Nell’ora di Ne’ilà 5770, 16 settembre 2009
Negli Stati Uniti in questi giorni, come da noi, le Sinagoghe si affollano. Ma a differenza da noi, che facciamo entrare tutti, da quelle parti i posti nelle Sinagoghe sono numerati e entra solo chi ha pagato il biglietto, spesso molto caro. Su questa abitudine circolano anche versioni ironiche su internet: scegli vicino a chi vuoi stare, il tuo avvocato, il tuo commercialista, il tuo medico (nelle varie specialità), il tuo consulente estetico e così via . E’ inevitabile che l’incontro e la lunghezza delle cerimonie, in parte non comprese, si trasformi in un’occasione di distrazione o per pensare ai propri affari. La confusione e la distrazione altrove abbastanza controllata, da noi rischia spesso di diventare incontrollabile. Siamo arrivati alle due ore che ci separano dalla fine del Kippùr e al massimo dell’affollamento. C’è chi viene per pregare intensamente e sta qui ininterrottamente dalle prime ore del mattino, chi viene per la berakhà e la shofar e chi viene e basta perchè attratto da un richiamo lontano. E sono tutti benevenuti.
I Maestri insegnano che berov ‘am hadrat melekh, “la gloria del re è nella moltitudine del popolo”, cioè quante più persone sono presenti tanto maggiore è l’onore del re. Quello che vale per un “re di carne e sangue” vale anche per il nostro Re, “il Re sacro” di cui proprio in questi giorni proclamiamo il dominio sull’Universo e su di noi. Ma quando c’è la folla c’è anche la confusione. Entro certi limiti può essere persino bello, ma non bisogna esagerare. Proviamo a pensare che questi sono momenti sacri, di elevazione spirituale, l’ora della ne’ilàt she’arìm “la chiusura delle porte” del cielo e del Santuario, è come se fosse l’ora in cui i giudici si chiudono in camera di consiglio per giudicarci.
Rispettiamo allora con il silenzio il luogo dove stiamo e il nostro vicino che vuole seguire la Tefillà. Un nostro problema, in ogni momento della nostra esistenza è quello di resistere con dignità alle provocazioni e alle sollecitazioni che ci vengono da ogni parte. Controllare le nostre reazioni, comportarsi con dignità e dare l’esempio è un dovere per ogni essere umano e per ogni ebreo, senza distinzioni. Se non ci riusciamo è perchè la nostra natura è debole, ma questo non vuol dire che non possa migliorare. Ed è proprio questo il senso della teshuvà, da fare in questi giorni e magari proprio qui e ora. Un piccolo esercizio di autocontrollo nel silenzio, qui, sarebbe già un ottimo inizio.
Che cosa significa proclamare con la folla D. Re? Non lo è già? Ha bisogno di noi? Dobbiamo renderci conto che in questa proclamazione si nascondono alcuni messaggi fondamentali e rivoluzionari che l’ebraismo ha portato al mondo. Se Lui è il Re, non ci sono altri Re oltre a Lui. Se Lui è il Re, noi siamo i suoi sudditi, i suoi servi. Se siamo i suoi servi non siamo i servi di nessun altro. Siamo liberi. Se Lui è il Re, in quanto creatore dell’Universo e dell’umanità, gli esseri umani sono creati a Sua immagine. E questo significa che ogni essere umano ha la sua dignità e che la sua vita è sacra. Libertà e sacralità significano responsabilità e moralità, rispetto della legge e del diritto, rifiuto della violenza. Se il mondo “civile” condivide buona parte di questi principi è perchè è stata la nostra fede e la nostra tradizione a insegnarli. Tutto quello che abbiamo letto nei nostri libri di tefillà in questa giornata, da Isaia a Jonà alle numerose preghiere e poesie, ribadisce queste idee essenziali. Molte idee fondamentali che guidano e elevano la civiltà sono un nostro prodotto, un nostro contributo irrinuciabile. Ma non c’è momento in cui non vengano messe in discussione e in cui o si neghi il nostro ruolo, o si scateni l’ostilità verso di noi proprio per questo ruolo. Fermiamoci a pensare ora a tutto questo, a provarne un po’ di orgoglio, ma mai arroganza, a pensare a quanto sia insulso per noi rifiutare o disprezzare delle radici così nobili, a pensare a quale sia il nostro dovere di comportarci con coerenza morale, in pubblico e privato, tanto più quando le strutture sociali cambiano tumultuosamente e rischiamo esser solo dei soggetti passivi che accettano dei modelli esterni.
