Sui “coloni” israeliani c’è un fraintendimento che andrebbe chiarito
Iuri Maria Prado – Inoltre 3/11/2025
Ho guardato con attenzione l’intervista che InOltre ha fatto a Luigi Marattin. È una intervista in cui Marattin racconta di un suo viaggio in Medio Oriente, e lui riferisce su ciò che ha visto, sui luoghi che ha visitato, sugli incontri che ha avuto, eccetera. Sicuramente interessante.
Un punto dell’intervista – e attenzione: non è per fare le pulci, non è per cercare il capello, è davvero e soltanto perché il punto è di rilievo e perché denuncia, svela, a dir poco, un enorme fraintendimento, e verosimilmente un pregiudizio – un punto dell’intervista, dicevo, riguarda il cosiddetto apartheid e la cosiddetta Cisgiordania. L’intervistatrice domanda a Marattin: “Hai visto apartheid in Israele?”.
E qui Marattin risponde che in Israele non ha visto nessun apartheid ma non è stato in Cisgiordania; dice che lì la situazione è complicata – dunque lasciando intendere che non si può parlare di apartheid, ma insomma… – e dice che lui è “contro l’insediamento ulteriore dei coloni ebrei in Cisgiordania e sicuramente lì non è un equilibrio”.
Eccoci. In quella che Marattin e molti altri chiamano Cisgiordania in effetti una specie di apartheid c’è, ma riguarda gli ebrei, che non si capisce per quale motivo e in base a quale titolo giuridico, storico, politico siano chiamati “coloni”. “Coloni” di che? Che cosa avrebbero “colonizzato” o starebbero “colonizzando”? Gli arabi che vivono in Israele li chiamiamo “coloni”?
Poi Marattin dice che lui è contro l’ulteriore insediamento di – appunto – “coloni ebrei” in Cisgiordania. Lecito, ovviamente. Ma i motivi di questa contrarietà quali sono? Come è noto i motivi possono essere tanti, sono tanti. Uno, ragionevole per quanto discutibile, è che sia inopportuno che ci siano ulteriori, cosiddetti insediamenti; inopportuno politicamente perché – in tesi – questo complica le cose, perché rende strette e appunto complicate le prospettive di convivenza e pregiudica la possibilità di attuare concrete soluzioni per la sistemazione di quell’area, eccetera.
E questo appartiene a una valutazione politica, ripeto, di opportunità, di fattibilità delle soluzioni, e va benissimo. Ma è a questo che ci si riferisce quando si dice che si è contro l’ulteriore insediamento di coloni eccetera eccetera? È questo che si intende quando si dice che si è contro la presenza, lì, dei cosiddetti coloni? No.
Molto spesso questa avversione non ha nulla a che fare con quelle ragioni di opportunità pratica e politica; e non dico che sia il caso di Marattin, assolutamente no, ma molto spesso quell’avversione ha come presupposto l’idea che quei territori debbano essere senza ebrei. Una Giudea senza giudei; una Giudea judenfrei.
E provate a domandare ai portatori di questa avversione – e lo domando anche a Luigi Marattin – provate a domandare loro: scusate, ma in base a quale norma, in base a quale motivazione di qualsiasi tipo, gli ebrei non dovrebbero poter vivere lì?
Attenzione: è possibile che gli ebrei, appunto per quelle ragioni di prospettiva, insomma per dare una soluzione a questa vicenda ormai secolare, che in realtà è plurimillenaria, è possibile che debbano decidere di sottoporsi a questa ingiustizia, e cioè che per lasciare che abbia sfogo il presunto diritto di autodeterminazione dei palestinesi si impianti uno Stato, un’entità, insomma qualcosa che non preveda contaminazione ebraica.
Qualcosa che si fonda prima sull’apartheid e poi sulla cacciata degli ebrei dalle terre cui gli ebrei hanno a dir poco un concorrente diritto e molto probabilmente un diritto prioritario.
È a queste domande che dovrebbero rispondere i portatori di quell’avversione “all’ulteriore insediamento di coloni ebrei” in quell’area. Ed è difficile che rispondano.
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