La Mishnah in Sanhedrin 10, 1, dopo avere scritto che tutti gli Ebrei hanno parte nel mondo futuro, si sofferma su tre eccezioni: “Colui che dice che la resurrezione dei morti non è un principio della Torah, colui che dice che la Torah non è Divina e l’epicureo. Chi è l’epicureo? Ci sono diverse interpretazioni. Colui che disprezza la Torah e i Talmidè Chakhamim. Colui che non crede nell’esistenza di H. Maimonide spiega la parola come un termine ebraico da hefqer = res nullius.
E’ una persona che crede che il mondo non abbia din nè dayyan, non sia cioè soggetto a un’autorità superiore. R. Shim’on ben Tzemach Duran e poi R. Yossef Albo nel Sefer ha-‘Iqqarim hanno scritto che tre sono i principi di fede nell’Ebraismo: Metziut H. (esistenza di D.), Torah min ha-Shamayim (origine celeste della Torah) e Sakhàr wa-‘Onesh (ricompensa). Il primo è riferito al presente, il secondo al passato e il terzo al futuro. Un pensatore del Novecento sintetizza la triade nel concetto triangolare: creazione-rivelazione-redenzione. Sovrapposto all’altro triangolo: D.-mondo-uomo si forma il Maghen David.
In particolare la fede nell’origine divina della Torah è di importanza fondamentale. Scrive Barth: “Un Ebraismo che non accetti il principio della Torah min ha-Shamayim è un Ebraismo senza la guida del Creatore, è un Ebraismo senza le 613 Mitzwòt, è un Ebraismo che non avrebbe mai conosciuto né gli scopi divini, né le vie attraverso le quali raggiungerli” (Problemi eterni…, p. 185-6). L’autore dell’Igdal scrive subito dopo che “H. non sostituirà e non muterà mai la Sua Torah”. Nei suoi articoli di fede Maimonide riconduce questo principio al versetto: “Non aggiungerete alla parola che Io vi comando né toglierete ad esso” (Devarim 13,1), sia rispetto alla Torah Scritta che alla Torah Orale.
La polemica è naturalmente rivolta alle religioni che dall’Ebraismo hanno preteso di derivare e in particolare al Cristianesimo, che ha fatto dell’abolizione della Legge un caposaldo della propria dottrina (‘Etz Yossef a Otzar ha-Tefillot p. 56). Considerazioni rilevanti su questo aspetto sono state scritte da un Rabbino italiano dell’Ottocento, R. Elia Benamozegh. Nelle prime pagine del suo saggio “Morale ebraica e morale cristiana” egli annota che l’abolizione della Torah è una delle contraddizioni in termini su cui si fonda il Cristianesimo e nelle quali rivela tutta la propria debolezza: “Perché mai questo bisogno di una nuova rivelazione, sorta un po’ più di dieci secoli dopo quella del Sinai – domanda – non dovrebbe più manifestarsi magari venti, cinquanta secoli dopo il Vangelo? No, non è possibile sostenerlo. Vi è una parola che il cristianesimo, con tutte le sue pretese di superiorità, ha unito per sempre alla sua esistenza…; c’è un nome che è divenuto, dopo secoli, la qualifica della più grande scissione… che la Chiesa abbia mia subito: protestantesimo! Il protestantesimo? Ma è il cristianesimo che l’ha introdotto per primo nel mondo, stabilendo un principio che di secolo in secolo si è ritorto contro lui stesso; un principio che permetterà un giorno l’avvento di un altro messianesimo. In una parola, la Chiesa non ha avuto e non avrà dei protestanti se non perché essa, per prima, ha protestato contro l’Ebraismo” (ed. Carucci, p. 7-8).
