Yoav, l’ebreo inseguito dalla jihad, morto per fermare il killer di Parigi. La giovane vittima sarà ricordata mercoledì sera su Rai 3 nel documentario “Io sono Yoav”, di Sabina Fedeli, Stefania Miretti e Amelia Visintini.
Stefania Miretti
Si chiamava Yoav Hattab ed era bello come una giornata di sole a La Goulette, il sobborgo di Tunisi dove quest’estate, proprio in questi giorni, avrebbe ingaggiato interminabili sfide a racchettoni in riva al mare con gli amici Moché, Matoilah, Eytan, e al collo avrebbe avuto, come sempre, una stella di David grande così. Ma lui, quest’anno, non è più tornato a casa.
Gli piaceva cantare, con una voce melodiosa che tendeva a stonare, struggente, sui toni più alti. Giocava benissimo a calcio, però quando prendeva il pallone non lo passava mai e gli amici gli gridavano dietro. Era molto religioso, era spiritoso, era innamorato di Delphine da quindici giorni, gli ultimi quindici della sua breve vita.
Cresciuto da ebreo in Tunisia, Yoav è stato ucciso, perché ebreo, in Europa: questa è la storia di una delle quattro vittime della presa d’ostaggi all’Hyper Cacher di Porte de Vincennes lo scorso 9 gennaio. Il più giovane, 21 anni appena, il più coraggioso. Era risalito dalla ghiacciaia, dov’era nascosto insieme ad altri clienti del supermercato, per provare a ragionare con Amedy Coulibaly, il sequestratore. Ma l’estremista islamico non sapeva ragionare. Allora Yoav ha provato a sottrargli la mitraglietta; ma il ragazzo coraggioso non sapeva sparare.
L’eroe ventunenne dell’Hyper Cacher era uno dei 1500 ebrei di Tunisia che ancora vivono tra la capitale e l’isola di Djerba; un patriota, orgoglioso d’aver votato per la prima volta dopo la cacciata di Ben Ali, perfettamente a suo agio con la kippah in testa e la bandiera tunisina sulle spalle. Secondo dei nove figli del rabbino di Tunisi, Yoav era un ragazzo «multiplo e poliglotta, particolare e universale», così lo descrive il suo amico Johann Taïeb; ma a Tunisi i fratelli Hattab sono e si sono sempre sentiti ragazzi di quartiere: «Del quartiere Lafayette: tunisini duri e puri» dice Avishay, il maggiore. I giovani di confessione ebraica studiano nella scuola diretta dal rabbino Hattab, pregano nella Gran Sinagoga di Avenue de Paris, poi inseguono sogni e palloni sui campetti di periferia come tutti i loro coetanei musulmani, e come loro emigrano per cercare l’Europa, la mixité, una vita migliore.
Il sogno francese
In Francia Yoav c’era arrivato dopo il diploma, per condurre la non facile vita dello studente-lavoratore con pochi euro in tasca. Una vita di banlieue, tra Vincennes e Montreuil; una vita da maghrebino a Parigi, problemi di visto, stanze rimediate, troppi pasti consumati da solo; una vita da ebreo a Parigi, in strade dove se porti la stella di David al collo rischi l’aggressione. Il rabbino Hattab racconta che i primi tempi suo figlio, quanto telefonava a casa, gli diceva: «Papà, ma qui sui muri c’è scritto “morte agli ebrei!”». Quasi un percorso di formazione alla rovescia, oltre una frontiera già attraversata da tanti ebrei tunisini prima di lui. Per esempio Gabriel Mamou. Lui s’è sentito male la prima volta che gli è sfilato accanto un corteo di solidarietà a Gaza: «C’erano 30 mila persone che gridavano “morte agli ebrei”. In Tunisia non potrebbe mai succedere. Per come abbiamo vissuto noi a Djerba, se io non trovo una sinagoga posso entrare in moschea e fare la mia preghiera».
Solidarietà religiosa
Non è, naturalmente, il mondo ideale quello che ha cresciuto Gabriel e i ragazzi Hattab. Ma se in Europa – come nota Jacob Lellouche, voce storica della comunità ebraica tunisina – «la gente crede di avere anche la libertà d’odiare l’altro», in Tunisia ancora resiste una solidarietà religiosa tra credenti di fedi diverse, impastata con lunga tradizione di laicità. Il papà di Yoav ci ha raccontato che quando era a Parigi per riconoscere il corpo del figlio, dalla vicina moschea, terminata la preghiera dell’alba, una delegazione è partita per bussare alla porta di casa sua: «“Madame”, hanno detto a mia moglie, “siamo a sua disposizione”. I musulmani qui sono più che fratelli e non abbiamo mai avuto quel genere di problemi. Li abbiamo avuti soltanto in Europa».
Islam radicale europeo
Già, in Europa, dove mette radici un islam radicale che – così la pensa il rabbino Hattab – «è stato fabbricato, non è l’originale». In Europa dove un terrorista che non sa leggere l’arabo uccide, in nome dell’Islam, il ragazzo di Tunisi che l’arabo lo parla benissimo perché è la lingua in cui la sua mamma ebrea gli ha insegnato a parlare. In Europa dove anche Yoav, che un tempo scriveva su Facebook «Io amo Mosè, amo Gesù, amo Maometto: la pace sia con loro», misura la distanza che passa tra la nostalgia d’un universo ricomposto e una realtà che sempre più ti costringe a schierarti. «Io a Djerba ho moltissimi amici musulmani. In Francia, zero»: così la spiega Gabriel, a Parigi da anni.
Quando è morto a Porte de Vincennes, Yoav era appena rientrato da un viaggio di gruppo in Israele, e per lui era stata un’esperienza entusiasmante. Dicono alcuni degli amici più recenti che stesse pensando di trasferirsi là. Dicono i vecchi compagni di scuola, i suoi familiari, che sarebbe invece senz’altro tornato a Tunisi. Un pensiero postato su Facebook prima di salire sull’aereo per Tel Aviv segnala il travaglio, o magari il presentimento: scritto metà in arabo e metà in francese, è una dichiarazione d’amore per la Tunisia, «la nostra magnifica patria, dove non odiamo nessuno».
A Gerusalemme, questo è certo, il religiosissimo Yoav avrebbe voluto essere sepolto, ed è lì che riposa: «Per me è molto doloroso saperlo così lontano» confida il padre, il rabbino che mentre interrava il suo magnifico ragazzo a un giorno di viaggio e zero relazioni diplomatiche di distanza, ne ha approfittato per stringergli i piedi tra le mani, «come lui faceva con me, quando avevo dei problemi».
Difficile non sentirsi costretti a scegliere tra due bandiere, di questi tempi, se si è un ebreo maghrebino che vive in una banlieue di Parigi. Ma a vent’anni il finale non può che essere aperto, e così è giusto lasciarlo; salvo sapere che tutto può finire in un attimo, perché con mille suggestioni in testa, un amore nuovo e un amico che t’aspetta per fare insieme Shabbat, vai a comprare una bottiglia di vino nel posto in cui sta per entrare un Coulibaly. Perché la fine di Yoav è anche la storia di come si diventa assassini senza aver capito in nome di cosa.
Una storia tristissima.
La Stampa 27.7.2015