Un reportage dalla regione di Joseph Roth e Paul Celan, cancellata dal ‘900. Culla dell’Illuminismo ebraico e guazzabuglio di culture
Enrico Arosio
Robert Musil, per il suo Uomo senza qualità, aveva creato la Kakania. Gregor von Rezzori s’era inventato, anni dopo, la Maghrebinia. Quanto a Joseph Roth, aveva immaginato un Hotel Savoy di 864 stanze, città-Stato ai margini di quell’Est metafisico che comincia dopo Vienna e finisce in Siberia. Erano tutti luoghi inventati. Finzioni letterarie. Metafore della Mitteleuropa perduta. Poi c’era la Galizia, che esisteva davvero.
Che cos’era: un regno, un ducato, una regione, un territorio conteso? Di tutto un po’. A lungo fu sotto la Corona d’Asburgo, e dunque Austria. Dal 1918 se la riprese la Polonia, e la vicina Bucovina andò alla Romania. Dopo il 1945 una parte fu inglobata nell’Urss, è oggi si è sciolta tra Polonia e Ucraina. Sono rimasti i Carpazi, ma la Galizia non esiste più, è diventata un luogo ipotetico.
Martin Pollack, scrittore austriaco, le ha dedicato un libro straordinario dal titolo secco: Galizia (Keller, traduzione di Fabio Cremonesi, 288 pp., 18 euro). Pagina99 lo ha letto in anteprima. L’autore lo definisce «un viaggio immaginario attraverso una regione scomparsa». Dove i nomi stessi delle città sono cangianti come le forme di sovranità. Leopoli, la principale, sarebbe Lemberg che sarebbe Lwów che sarebbe L’viv.
In Galizia nessun idioma comandava appieno: coabitavano il polacco, il tedesco, lo yiddish, il ruteno, e si parlava anche il romeno, l’ungherese, il russo. «Una Babele variegata e sconosciuta», riassume Claudio Magris in una importante postfazione centrata su questa «patria dei senza patria». Leopoli era considerata la porta sul mondo. Un mischmasch, un guazzabuglio non solo in senso etnico.
Intorno al 1900, sotto l’Impero di Francesco Giuseppe, aveva 160 mila abitanti, polacchi, ebrei, ruteni (gli odierni ucraini), e nei dintorni minoranze tedesche. I polacchi erano in posizione dominante, e la burocrazia polacca, in particolare, sbarrava la strada alle carriere altrui nel pubblico impiego. La città aveva qualche pretesa, piena com’era di gente ambiziosa. La stazione principale, scrive Pollack, «riempiva di orgoglio ogni abitante» con le sue alte volte vetrate e l’arrivo dei treni da Vienna, Berlino, Parigi.
A Leopoli si riuniva il Parlamento galiziano, risiedevano il governatore, tre arcivescovi (cattolico romano, armeno e di rito greco), un rabbino capo. Si erano insediati diversi consolati esteri. L’hotel Bristol e altri alberghi eleganti tenevano a un certo tono. Leopoli era sede universitaria. Ed era un centro dell’Illuminismo ebraico. Se il ruteno rimaneva contadino, il proletario ebreo era inquieto, mirava a diventare borghese e suscitava invidie.
Gli antisemiti non erano pochi, specie tra i polacchi cattolici. Joseph Roth definiva l’antisemitismo nelle regioni orientali della monarchia «il socialismo degli imbecilli». Tanti giovani ebrei sognavano un’occasione per andarsene. Non solo dalle Judengassen, i vicoli fangosi con le buie casine di legno riscaldate da stufe precarie dove di frequente scoppiavano incendi; ma verso l’agognato Occidente, verso Vienna, Berlino, New York, il Brasile.
Veniva da Przemysl, città fortificata sul fiume San con guarnigione di truppe austro-ungariche, la ragazza Helene Rosenbach: poté studiare a Vienna, divenne assistente di Sigmund Freud, sposò un noto medico, e con il nome di Helene Deutsch si affermò come psicoanalista negli Stati Uniti.
Pollack s’immagina di viaggiare sulle ferrovie imperial-regie fino alla Bucovina. A ogni tappa ci fa conoscere personaggi nuovi, estrae aneddoti vivaci, a volte leggende. Come la diceria, non priva di grazia poetica, che in certi paesi «gli abitanti di notte legassero il municipio al tiglio del paese per proteggerlo dai ladri». Con calda partecipazione umana fa rivivere frammenti di un mondo che finì annientato prima nei crematori della Shoah nazista, poi nelle deportazioni staliniane.
