הנה עין ה’ אל יראיו למיחלים לחסדו. להציל ממות נפשם (תהלים ל”ג, י”ח-י”ט) “Ecco, l’occhio di H. vigila sui Suoi tementi, su coloro che sperano nella Sua bontà, affinché salvi le loro persone dalla morte…” (Tehillim 33, 18-19).
Viviamo sull’orlo di una crisi di nervi mondiale. ‘Amaleq torna a colpire. Come ci insegna la Parashah odierna egli è il nipote di Esaù, essendo figlio di suo figlio Elifaz e della concubina di questi Timnà’ (Bereshit 36,12). La domanda che tutti noi ci poniamo è: come affrontare la situazione. Da un lato ci rendiamo conto che non possiamo fare a meno di mettere in campo tutte le risorse umane disponibili.
E’ una condizione che richiede azioni concrete, qui e ora. Non è il momento di dedicarci esclusivamente alla preghiera, sperando nell’aiuto Divino come la sola forza in grado di salvarci. E’ precisamente quanto raccomanda R. Itzchaq ‘Aramà introducendo il suo commento alla nostra Parashah: “occorre darsi da fare. Se venisse a mancare lo sforzo umano dove si rende necessario sarebbe una trasgressione grave. Un versetto ci garantisce che “H. tuo D. ti benedice in ogni opera delle tue mani” (Devarim 2,7). Chiosano i Maestri: anche se te ne stai con le mani in mano? No, dal momento che è scritto: “in ogni opera delle tue mani”: se agisci sei benedetto, altrimenti non sarai benedetto! (Midrash Shocher Tov). D’altro lato, peraltro, ci rendiamo pure conto che si tratta di un problema più grande di noi. Siamo consapevoli della nostra piccolezza, del fatto che non possiamo farcela da soli: dobbiamo avere fede!
A dire il vero, fin dall’inizio della nostra Parashah Ya’aqov nostro padre si pose lo stesso problema. Può essere istruttivo imparare da lui. “E Ya’aqov mandò mal’akhim davanti a sé a Esaù suo fratello nella terra di Se’ir, il campo di Edom”, recita il primo versetto. Ho lasciato volutamente non tradotta la parola mal’akhim perché ha un doppio significato. Può significare semplicemente messaggeri, ma Rashì il Parshandata, il Commentatore per eccellenza preferisce spiegarla nel suo senso più comune di “angeli”: mal’akhim mammash, “angeli davvero”. Sorge a questo punto la domanda: che senso ha inviare a Esaù degli angeli? Data la personalità dell’interlocutore, non sarebbe stato più che sufficiente mandare messi umani?
Ecco il contenuto del messaggio. “Così direte al mio signore, a Esaù: Così ha detto il tuo servo Ya’aqov: con Lavan ho abitato e da lui mi sono attardato finora. Lo mando a dire al mio signore al fine di trovar grazia ai tuoi occhi”. Rashì dà a proposito dell’espressione: “con Lavan ho abitato” due interpretazioni. La prima si basa sul fatto che il verbo garti (“ho abitato”) è connesso con la parola gher (“straniero, precario”): “a casa di Lavan non sono diventato né un principe, né una personalità importante”. Insomma, le berakhot e le promesse di superiorità che papà ha dato a me al posto tuo e per le quali mi odi sono ben lungi dall’essersi realizzate. Puoi dunque deporre l’ascia di guerra. La seconda spiegazione si basa invece sulla ghematriyà. Garti ha il valore numerico di 613, quante sono le Mitzwòt della Torah: “a casa di Lavan, nonostante tutto, sono riuscito a osservare le 613 Mitzwòt”. Domanda: quanto può importare a Esaù di quante Mitzwòt ha osservato Ya’aqov? Forse che in questo modo Ya’aqov sperava di trovar grazia ai suoi occhi? E poi, pazienza che Ya’aqov rivolgendosi direttamente a suo fratello lo chiamasse “mio signore”, ma perché incaricare i messi Divini di usare a loro volta questa espressione nei confronti di Esaù?
E ancora: “ho sì avuto buoi e asini…” ma, si affretta a precisare Rashì nel suo commento, nulla hanno a che vedere a loro volta con le famose berakhot. Papà mi aveva detto che sarei vissuto sulla rugiada del cielo e sul grasso della terra, ma gli animali non provengono né dal cielo, né dalla terra. Il Midrash Tanchumà (Wayishlach 1) suggerisce anche a questo proposito un’interpretazione diversa, messianica: il bue simboleggia Yossef (cfr. Devarim 33,17) e rappresenta il Mashiach figlio di Yossef la cui venuta precederà quella del Mashiach figlio di David “che cavalcherà un asino” (Zekharyah 9,9). Che cosa poteva importare a Esaù della visione messianica di Ya’aqov? Anzi, forse così dicendo l’avrebbe fatto adirare ancora di più. Sappiamo a cosa allude tutto ciò nel futuro: “E saliranno i salvatori sul Monte Zion a far giustizia del monte di Esaù e a H. apparterrà il Regno”, dirà l’ultimo versetto (‘Ov. 1,21) della Haftarah che abbiamo letto!
