I Chachamim faticano a fornire un’interpretazione del versetto apparentemente semplice nella Parashà di Mishpatim: “Quando vedrai l’asino del tuo nemico giacere sotto il suo fardello, vechadalta me’azòv lo, azòv ta’azòv immo, e smetterai di aiutarlo sicuramente gli fornirai aiuto insieme a lui” [Shemot 23:5]. Rashi sottolinea che la parola “azòv” alla fine del versetto non ha la consueta connotazione di abbandono, perchè tale interpretazione non avrebbe senso nel contesto di questo comandamento, quindi qui, “azòv,” significa fornire aiuto o supporto. Ancor prima di arrivare alla parola “azòv”, però, c’è un’altra difficoltà in questo versetto. Cosa significano le parole “vechadalta me’azòv lo”? La traduzione normale sarebbe “e smetti di aiutarlo”. Rashi dice che anche in questo caso l’interpretazione letterale non può corrispondere a ciò che significa la Torà, quindi la frase deve essere seguita da un punto interrogativo – come per chiedere retoricamente: “Non lo aiuterai?” La risposta è fornita dal versetto stesso: “No. Dovresti certamente aiutarlo.” Tuttavia, Rashi cita anche una Mechilta che insegna che la Torà ha espressamente formulato questa mitzva in modo ambiguo per insegnarci che ci sono effettivamente situazioni in cui è consentito non aiutare l’asino del prossimo in difficoltà. Un esempio di questo permesso di ignorare questa situazione è quando si tratta di una persona anziana o di una persona per la quale sarebbe una rinuncia alla sua dignità scaricare il fardello da un asino. Questa è l’esegesi midrashica. La semplice interpretazione del versetto secondo Rashi è “E tu penseresti di non aiutarlo? Sicuramente dovresti aiutarlo!”
Il Chizkuni interpreta lo stesso versetto come: “e hai voglia di trattenerti dall’aiutarlo”; Sei avvisato di non restare inattivo di fronte all’angoscia dell’animale, anche se il suo proprietario è tuo nemico. Questo è anche il modo in cui Onkelos intende la parola “lo”, poiché in questo modo la Torà descrive la prima reazione di una persona, ovvero che non è chiamato a fare per la proprietà del suo nemico ciò che lui stesso non è riuscito a fare, ma che almeno deve aiutarlo. Questa interpretazione è accennata anche nel commento di Rashi a Devarim 13,9, dove sottolinea che il nemico è esente dal comandamento di “amare il prossimo come te stesso”.
Il Kli Yakar getta una nuova luce su questa mitzva notando che il versetto prima dice “vechadalta me’azòv lo” [ti asterrai dall’aiutarlo] e poi conclude con “azòv ta’azòv immo” [certamente gli fornirai aiuto, insieme a lui]. Questo cambio di pronome nelle due frasi da lo [lui] a immo [con lui] portano ad una domanda: “Perché la Torà non usa lo stesso pronome nelle due occorrenze?” La risposta è che “lo” significa aiutarlo, dargli aiuto, mentre “immo” significa aiutare sì, ma insieme a chi ha bisogno di aiuto. Al proprietario dell’asino non è permesso aspettare che arrivi un altro individuo per poi dirgli “poiché questa è la tua mitzva, va’ a scaricare il mio asino per me”. La Torà ci insegna che se il proprietario dell’asino vuole essere aiutato mentre sta seduto e guarda, allora ci si può astenere dall’offrire aiuto – vechadalta me’azòv lo. Cosa richiede la Torà? “Azòv ta’azòv immo” – aiutalo, fate le cose insieme, con lui! Se il “nemico” si rimbocca le maniche insieme a “te”, allora dovresti aiutarlo. Pertanto, a differenza di Rashi che interpreta la prima parte del versetto come una domanda, il Kli Yakar ci insegna che la Torà inizia dicendo che non si dovrebbe aiutare il prossimo e conclude dicendo che si dovrebbe aiutare, ma a determinate condizioni. Se non cerca di aiutare se stesso, non va aiutato. Se sta lavorando lui stesso allo scarico dell’asino ma ha bisogno di assistenza, allora è mitzva aiutarlo. Il Kli Yakar allarga questo commento all’ambito sociologico: La Torà ci comanda di aiutare il prossimo, sia esso un nostro conoscente, un nostro amico, qualcuno che non abbiamo in simpatia, un povero – immo– insieme allo sforzo che lui stesso fa per soddisfare i propri bisogni.
Shadal porta un commento interessante su questa mitzva comparando questo versetto con il versetto precedente che comanda di restituire un asino che si sia perduto al legittimo proprietario che è nostro nemico. Nel versetto relativo all’asino che si è perso la Torà scrive “il tuo nemico”, perché essere un nemico è più duro dell’odiare e chiunque avrebbe paura di avvicinarsi al suo nemico per paura di essere ucciso, quindi la Torà non lo obbliga se non a ritornare quello che aveva perduto, senza bisogno di avvicinarsi, perché può restituire la perdita attraverso altri. Nel caso dell’odiatore, il caso dell’asino che si accascia sotto il peso del suo carico, ci viene comandato di avvicinarci a lui e di connetterci con lui scaricando il fardello dal suo animale, e forse così facendo anche il suo odiatore riuscirà a riconciliarsi con lui. Inoltre da questo versetto emerge che la Torà protegge anche l’animale, quindi quando l’asino giace sotto il suo carico e c’è del dolore, è comandato a chiunque lo veda, anche se lontano, di avvicinarsi e aiutare il suo padrone a scaricare il carico.
Attraverso queste mitzvot la Torà ci sta trasmettendo un insegnamento che va al di là dell’eventuale danno materiale. Si tratta di un insegnamento relativo alla nostra società nella quale è normale sviluppare rapporti che alle volte possono non essere idilliaci. Nonostante tutto, anche attraverso quello che accade ad un asino come ad altri animali o oggetti, può essere l’inizio di un avvicinamento, l’inizio di un nuovo rapporto fatto di comprensione e di accettazione del prossimo attraverso la vera conoscenza.