo di piyiutim, che comprende ad esempio anche l’Iygdal, che fornisce al fedele, anche se non ha particolari conoscenze filosofiche, i rudimenti del pensiero ebraico. Altri componimenti invece, fra i quali ad esempio molte delle zemirot dello Shabbat, attingono dalla tradizione mistica.
Adon ‘olam viene recitato principalmente alla fine della tefillà di musaf di Shabbat e Yom tov, ma il suo uso è molto vario. Molti lo recitano anche all’inizio della tefillà di Shachrit. Probabilmente era originariamente stato ideato per essere recitato la sera prima di andare a letto, per via dell’affermazione, che compare nel penultimo verso, secondo la quale si affida il proprio spirito a D. Alcuni ritenevano corretto persino recitarlo, per via dello stesso motivo, sul letto di morte. A Worms veniva recitato in pubblico solamente a conclusione della tefillà della sera di Kippur. In Marocco invece si usava recitarlo nei matrimoni.
Circa la paternità del componimento sono state avanzate varie ipotesi. La qualità poetica, l’articolazione del pensiero e la profondità della riflessione filosofica fanno propendere per un’origine sefardita del componimento Spesso è stato attribuito a Shelomò ibn Gabirol (1021-1058); altri lo hanno attribuito, anticipandone la datazione, a Sherirà Gaon, a Hay Gaon, o persino a R. Yochanan ben Zakkay. Molti ritengono che abbia un’origine italiana. La varietà delle ipotesi lasciano quindi ampi dubbi sull’effettiva identità dell’autore.
La versione più conosciuta è quella ashkenazita, che ha cinque stanze e dieci versi. La versione sefardita, con degli inserimenti dopo i versi 6, 8 e 10, ha 15 o 16 versi. Gli studiosi sono in disaccordo circa la natura di tali inserimenti: secondo alcuni appartengono alla versione originale del componimento, secondo altri sono frutto di aggiunte successive.
Un uso sempre più diffuso è quello di recitare Adon ‘Olam all’inizio della tefillà di Shachrit. È possibile collegare tale usanza alle parole di apertura per cui D. è Adon ‘Olam, espressione che rimanda al ritratto rabbinico della figura del patriarca Avraham, che ha istituito secondo i Maestri nel trattato Berakhot la tefillà di Shachrit. Il richiamo immediato è a un midrash molto conosciuto (Bereshit Rabbà 39,1): “è simile a uno che passava da un luogo all’altro, e vide un palazzo in fiamme. Disse: Si direbbe che questo palazzo non ha uno che se ne occupi! Lo guardò il proprietario del palazzo. Egualmente, perché nostro padre Abramo aveva detto: Si direbbe che il mondo non ha chi se ne occupi, lo guardò il Santo, Egli sia benedetto, e gli disse: Io sono il Padrone del mondo”.
Le tematiche affrontate nel piyut
La prima parte del testo affronta il tema, familiare a chi ha conoscenza della filosofia ebraica medievale, della non-contingenza di D. Dal momento che D. precede temporalmente il mondo, senz’altro sopravviverà ad esso. In questo modo quindi è possibile affermare che l’esistenza divina sia indipendente dal mondo, e non viceversa. Questa idea viene sviluppata nelle primissime halakhot del Mishnè Torà di Maimonide (Hilkhot Yesodè ha-Torà I, 1-4). La medesima idea viene sviluppata anche nel piyut Kol Beruè, che spesso viene associato ad Adon ‘Olam. Uno degli aspetti che viene sottolineato è quello della volontà divina: la divinità creatrice manifesta in questo modo, attraverso l’atto creatore, la propria volontà.
Nei primi tre versi possiamo individuare per tre volte la radice m-l-kh, al passato, al presente e al futuro, per tradurre in delle espressioni più concrete l’idea dell’eternità divina, che viene poi declinata, alludendo al Tetragramma, al v. 4, quando si afferma che il Signore è stato, è, e sarà. Le tre espressioni di regalità, che spesso nella tefillà vengono accostate (H. melekh, H. malakh…), a formare un’unica espressione, sono in realtà tre espressioni tratte da tre versi differenti, che vengono pronunciate dai malakhim quando al mattino incoronano D. Il valore numerico delle tre espressioni è 620, che è la ghematrià di keter -corona (Abudarham).
Nel v. 5 viene invece affrontato il tema dell’incomparabilità divina, accennando una polemica nei confronti di concezioni dualistiche, e a maggior ragione trinitarie. La conseguenza di ciò, espressa poi nel v. 6, è che il Signore domina assolutamente da solo.
