Salvami per favore dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esau, perché ho timore di lui, che possa venire e colpire me e le madri con loro figli (Genesi 32:12). Nello Zohar, si trova la domanda del perché Giacobbe esprima la sua preghiera ripetendosi in termini “dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esau”. Poteva dire solamente “salvami” e il Signore sapeva già da chi, o da cosa, Giacobbe voleva essere salvato.
La risposta dello Zohar a questa domanda, ci da un grande insegnamento: colui che prega, deve essere molto dettagliato nei termini, deve prolungarsi nella preghiera e non deve essere troppo sintetico. Una risposta questa che rappresenta un principio fondamentale per colui che prega perché ha bisogno di aiuto e sostegno in un momento di necessità.
Ogni ebreo deve essere consapevole che ha una grande forza nelle labbra ma deve anche saper ben esprimere quello che lo preoccupa. Non basta solo pensarlo. E quello che vuole esprimere, deve essere chiaro, limpido, senza possibilità di dare a intendere significati alternativi.
Così insegna Rabbì Yeshayahu ben Avraham Ha-Levi Horowitz (1555-1630): la Tefillà deve essere come gli Urim e Tummim, le pietre responsoriali del Sommo Sacerdote. Se la domanda che veniva posta era criptica, anche la risposta lo era, se invece era formulata con chiarezza, la risposta era indubbia.
Giacobbe, nella sua preghiera, chiede di essere salvato dalla “mano di suo fratello, dalla mano di Esau”, usando apparentemente una ripetizione, perché non vuole che Esaù gli faccia sia del male sia del bene. Il bene che viene dai malvagi, comunque viene pensato per il male.
In effetti, venendo incontro al fratello con un esercito di 400 uomini, Esaù manifesta che le sue intenzioni iniziali sono quelle di sterminare Giacobbe e la sua famiglia. La preghiera di Giacobbe ha invece fatto cambiare questa intenzione portando ad un rappacificamento formale tra fratelli. E quando Esau propone di accompagnarlo per “proteggere” lui e i suoi figli, Giacobbe rifiuta e non vuole quella benevolenza. Esau procede ad un ritmo che, come da lui stesso predetto, “holekh lamut” lo conduce alla morte e Giacobbe sa bene quanto possa essere pericoloso procedere al fianco dei malvagi.
Il dialogo tra Giacobbe ed Esaù, i due fratelli/popoli, è emblematico. Esaù chiede una riunificazione che Giacobbe, al momento, non sente di accettare e che vuole rimandare ad altri tempi. Giacobbe, con molta delicatezza e rispetto, afferma che è lui il problema; ha un’andatura più lenta, è “zoppicante” e non può/vuole accelerare il passo per non rischiare di perdere per strada nessun componente della sua famiglia. Tuttavia, Giacobbe promette che giungerà il momento in cui “giungerò dal mio signore a Seir” (Genesi 33:14) e potremo ricongiungere le nostre vie, ma non adesso. Con Esaù, Giacobbe deve essere ancora più attento di quanto non lo sia stato con Labano in venti anni. La pericolosità di Labano era nota a tutti, per il fatto che era lontanissimo dai principi fondamentali della famiglia di Abramo e i figli di Giacobbe ne stavano adeguatamente a distanza. Ma andare al passo di Esau era molto più pericoloso perché, come un buon cacciatore, non lasciava percepire la sua pericolosità a chi gli camminava al fianco. Ecco il significato della definizione – “yodea tzaid/sa praticare la caccia” – che la Torà da a lui solo quando diventa grande e responsabile di sé stesso, indipendente dal padre Isacco. Esau sa attirare a sé gli altri mostrandosi come una persona per bene, come figlio di Isacco. Ma Giacobbe tiene lontani i suoi figli affinché non imparino da lui alcuna cosa pensando che dalle sue azioni ci sia qualcosa da imparare.
Per capire il senso delle parole di Giacobbe, ci aiuta il profeta ‘Ovadyà, il cui unico capitolo biblico costituisce la haftarà di questa settimana (Cap- 1:21: “saliranno i liberatori sul monte di Sion per fare giustizia dei figli di Esaù e al Signore apparterrà il regno”). L’espressione di Giacobbe “giungerò dal mio signore a Seir”, non significa presentarsi all’incontro con il fratello (che è principe di Seir), ma comparire a giudizio davanti al Signore che – in un futuro a venire – giudicherà tutti i popoli. Quello, che è tempo di gheullà-redenzione, sarà il momento giusto per la riunificazione tra i popoli/fratelli.
Nel frattempo, grazie alla Torah e alle mitzwoth, possiamo proteggerci dagli “abbracci” e dai “baci” di Esaù, che rappresentano, da sempre, l’ostacolo più grande al “nostro percorso” per arrivare a quel giorno.
Prima di affrontare una relazione con Esau bisogna essere ben saldi nella identità e nei valori di Giacobbe/Verità, e non c’è verità se non nella Torà, Shabbat Shalom.