Una delle regole di lettura del commento di Rashì alla Torah è che quando egli dà due interpretazioni di una medesima espressione, in genere separandole con le parole davar acher (“altra spiegazione”), significa che nessuna delle due lo soddisfa completamente. Insomma egli ritiene che abbiamo bisogno di entrambe per comprendere appieno il senso del versetto. La prima interpretazione che abbiamo dato indica rinuncia alla forza. E’ la tecnica che Ya’aqov adotta, come egli stesso ammette esplicitamente, per trovare grazia agli occhi di Esaù. In termini moderni diremo disponibilità al dialogo. La diplomazia è la prima arma che dobbiamo cercare di adoperare in ogni caso. Ecco perché Ya’aqov si affretta a mandare a dire a suo fratello: “a casa di Lavan non sono diventato né un principe, né una personalità importante”. Si rimpicciolisce, quasi si umilia. Ma il davàr acher, la “seconda spiegazione” muta completamente registro. Qui Ya’aqov vuole mostrare a suo fratello che non ha alcun timore di lui. Il merito dell’osservanza delle Mitzwòt, la consapevolezza della propria rettitudine e la fede nella venuta della Redenzione finale dànno a Ya’aqov la giusta sicurezza di sé nell’affrontare una missione apparentemente impossibile. Ya’aqov ha l’accortezza di usare con abilità il doppio senso. Adoperare parole che suonino alle orecchie del suo interlocutore nel loro significato più semplice e immediato, ma che nello stesso tempo abbiano un senso più profondo, tale da costituire nello stesso tempo una Tefillah e una supplica da elevare al Santo Benedetto. Occorre però stare ben attenti che questo secondo significato non sia colto dal nemico, affinché non interferisca e acquisisca forza anziché perderne.
Per questo Rashì dice che Ya’aqov inviò a Esaù veri e propri angeli. E’ il No’am Elimelekh a suggerirci questa analisi. Nella Parashah della scorsa settimana Ya’aqov aveva visto in sogno la scala dalla terra al Cielo con gli angeli che “salivano e scendevano su di essa”. Dal momento che essi hanno sede in Cielo, perché qui prima salivano e poi scendevano? Sarebbe stato assai più logico invertire i verbi! Spiegano i Maestri che ogni Tefillah che noi pronunciamo produce un angelo che dalla nostra bocca sulla terra sale in Cielo per poi ridiscenderne con effetti positivi su di noi. Gli angeli inviati ora da Ya’aqov rispondevano anche a questa esigenza. Avevano l’incarico non solo di riferire a Esaù il messaggio di sottomissione di Ya’aqov, ma anche di portare in Cielo la supplica di quest’ultimo. Nessun essere umano avrebbe potuto assolvere a quest’ultimo compito! “Con Lavan ho abitato (garti)” e “ho avuto buoi e asini…” sono frasi che si prestano a loro volta alla duplice interpretazione. Tranquillizzare Esaù della propria disponibilità a trattare con lui da un lato, ma dall’altro riaffermare la propria forza spirituale che si esprime nell’osservanza della Torah e delle Mitzwòt e nella fede nella venuta del Mashiach.
Anche l’espressione “mio signore” che Ya’aqov mette esplicitamente in bocca agli angeli si spiega nello stesso modo. Esaù l’avrà presa come il riconoscimento di una dignità personale, ma nel pronunciarla Ya’aqov avrà senz’altro pensato al vero Signore del mondo, il Santo Benedetto. E non è un caso che il testo ebraico non dice “Così direte al mio signore Esaù”, bensì: “Così direte al mio signore, a Esaù”, come se gli interlocutori fossero due anziché uno: il “mio Signore” vero, cioè H. e Esaù. “E Ya’aqov mandò mal’akhim davanti a sé a Esaù suo fratello”, recita il primo versetto della Parashah. La Tefillah, accompagnata da tutti gli altri meriti, farà sì che Esaù ritorni presto a essere nostro fratello. Che il S.B. abbia dunque presenti i meriti nostri e dei nostri padri affinché possiamo trovare grazia ai Suoi occhi. E H. che è zokhèr chasdè avòt (“Colui che ricorda i benefici dei Patriarchi”) si ricordi di noi con bontà e gradimento. Amèn.