Qualche dubbio sulla critica costante agli “ultra-ortodossi” da parte degli altri ortodossi
Nel suo discorso al matrimonio della figlia, un mio carissimo amico ricordava di come questa avesse accettato il consiglio dei genitori su quale sposo fosse più adatto per lei in virtù del fatto che i genitori stessi si consultavano spesso con i propri rabbanim di riferimento. Queste consultazioni avvengono dunque anche su questioni non strettamente inerenti alla sfera religiosa.
L’approccio descritto è certamente quello che funziona meglio in campo educativo, dove cioè i figli imparano non quello che i genitori insegnano, ma quello che i genitori fanno. Tuttavia la consultazione continua con i rabbanim è qualcosa che ci riporta direttamente al mondo ultra-ortodosso e che trova un suo estremo esempio nella simpatica scenetta del film “La sposa promessa” dove un anziana signora insiste per vedere e consultarsi con il rabbino riguardo quale sia il forno migliore da acquistare e dove il rabbino peraltro molto pazientemente risponde.
In ambienti “ortodossi moderni” (o “aperti”, secondo una definizione migliore) invece siamo soliti etichettare questi comportamenti come un retaggio del passato, perché noi sì che sappiamo separare nelle nostre vite quello che è di stretta competenza dei rabbini (cioè tutte le questioni halakhiche) da tutto il resto, e riguardo a questo sappiamo benissimo come cavarcela da soli!
Siamo infatti sempre sicuri della nostra forza di poter mantenere la nostra identità ebraica pur vivendo a stretto contatto con una società guidata da altri valori e soprattutto da altre priorità.
Un’intuizione del Talmùd sull’episodio degli esploratori nella parashà di Shelàch ci offre un’interessante squarcio sui concetti di forza e debolezza. Secondo il Talmùd le città deboli sarebbero infatti quelle cinta da mura, mentre quelle forti sarebbero quelle senza protezione.
Fuori di metafora, sarebbe proprio chi riconosce la propria debolezza a dotarsi di protezione, mentre chi si sente forte crede di poter affrontare qualsiasi difficoltà e non ne sente il bisogno.
Gli ultra-ortodossi vengono anche chiamati “charedìm”, che in ebraico moderno significa “i preoccupati”. Molti di loro preferiscono far risalire questa definizione proprio al loro atteggiamento nei confronti del mondo esterno. Noi ortodossi aperti siamo soliti invece rifiutare, se non peggio deridere, questo atteggiamento.
Eppure questo atteggiamento potrebbe nascondere non la nostra forza, ma in realtà la nostra debolezza. Se gli ultra-ortodossi infatti sono soliti dare risposte a per noi “sbagliate” a delle problematiche sociali, questo non vuol certo dire che le problematiche non esistano!
Un esempio tra i più dibattuti oggi in Israele. Ci troviamo sempre tutti lì a condannare le proteste degli ultra-ortodossi contro i manifesti pubblicitari che riportano immagini femminili, la segregazione di genere sugli autobus, l’abbigliamento eccessivamente pudico imposto alle donne, ma rimangono purtroppo assai vaghe e deboli le risposte ebraiche ortodosse e alternative alle lusinghe di una società occidentale non solo sessualmente permissiva, ma che svilisce e mercifica il corpo nudo della donna anche per vendere biscotti per cani.
Insomma troppo spesso abbiamo l’impressione che l’ebraismo ortodosso aperto sia solo la negazione a priori di quello ultra-ortodosso, senza preoccuparci però di produrre e soprattutto di diffondere e studiare approcci diversi alla modernità che rimangano però all’interno della stessa Halakhà, sotto l’ombrello della quale si riconoscono tutte le diverse accezioni di ortodossia.
In altri termini, ma siamo proprio sicuri che sia accettabile e saggio concepire l’ortodossia aperta solo e sempre come una ultra-ortodossia “light”?