Con il v. 7 avviene un passaggio importante, perché il focus si trasferisce dalla trascendenza divina alla Sua immanenza. Per l’autore del componimento, ma è possibile affermare per la teologia ebraica in generale, il rapporto fra trascendenza e immanenza non rappresenta un problema particolare, ma è espressione dell’essenza divina. Nella seconda parte del componimento viene sviluppato il tema del rapporto personale con la divinità, la quale, pur mantenendo la propria trascendenza, riesce a instaurare un rapporto personale con i singoli individui. Questa visione si oppone al pensiero aristotelico secondo cui, proprio per via della perfezione divina, la divinità non ha alcun contatto con il mondo materiale. Le espressioni scelte dall’autore si prestano a loro volta ad una lettura di stampo nazionale, per sottolineare come il Signore si interessi del destino del popolo ebraico in generale.
Alcuni riferimenti biblici presenti nel piyut
Un tema degno di interesse è quello delle scelte dei riferimenti da parte dei poeti nelle loro composizioni. Ad esempio a livello macroscopico si potrà notare che in determinate circostanze questi attingeranno a testi provenienti dalla letteratura rabbinica, mentre altre volte prenderanno delle espressioni dal testo biblico, e in ciascun caso può essere significativo l’uso che viene fatto delle espressioni, inserite in un nuovo contesto. Più alta è la poesia studiata, più questo discorso assumerà centralità. Ad esempio Yitzchaq Baer, fra i primi a studiare questo piyut, riteneva che originariamente venisse recitato prima di andare a dormire, per via del penultimo verso. Questa idea discende da un’affermazione dell’amorà Abbayè, che visse intorno al 300, che sosteneva nel trattato di Berakhot (5a) che anche gli studiosi prima di andare a dormire dovessero recitare un versetto richiedendo misericordia, come Beyadekhà afqid ruchì (Sl. 31,6). Il senso attribuito dal Salmista a tale espressione era però evidentemente diverso.
Proprio facendo riferimento al quadro concettuale dell’universo biblico, l’autore del piyut non esprime l’esistenza divina attraverso la categoria dell’esistenza, che non è biblica, ma attraverso quella del regno, generando in questo modo un effetto paradossale, dal momento che quello del regno è un concetto relazionale. Come è possibile regnare se non c’è nessuno su cui esercitare il dominio? Non viene fornita una risposta, ma è possibile aggiungere un elemento: nel primo versetto vengono utilizzate due immagini, quella del re e quella del padrone (Adon), che sono differenti fra loro. Il re infatti in linea di massima non conosce personalmente i propri sudditi, mentre il padrone ha un rapporto personale con il suo servo.
Nel terzo versetto è nascosto un riferimento biblico significativo quando viene detto che, quando tutto sarà scomparso, il Signore rimarrà solo (levaddò). Per mezzo di questo termine infatti viene richiamato un versetto nel libro di Isaia (2, 17): Si abbasserà l’alterigia dell’uomo e si umilierà la superbia della gente e sarà magnificato solo il Signore in quel giorno. Un altro passaggio notevole è al v. 7, quando con le parole Chay goalì, vivo è il mio redentore, si rimanda a un verso centrale nel libro di Yiov, che, pur riferendosi in quel contesto alla vicenda di Yiov, che afferma (Gb. 19, 25): “Sì, io so che il mio liberatore è vivo e per ultimo sulla polvere si erigerà”, assume qui un senso più generale riferendosi a tutti coloro i quali, pur affrontando le ristrettezze della vita, si affidano a D. Con gli ultimi versi viene intensificato il legame con i Tehillim, anzitutto con il riferimento a Sl. 31 ,6 affrontato in precedenza. Nei Salmi è presente una contrapposizione consistente fra l’uomo è il Signore, il custode di Israele che non sonnecchia e non dorme (Sl. 121, 4), e in chiusura è presente il riferimento al famoso versetto, che si recita nella Hallel (118,6) “Il Signore è dalla mia parte, non temo”. In questo modo, andando a dormire, o chiudendo gli occhi al termine della vita terrena, il credente mostra la propria fiducia in D., il quale, come è detto nel Midrash, è molto diverso dagli esseri umani: infatti se lasciamo agli uomini un oggetto nuovo in pegno, questo ci verrà restituito usato e rovinato, mentre noi la sera affidiamo la nostra anima stanca e affranta a D. dopo le fatiche della giornata, e ce la restituisce nuova.
Bibliografia
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