Se tutto questo è vero, come lo è, non possiamo nascorderci una grande difficoltà: il fatto che l’ebraismo sia esigente. Per realizzare gli obblighi della nostra religione ci vuole una continua attenzione, tutta la vita è controllata, c’è una lunga e complicata serie di regole da rispettare. Non sarebbe meglio, più comodo e più semplice se ci fossero meno regole? Nel suo messaggio per il Kippur di quest’anno rav Jonathan Sachs spiega perchè no. Pensate alle feste maggiori di Pesach, Sukkot e Shavuot. Sicuramente la gente osserva molto più Pesach di Sukkot e Sukkot più di Shavuot. Pensate a quello che succede in queste feste. A Pesach c’è un carico non indifferente di obblighi da rispettare, dalla pulizia della casa al seder al cibo; a Sukkot c’è la Sukkà e il lulav; a Shavuot non c’è praticamente niente. Eppure quale di queste feste è la più celebrata e “frequentata”? Proprio Pesach, la festa che la più esigente, che ha più regole da rispettare. E questa sera siamo qui e altrove raccolti in moltitudini mai viste, come mai in altri momenti dell’anno, e siamo già alla 23a ora di digiuno assoluto e preghiera continua. Se non ci fosse tanto rigore, anche se probabilmente non tutti lo rispettano, qua non ci sarebbe tanta gente. La conclusione su cui bisogna pensare è che le cose che valgono di più sono quelle che esigono di più; è vero per lo studio, per il lavoro, per lo sport come è vero per le cose spirituali. Se l’ebraismo fosse stato più semplice, sarebbe già scomparso. E’ difficile, è esigente, ma se non fosse stato così non avrebbe trasformato il mondo. Il nostro Re esige da noi grandi cose. Ma è questo che ci rende grandi.
Così come siamo entrati in questo edificio richiamati dal sacro, così dobbiamo uscirne con l’impegno a seguire la vocazione di Israele a essere kedoshìm , santi. Dove la santità non è una condizione eccezionale per pochi, ma coerenza alla portata di tutti. E’ un impegno che riguarda noi e il nostro miglioramento. Che devi imporci l’umiltà come regola, come umile fu il nostro maestro Moshè, che non deve mai far guardare un altro dall’alto verso il basso, che sia ebreo o no, che si comporti bene o no. Non siamo noi i giudici ma dobbiamo dare l’esempio e non sottrarci a questo obbligo. Troppe volte cerchiamo il compromesso, mandando all’aria la kashrut, lo shabbat e quantaltro per adeguarci a doveri o formalità sociali. Per non parlare dei modelli familiari in crisi che accettiamo passivamente dall’esterno. Dai tempi del patriarca Yaaqov abbiamo cercato di assumere le sembianze di Esav. Ma non è un gioco vincente neppure nei tempi brevi. Le persone ci rispettano per quello che siamo e per quello che dovremmo essere come ebrei, non per quello che disprezziamo di noi stessi. Un importante prelato qualche hanno fa mi chiese: “ma che razza di ebreo è il tal dei tali che mangia pubblicamente qualsiasi cosa a voi proibita?”. Era un personaggio dei tanti che rappresenta in pubblico quello che lui pensa essere l’ebraismo. Ma la sua pubblica trasgressione non rendeva rispettabile né lui né il suo ebraismo. E se questo discorso riguarda in primo luogo i nostri rappresentanti non esime dall’obbligo chiunque di noi, che è comunque e deve essere un simbolo vivente della qedushà di Israele.
Pensiamo a queste cose nei momenti solenni che seguiranno, seguendo con attenzione ogni momento della preghiera.
“Ricordaci per la vita, Re che desideri la vita, e sigillaci nel libro della vita, per Te, D. vivente”
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