In sostanza, la tesi del Rav Benamozegh è che il cristianesimo, essendo prodotto di una crisi, non potrà che essere vittima a sua volta di una nuova crisi e soccombere inevitabilmente a essa. A rincarare la dose giunse nel Novecento R. Yechiel Weinberg nei suoi Responsa Seridè Esh: “Una religiosità nata da una crisi spirituale non può avere altro ideale e sentimento che la rinuncia passiva… L’estraniazione dalla vita è precisamente la “redenzione” cristiana. E’ chiaro che una condizione spirituale siffatta non è destinata a durare. Nell’animo umano è presente una forza più potente: il sentimento tumultuante della vita, il desiderio di conquista e di vittoria nella lotta per l’esistenza. E dal momento che il cristianesimo non è riuscito ad abbattere l’istinto di conquista e di vittoria insito nell’essenza stessa di tutti i popoli, ecco che non rimane loro altra via d’uscita che sfuggire alle prescrizioni religiose, ovvero confinare la religione entro monasteri sperduti… In tal modo l’evoluzione dei popoli è arrivata per forza di cose dove è arrivata… Ben diversa è la religiosità ebraica: non è figlia di una crisi dello spirito. E’ essa stessa a costituire la spinta originaria e la sorgente primaria dell’anima ebraica. Il popolo d’Israel ha ricevuto la rivelazione Divina. Perché proprio Israele ha meritato la rivelazione della Luce Divina in modo così concreto ed evidente, cosa che nessun altro popolo della terra ha avuto? Perché il popolo d’Israel è stato dotato fin da subito del beneficio del carattere religioso innato. Il padre della nazione (Avraham) ha riconosciuto il suo Creatore all’età di tre anni, dicono i Maestri” (parte IV).
L’altra grande contraddizione in cui si imbatte il cristianesimo a parere del Rav Benamozegh è la pretesa di anticipare l’era messianica ai tempi nostri come se fosse già cominciata, generando di fatto una finzione. La fede nella venuta del Mashiach “alla fine dei tempi”, come scrive l’Autore dell’Igdal, ci ha creato molti più problemi di quanti non ne abbia risolti. Oggi il dibattito sul messianismo è nuovamente serrato. Accanto a chi vuole dare a tutti i costi una precisa identità alla figura tanto attesa c’è chi invece esclude la venuta di un Mashìach storico, rinnegando di fatto uno degli Articoli della nostra fede formulati da Maimonide, il quale peraltro già diceva di diffidare di coloro che si sforzano di calcolare la fine dei tempi (mechasshevè qitzin). Rav Soloveitchik si colloca nel “giusto mezzo”, elaborando su questo come altri argomenti un approccio originale. Egli parte dall’osservazione che l’unica menzione del nome di Moshe nella Haggadah di Pessach è nella citazione del versetto: “ed ebbero fede in D. e in Moshe suo servo” (Shemot 14,31).
Come è possibile che il grande artefice della nostra liberazione non vi sia ricordato? Lo “spazio” di Moshe non è nella sfera politica o militare, bensì in quella intellettuale. Rav Soloveitchik nota che Moshe non è noto come goalenu (nostro Redentore), bensì come Rabbenu, nostro Maestro. Il Rav cita a questo punto l’opinione di un certo Rabbì Hillel nella Ghemarà (Sanhedrin 99a) secondo cui il Mashìach incaricato da D. di redimere il popolo non sarà una persona fisica. Gli altri Maestri invocarono su di lui il perdono Divino per questa sua affermazione blasfema. Ma Rav Soloveitchik conclude con una riflessione significativa. In modo simile a quanto accaduto a Moshe nella Haggadah dell’uscita dall’Egitto, “quando sarà scritta con l’aiuto Divino la Haggadah della nostra redenzione finale, neanche il nome del Mashìach vi sarà menzionato”! (da: Rav Soloveitchik, Zemàn Cherutenu, Yedi’ot Acharonot, 2010, p. 149-157). Insomma, il falso Mashìach non sarà per forza quello che è già arrivato, come ha affermato qualcun altro, ma quello di cui pretendiamo a ogni costo di conoscere il nome.