Da una derashà di Rav Sacks
Esistono dei momenti nella storia dell’umanità che cambiano il mondo. Alcuni di questi sono stati quando Gutenberg inventò la stampa, quando, nel XIX secolo, venne inventato il motore elettrico, o quando, una trentina di anni fa, venne sviluppato il Web. Nella parashah di Wayggash troviamo qualcosa del genere, quando Yosef si rivelò ai fratelli. Quando questi si trovavano in uno stato di shock, continuò a rivolgersi a loro dicendo di non essere afflitto, ne’ arrabbiato con loro, perché la sua vendita si era rivelata l’opportunità provvidenziale per salvare le loro vite. L’artefice di quella incredibile storia non furono pertanto i fratelli, ma D.
Questo momento è cruciale, perché, almeno se seguiamo il senso letterale del testo, per la prima volta sentiamo parlare di perdono. Se ripercorriamo le storie del libro di Bereshit, il diluvio, la Torre di Babele, Sodoma e Gomorra, noteremo che quello del perdono è un elemento che manca. Avraham, nella sua audace preghiera per Sodoma, non si appella al perdono, ma richiama il concetto di giustizia. Se ci fossero degli innocenti, sarebbe ingiusto metterli a morte, e il loro merito dovrebbe salvare gli altri, dice Avraham, ma non chiede a D. di perdonare. Yosef invece ha perdonato, ed è stato il primo. Tant’è che i fratelli non hanno colto il senso del suo gesto, e successivamente, dopo la morte di Ya’aqov, inventano una bugia bianca, che Ya’aqov aveva detto prima di morire che Yosef non si sarebbe dovuto vendicare per quanto subito. In fondo Yosef non aveva parlato esplicitamente di perdono, e il suo discorso non escludeva una qualche forma di punizione. Yosef in realtà, sinceramente, non provava più odio nei loro confronti, nessuna rabbia, nessun desiderio di vendetta. Aveva dominato i propri sentimenti e aveva riletto gli eventi. Il perdono non compare in tutte le culture, non è un concetto universale che caratterizza tutta l’umanità, ne’ una necessità biologica. Per i greci non esisteva perdono, c’era qualcosa di simile, la riduzione della rabbia, ma non il perdono.
Quando si danneggia qualcuno la vittima è arrabbiata e cerca di vendicarsi. Il danneggiatore si trova potenzialmente in pericolo, e per questo fa in modo che la vittima si calmi, dicendo “non sono stato io”, oppure “sono stato io, ma mi sono sbagliato, ti ho fatto del bene in passato, e quindi dovresti lasciar perdere”. In alternativa o in aggiunta chi ha danneggiato può supplicare o compiere un rituale di umiliazione. In questo modo comunica alla vittima di non essere una vera minaccia. Come reazione nella cultura greca la vittima arriva all’assoluzione, ma non al perdono. “Capisco perché lo hai fatto, non potevi comportarti altrimenti, per via di circostanze al di fuori del tuo controllo, ma non ti perdono”. In alternativa, “visto che ti sei umiliato, hai mostrato di rispettarmi, e la mia dignità è stata ristabilita”. Questo ad esempio è lo schema che troviamo nell’iincontro fra Ya’aqov ed ‘Esav nella parashah di Wayshlach. Ya’aqov prepara dei generosi doni per il fratello, convinto di ucciderlo. Si inchina più volte al fratello, con un rituale di mortificazione, ma come epilogo non troviamo il perdono, ma solo la placazione dell’ira. Queste forme di risoluzione dei conflitti si trovamo anche nel mondo animale, fra i primati. Esiste una concorrenza per il dominio fra gli animali sociali, ma devono esistere anche dei modi per ricostituire l’armonia per permettere al gruppo di sopravvivere. Ci sono quindi forme di pacificazione anche in stadi pre-morali, che esistono sin dagli albori dell’umanità. Il perdono non lo è. E’ un’idea che compare per la prima volta nella Torah con Yosef. Perché questa idea nasce proprio qui? Perché nell’ebraismo vi è una diversa concezione della morale. L’ebraismo è principalmente un’etica della colpa, contrapponendosi ad altri sistemi dove troviamo un’etica della vergogna. La differenza fondamentale è che la vergogna colpisce la persona. La colpa si riferisce all’atto. Nelle culture della vergogna chi sbaglia è macchiato, contaminato. Nelle culture della colpa si condanna l’atto, il peccato, non il peccatore. La persona mantiene la propria dignità, si deve riparare per l’atto. Per questo in queste culture troviamo il pentimento, l’espiazione e il perdono. In questo modo la Torah ci mostra come si ottiene il perdono.
I fratelli riconoscono prima la propria colpa, quando vengono ingiustamente accusati di essere delle spie; successivamente, quando viene messo il calice di Yosef nel sacco di Byniamin, i fratelli confessano, e riconoscono una responsabilità collettiva. Come ultimo punto, Yehudah propone di liberare Byniamin e divenire lui schiavo. Questo è quello che viene chiamato pentimento totale. Trovandosi nelle stesse circostanze che hanno condotto al peccato nella prima occasione, ci si comporta in modo radicalmente differente perché si è cambiati. Yosef a questo punto, dopo che i fratelli avevano riconosciuto la colpa, l’avevano confessata, e avevano mutato comportamento, può perdonarli. Può esserci perdono solo in una cultura in cui c’è pentimento. Il pentimento parte dal presupposto che possiamo cambiare, dalla possibilità di affermare che abbiamo sbagliato, che siamo responsabili e non lo faremo mai più. In Grecia e nelle altre culture pagane questo non era ammesso. Quella greca era una cultura fondata sull’onore. L’ebraismo è fondato sul pentimento e il perdono. Non si tratta di due idee fra molte. Cambiano radicalmente la condizione umana. Il pentimento ci dice che non siamo condannati a ripetere eternamente il passato. Pentendomi, mostro di poter cambiare. Il futuro non è predestinato. Il perdono libera dal passato, rompendo l’ineluttabilità della reazione e della vendetta. Per questo, quando Yosef ha perdonato i suoi fratelli, l’umanità è cambiata.Hilkhot Shabbat – Bishu