Lo scrittore israeliano vede un “orizzonte cambiato” nel rapporto fra Israele e Palestina. “Ora è importante la prosa più che la poesia”
La sua passione civile e lucidità intellettuale resistono al trascorrere del tempo, così come la capacità politica e culturale di spiazzare gli interlocutori, con considerazioni che rappresentano un “sasso” di sagacia e immaginazione lanciato nell’acqua stagnante del dibattito in Israele e in Palestina. Un pragmatico sognatore: questo è Abraham Yehoshua, tra i più affermati e conosciuti a livello internazionale scrittori israeliani. Prima di rientrare in Italia dalla loro missione in Israele e in Cisgiordania, Roberto Speranza e Arturo Scotto lo hanno incontrato nella residenza dell’ambasciatore italiano nello Stato ebraico, Gianluigi Benedetti. Per anni Yehoshua è stato un tenace sostenitore di una pace fondata sulla separazione: due popoli, due Stati. Ma ora l’orizzonte è cambiato, ragiona lo scrittore israeliano, è l’idea dei due Stati rischia di diventare una sorta di mantra ripetuto stancamente pur di non fare i conti con la realtà: e la realtà, annota Yehoshua, impone di abbracciare un’altra causa, di tentare un’altra strada: quella di uno Stato parzialmente binazionale, che riguardi, almeno in prima battuta, i palestinesi della West Bank e di Gerusalemme Est: “Da democratico – sottolinea con foga Yehoshua – non possono rinunciare al principio che tutti i cittadini devono essere eguali di fronte alla Legge, senza distinzione per appartenenza etnica o religiosa. Come progressista, guardo con preoccupazione al peggioramento delle condizioni di vita dei palestinesi e credo che in questo momento è importante la prosa più che la poesia, e ciò significa che riconoscere agli abitanti della Cisgiordania diritti sociali di primaria importanza, quali sono, ad esempio, il diritto alla sanità e alla pensione, sia un tratto fondamentale, perché tangibile, di ciò che può volere dire uno Stato binazionale. Prendere atto della realtà non vuole dire subirla, ma neanche cancellarla in nome di una idea, quella dei due Stati, divenuta ormai impraticabile”.
Mette definitivamente nel cassetto l’idea di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”? Insomma, Abraham Yehoshua corregge se stesso?
“Non sono tipo da parlare in terza persona, non mi ritengo così importante, però stiamo al gioco: Abraham Yehoshua, dopo cinquant’anni nei quali ha sostenuto e battagliato per questa prospettiva, ha preso atto che il tempo e gli uomini l’hanno resa impraticabile. E non mi riferisco solo alla destra israeliana, ma anche alla dirigenza palestinese. Prenderne atto non significa, però, accettare lo status quo e dimenticare la condizione di oppressione nella quale vivono i palestinesi. D’altro canto il fatto che tutti, da Netanyahu ad Abu Mazen, continuano a far riferimento a “due Stati”, significa che c’è qualcosa che non va, che non funziona. Significa che ‘due popoli, due Stati’ è diventato un mantra che viene ripetuto per mettersi a posto la coscienza, specie in Europa, e chiudere gli occhi di fronte ad una realtà che questa prospettiva nega. Oggi il gap per quanto riguarda le condizioni di vita tra Israeliani e Palestinesi è cresciuto enormemente, la forbice si è allargata. Personalmente non me la sento di considerare questo, il peggioramento delle condizioni di vita dei Palestinesi, come un fatto secondario, irrilevante rispetto ai grandi disegni politici. Sarò diventato un vecchio pragmatico, ma non un cinico che se ne frega di come vivano centinaia di migliaia di palestinesi a poche decine di chilometri dalla mia città (Haifa, ndr). Da democratico, penso che ogni cittadino debba essere uguale di fronte alla Legge e godere degli stessi diritti sociali e civili. E questo può avvenire solo in uno Stato binazionale”
Vorrei tornare all’idea dei due Stati. In precedenza, Lei ha affermato che a renderla impraticabile non è stata solo la politica dei governi, come quello attuale, della destra. E’ un j’accuse alla dirigenza palestinese, passata e presente?
“È così. Diciamo che le leadership palestinesi non hanno perso occasione per perdere “l’Occasione”. Nell’estate 2005, Israele (allora il primo ministro era Ariel Sharon, ndr) decise il ritiro da Gaza e lo smantellamento degli insediamenti nella Striscia: la risposta palestinese non fu l’accelerazione di un negoziato, ma i razzi sparati da Gaza contro le città frontaliere israeliane. Nel 2006-2007 l’allora primo ministro Ehud Olmert avanzò una proposta che andava nella direzione dei due Stati che Abu Mazen rigettò. E si potrebbe andare ancora indietro nel tempo, quando altri erano i protagonisti: penso, ad esempio ai negoziati di Camp David di luglio 2000 tra Barak e Arafat, con Clinton come facilitatore: anche lì la proposta avanzata dal primo ministro laburista andava in quella direzione, ma Arafat non ebbe la saggezza dimostrata da David Ben Gurion: prendi meno di quanto speravi, ma consideralo un inizio, un qualcosa di tuo, nel quale edificare uno Stato… Non mi voglio ergere a giudice, non sto qui a distribuire sentenze, ciò che voglio sostenere è che in questi cinquant’anni di rinvii e di rifiuti la realtà si è modificata e oggi l’unica alternativa allo status quo è lo Stato binazionale”.
C’è chi sostiene che quello dello Stato binazionale sarebbe un salto nel vuoto e che gli ebrei israeliani non accetterebbero mai di essere minoranza in uno Stato binazionale.
