Se confrontiamo l’atteggiamento della Torah e quello dei profeti nei confronti della tematica dei sacrifici, troveremo grandi differenze, non sempre comprensibili. Il solo spazio che la Torah dedica alla questione è sufficiente a comprenderne la centralità, in quanto parte integrante della vita spirituale del popolo ebraico. Nel libro di Bereshit le visioni profetiche dei patriarchi sono sistematicamente accompagnate dalla costruzione di un altare, e quando verrà inaugurato l’altare dal mishkan, scenderà un fuoco dal cielo. Per via di questo status, tutti coloro che hanno a che fare con il sacrificio nei vari passaggi devono trovarsi in una condizione di purità.
La storia successiva di Israele mostrerà però un approccio totalmente differente. Un primo punto di svolta lo troveremo nel duro ammonimento di Shemuel nei confronti di Shaul, quando quest’ultimo risparmiò dei capi del gregge degli amaleciti, contrariamente al comandamento divino (1Sam 15,22): “forse che il Signore desidera olocausti e sacrifici come Egli desidera che Gli si dia retta? Anzi ascoltare è meglio che sacrificare, obbedire meglio che offrire grasso di montoni”. La critica prosegue violentemente nei libri profetici: prima Yesha’iahu (1,11) “Che me ne faccio Io dei vostri molti sacrifici?, dice il Signore. Sono sazio di olocausti di montoni e di adipe di animali ingrassati; non desidero oltre sangue di tori, di agnelli e di capri”, poi Yermiahu (7,22) “Tenete poi presente che, nel momento in cui feci uscire i vostri padri dall’Egitto, non ho parlato ai vostri padri di olocausti o di sacrifici per comandare loro di offrirli”, lanciano sonori attacchi contro la pratica sacrificale, tanto da mettere in dubbio la validità dell’intero impianto. L’ultima spallata arriva dal profeta Mikhah, che rappresenta un dialogo fra il popolo ed il profeta (Mikhah 6,6-8): “Con che cosa debbo presentarmi al Signore, piegarmi D. eccelso? Debbo presentarmi a Lui con olocausti, con vitelli di un anno? Gradirà egli migliaia di montoni, miriadi di rivi d’olio?… Uomo, il Signore ti ha detto che cosa è bene; e cosa Egli richiede da te se non che tu operi con giustizia, ami la bontà e proceda umilmente con il tuo D.?” Mikhah presenta una scala di valori rovesciata: i sacrifici passano decisamente in secondo piano rispetto alla giustizia, alla misericordia e alla modestia.
Le due posizioni, quella della Torah e quella dei profeti, costituiscono la base della famosissima discussione fra due giganti, il Rambam e il Ramban, sulla natura dei sacrifici.
Il Rambam nel Moreh Nevukhim (3,32) spiega che lo scopo delle mitzwot è quello di allontanare il popolo ebraico dalla condizione infima in cui si trova la maggior parte dell’umanità, che pratica culti idolatri, e avvicinarlo al servizio di H. Per raggiungere questo apice, che è costituito dalla tefillah, è necessario attraversare dei gradi intermedi. In un mondo nel quale il culto sacrificale era la norma, la Torah decide di non recidere il cordone immediatamente, ma preferisce accogliere la pratica inserendo una serie notevole di limitazioni, tali da rendere inequivocabile il fatto che i sacrifici offerti sono destinati solo ed esclusivamente ad H. in ottemperanza ad un suo comandamento. Nell’epoca dei profeti i figli di Israele continuarono a praticare il culto sacrificale nel Bet ha-miqdash, ma al contempo tornarono ad adorare gli idoli. I sacrifici a questo punto non erano solo superflui, ma persino dannosi, perché davano l’impressione di avere in mano uno strumento per purificarsi, continuando a comportarsi in modo indecente.
Il Ramban, in base ad una serie di considerazioni, respinge con forza quanto sostenuto dal Rambam. Il sacrificio non è solo un dispositivo per allontanare dall’idolatria, ma ha un valore positivo, ed è un sistema effettivo e valido per avvicinarsi ad H.
Possiamo chiederci però se le due posizioni sono fra loro conciliabili. Uno dei compiti più alti e ardui per l’uomo è quello di rendersi simile ad H. Questo compito è celato già nel suo nome, Adam, a dire “mi renderò simile all’Eccelso”. Questo nome, Adam, è quello che la Torah utilizza introducendo la legislazione dei qorbanot. La ghemarà in massekhet Yomà (86a) spiega la prima mitzwah che troviamo nel primo brano dello Shemà, quella di amare H., in questo modo: amare H. vuol dire fare in modo che H. sia amato per via dei nostri comportamenti. Il nostro studio della Torah, il nostro atteggiamento nel commercio, e la nostra predisposizione nei confronti del prossimo, deve condurre gli altri a dire: “beato suo padre che gli ha insegnato la Torah, beato il suo maestro che gli ha insegnato la Torah”. L’amore di H. non è quindi solo una dichiarazione di intenti, ma è costituito da una serie di comportamenti che portano gli altri esseri umani ad amare H. e le sue mitzwot. In questo modo l’uomo assolve al suo compito, che è quello di contribuire al progresso spirituale e materiale del mondo, e ciascuno di noi ha un compito unico, così come ha strumenti unici per farlo. Questo è quello che la Torah intende comunicarci quando ci dice che siamo un reame di sacerdoti. Ma questo, ascoltare la voce di H., è solo il primo piano dell’edificio; al secondo troviamo il rivolgerci ad H. attraverso la preghiera e la supplica; al terzo invece troviamo i sacrifici. Il sacrificio è l’affermazione dell’uomo di essere pronto a portare avanti la propria missione sino alla fine, anche a costo della vita, come il sacrificio che viene offerto.
Shemuel si arrabbia tanto, perché Shaul credeva che il sacrificio fosse un modo per riparare al mancato ascolto della voce di H. Il sacrificio non può essere un modo per corrompere H. e soprassedere alle nostre mancanze, ma è esattamente il contrario, l’affermazione di ascoltare la voce di H. sempre e comunque! Per questo come nota il Ramban, quando la Torah parla dei sacrifici non usa mai il nome Eloqim, ma sempre il Tetragramma, perché il nome Eloqim rimanda alla dimensione del dominio, ed un sacrificio rivolto a quell’aspetto potrebbe sembrare una forma onorifica per il potere, o peggio una corruzione. Se al sacrificio manca la base, la ricerca della giustizia e la misericordia, non hanno senso la preghiera e tanto meno il sacrificio. Il sacrificio non discende da una necessità di H., ma è l’espressione di una nostra affermazione. Se H. avesse bisogno della carne degli animali potrebbe fare da solo, come dice David ha-melekh nei Tehillim (50,9-12): “non prenderò dalla tua casa un toro, né montoni dalle tue chiuse; poiché a Me appartengono tutti gli animali selvaggi, le bestie che vivono su migliaia di monti… se avessi fame non lo direi a te, perché Mio è il mondo con tutto ciò che contiene.”