In Galizia a inizio Novecento gli ebrei erano una marea, oltre 800 mila, e la metà di loro erano negozianti, attivi nei commerci più vari. Chi fece studiare i figli, chi si assimilò, i sionisti emigrarono in Palestina, i socialisti a Berlino, gli avventurosi nelle Americhe; ma tra quelli che rimasero, tanti Kaftanjuden, gli ebrei col caffettano di Roth, salirono in cielo per la via del camino.
La miseria era ben visibile, le condizioni igieniche spesso terribili, l’ignoranza diffusa, ma una certa enfasi in quelle contrade era la norma. Leopoli era detta «piccola Vienna», i dintorni di Terebovlja la «Svizzera di Podolia», il villaggio di Busk la «Venezia della Galizia».
La regione di Drohobic, addirittura, la «nuova Pennsylvania». Un motivo c’era. Drohobic crebbe, nell’Ottocento, sullo sfruttamento dei campi petroliferi. Dapprima minime imprese locali, poi compagnie internazionali, con ingegneri tedeschi e americani. Gli speculatori, in quella febbre contagiosa, ci sguazzavano. Sorsero ville esagerate con scalinate in marmo e fontane a zampillo.
Gli industriosi ebrei che all’inizio facevano tutto, sia i finanziatori sia i manovali e i sorveglianti, furono negli anni contrastati dalle banche austriache, che si presero operai cristiani. Discriminazioni incrociate. Eppure, fino agli anni Trenta, la Galizia fu un esperimento di convivenza etnica e culturale, non solo uno spazio economico: il che ci fa riflettere sulle pulsioni antieuropee di oggi.
Colpisce come un territorio così piccolo abbia prodotto tanti ingegni. Da Drohobic proveniva, figlio di un mercante di tessuti ebreo allontanatosi dall’ortodossia, Bruno Schulz, l’autore di Le botteghe color cannella, che paragonava la corsa all’oro nero a «un selvaggio Klondike». Schulz morì a 50 anni, nel 1942, assassinato dalle SS dopo un rastrellamento.
In una modesta casa di Brody (donde origina il cognome dell’attore americano Adrien Brody) crebbe Joseph Roth, che poi studiò all’imperial-regio liceo di lingua tedesca Kronprinz Rudolf, e dedicò alla Galizia e all’aspro mondo dello shtetl pagine fondamentali della letteratura centroeuropea, da Ebrei erranti alla Cripta dei Cappuccini. A Czernovitz, dove borghesia e intellettuali si incrociavano al Café Habsburg e al Café de l’Europe, era nato il poeta Paul Celan, che poi morì suicida a Parigi nel 1970.
Di Czernovitz era anche Gregor von Rezzori, l’apolide aristocratico vissuto a lungo in Toscana, di cui Pollack però non parla. Da Ivano-Frankivs’k arrivò a Berlino l’ex fornaio Alexander Granach, che fece una brillante carriera da attore nei teatri di Max Reinhardt. Da Tarnów (dove «il Municipio è circondato da un mare di sporcizia, da cui sorge come un’isola») veniva lo scrittore di lingua tedesca Karl Emil Franzos, che per definire Galizia e Bucovina coniò il termine Halb-Asien, Mezza Asia; lo pensavano in molti, ma lui fu il primo a metterlo per iscritto.
C’è un particolare importante che non va dimenticato: gli ebrei che volevano gettarsi alle spalle ortodossia, povertà, superstizione avevano come traguardo la lingua e la cultura tedesca. Non è un caso che siano in tedesco, e non in polacco, le più importanti testimonianze letterarie di quel mondo. Per tornare a Pollack, l’autore si muove nel cuore meticcio della Mezza Asia con piglio da antropologo. Accurato, mai pedante, ci regala anche scoperte divertenti, come le pagine sulla minoranza degli huzuli, montanari di cultura patriarcale, renitenti alla leva, dediti al brigantaggio.
Le ragazze più belle erano dette «le parigine dei Carpazi». Ma un motto maschile era: «Non picchiare una donna è come non affilare una falce». Angeli e demoni di un angolo d’Europa svanito nel nulla, ma che riecheggia nei nostri cuori e ravviva le nostre ansie.
http://www.pagina99.it/2017/03/14/viaggio-in-galizia-martin-pollack-libro-keller/