“La memoria è labile, soprattutto quando fa comodo per scansare i problemi. Nel ’47, Ben Gurion diede subito la cittadinanza agli arabi. Io credo che si possa guardare ad altre esperienze per modulare le forme di uno Stato binazionale: potrebbe essere una confederazione di cantoni, potrebbe essere una Repubblica presidenziale nella quale esistano due Camere: una che rappresentasse le istanze e le esigenze di ciascuna comunità nazionale e altra come rappresentanza di tutti i cittadini…
E i coloni?
“In questo scenario, il problema fondamentale non sono i coloni. Il problema fondamentale è la democrazia. È sancire che ogni cittadino è eguale di fronte alla Legge, che gode degli stessi diritti sociali, civili, politici. Il problema è quello di realizzare una cittadinanza piena. L’alternativa è istituzionalizzare uno stato di apartheid. È questo che si vuole? Mi creda, l’ebraismo è molto forte, anche troppo. Troverebbe comunque i modi per far valere le proprie ragioni in uno Stato binazionale. Ciò che ritengo inaccettabile, e questo sì anti-democratico, che i diritti di cittadinanza siano modulati e gerarchizzati a secondo dell’appartenenza etnica e religiosa. Il nostro sguardo deve alzarsi e abbracciare il mondo, guardano a ciò che è stato realizzato in altri Paesi che pure hanno al proprio interno comunità etniche diverse. Un esempio, è l’America. Negli Stati Uniti non vige una democrazia etnica? Il sistema a cui tendere non si definisce su basi demografiche, ma può reggersi su un sistema di Cantoni con una loro autonomia codificata. Ragioniamoci insieme, io dico. E guardiamo in faccia la realtà: la scusa dei due Stati ci sta portando verso l’apartheid”.
Lei ha sottolineato l’importanza di riflettere sul concetto di “confine” che chiama in causa il rapporto tra due pilastri dell’identità nazionale su cui si fonda lo Stato d’Israele: la democrazia e l’essere il focolaio nazionale del popolo ebraico?
“Sinceramente, non credo che ragionare su uno Stato binazionale voglia significare cancellare la storia d’Israele. Perché già da tempo Israele è uno Stato binazionale: il 20% della popolazione attuale d’Israele (1,1 milioni di persone, ndr) è araba e, viste le tendenze demografiche, è un numero destinato nei prossimi decenni ad aumentare sensibilmente. No, non credo davvero che uno Stato binazionale esteso ai palestinesi di Gerusalemme Est e della West Bank attenti all’identità ebraica. Il punto è un altro, e evidenziarlo fa male, ne sono consapevole, soprattutto a quel mondo della sinistra a me più vicino, e non solo Israele…”.
E quale sarebbe questa amara verità?
“Oggi vi sono centinaia di migliaia di palestinesi alle porte delle nostre città che non hanno alcun diritto. E che subiscono una occupazione sempre più invasiva. E ci sono cittadini israeliani, i coloni, che praticano la sopraffazione in quanto cittadini israeliani che, come tali, sono protetti dall’esercito. La sinistra può continuare a recitare il mantra ‘tutto si risolve con la nascita di uno Stato palestinese’, intanto, però, il numero dei coloni cresce di anno in anno e sfido chiunque a sloggiarli. Oggi non c’è alcuna autorità, nessun leader politico che potrebbe portarli via dalle terre che hanno occupato, ma il termine più giusto è: rubato. Allargare i diritti di cittadinanza ai palestinesi è il modo più concreto, a mio avviso, per contrastare questa deriva. I diritti di cittadinanza rappresentano una risposta concreta all’occupazione. Mi lasci aggiungere che queste considerazioni cominciano a farsi largo anche nella parte più accorta e pragmatica della destra israeliana…”.
Anche Netanyahu?
“Non esageriamo…Ma qualcuno di importante c’è: mi riferisco all’attuale Capo dello Stato, Reuven Rivlin. Lui è certamente un uomo di destra, ma di una destra liberale che non nulla a che vedere con quella ultra nazionalista dei Lieberman, dei Bennett… Rivlin non ha imbarazzo a parlare di diritti di cittadinanza per tutti i palestinesi. È poco? Sinceramente, non lo credo…”.
In una precedente intervista concessa all’HuffPost, Lei sostenne che “l’occupazione dei Territori sta deteriorando moralmente Israele”.
“Sono sempre di questo avviso. Considero l’occupazione una vergogna, l’ho detto e scritto migliaia di volte, ho firmato non so più quanti appelli. Ma dopo aver detto e scritto tutto questo mi chiedo: cosa fare per contrastarla, tenendo conto della realtà e non di principi, lodevoli quanto impraticabili: la mia risposta è agire perché i palestinesi della West Bank abbiano gli stessi diritti dei coloni israeliani, che siano uguali di fronte alla Legge e non, come è ancor oggi, discriminati”.
Cosa può fare l’Europa e, in essa l’Italia, in questa situazione?
“Può fare, deve fare molto. Penso, in particolare, all’Italia che ha buoni relazioni sia con Israele che con i Palestinesi e che ha interesse a un Mediterraneo stabilizzato, e la creazione di uno Stato binazionale potrebbe contribuire a consolidare un tale processo. L’Italia può aiutarci e molto. Anche su Gerusalemme. Lo status dei Luoghi santi della città, non è un problema che riguarda solo ebrei e musulmani, ma investe anche i cristiani. E l’Italia è vista, per la presenza della Chiesa di Roma, come rappresentativa del cattolicesimo. Una ragione in più per far sentire la propria voce, per essere più protagonista da queste parti. È nel vostro, e nel nostro, interesse”.