Nella nostra Parashà troviamo un versetto che invita a riflettere: “Al ki ein Elok-ai bekirbi metzauni haraot haele” – “Poiché il mio D-o non è dentro di me, mi hanno trovato queste sventure”. I Maestri notano una sottigliezza: non si dice “non c’è D-o nel mondo”, ma “non è dentro di me”. D-o non sparisce: sono io che non Gli ho fatto spazio. Il problema non è fuori, è dentro. Uno dei nomi di Hashem è Makom-il Posto, come a dire Hashem è Onnipresente. Il cuore umano non resta mai vuoto: o è abitato da Hashem, o da altro. Quando affermo “Elok-ai, non è dentro di me”, creo un vuoto che lascia entrare ansia, idolatria, follia. Per questo il Talmud insegna: “L’uomo non pecca se non quando in lui entra uno spirito di follia” (Sotah 3a). Eppure la Torà ci dice: “Ve’asu li mikdash veshachanti betocham” – “Mi faranno un Santuario e Io dimorerò dentro di loro”. Non “in esso”, ma “in loro”: ogni ebreo è un tempio vivente. L’anima è chelek Elokà mimaal, una parte di Hashem (kiviachol), una scintilla divina. “Elok-ai bekirbi” non è un’illusione, è la realtà più profonda. Ma quando ci si sente svuotati, Hashem ci indica una via: la Teshuvà.
La Haftara proclama: “Shuvà Yisrael ad Hashem Elokecha” – “Torna Israele al Signore tuo D-o”.
Teshuvà non è solo il ritorno dell’uomo a D-o, ma anche – come spiega Rabbi Nachman di Breslav nel Likutè Moharan – il ritorno di D-o dentro l’uomo. Esiste una Teshuvà del popolo (in 49 livelli), e una Teshuvà suprema, la cinquantesima, che è il ritorno stesso della Presenza Divina. Non solo Teshuvà, ma Teshuv H’-Il Ritorno di Hashem (Kiviachol): riportare la Shekhinà nel cuore.
Per questo lo Shabbat Teshuvà ci insegna che il ritorno non è un gesto solitario dell’uomo, ma un incontro: io torno a D-o e D-o torna a me. Il Nascondimento del Suo “volto” è solo un modo per dirci: “Cercami, ti sto aspettando dietro l’angolo del cuore”.
Questo dubbio sulla presenza di Hashem dentro di noi compare anche altrove. Dopo l’uscita dall’Egitto, Israele chiese: “Hayesh Hashem bekirbenu im ayin?” – “C’è D-o dentro di noi o no?”. Subito arrivò Amalek ad attaccare. Amalek nasce dal dubbio interiore, dal raffreddamento e dal vuoto che si crea quando smetti di credere che D-o abita dentro di te.
Il grande commentatore Sforno sottolinea nel verso un pericolo ulteriore: quando l’uomo pensa che la Shekhinà si sia allontanata da dentro di noi, quando lo sovrasta quel sentimento di sentirsi sbagliato, si rischia di cadere nello sconforto e di concludere: “Non vale più la pena né pregare né fare Teshuvà”. In altre parole, la demoralizzazione diventa un ostacolo peggiore del peccato stesso. È la voce interiore che sussurra: “Tanto non serve a niente”. Ma lo Shabbat Teshuvà ribalta questa logica: proprio perché ti senti lontano, prega. Proprio perché pensi che D-o non sia più dentro di te, cercalo: scoprirai che era lì, nascosto, ad aspettarti.
Forse questo ci insegna la dinamicità dei termini usati nella Parashà: “Vayelech” – “Andò”. Teshuvà invece significa “tornare”. Due movimenti che sembrano opposti: andare e tornare. In realtà, sono i due poli della vita ebraica. Bisogna andare sempre avanti, crescere, intraprendere nuove vie, ma anche tornare al centro, riportare D-o dentro di sé. Se c’è solo andare senza tornare, ci si perde; se c’è solo tornare senza andare, ci si blocca. Shabbat Teshuvà ci insegna ad armonizzare i due movimenti: camminare e ritornare, vivere con Hashem al centro.
La vita, come la Teshuvà, non è mai un cammino lineare. È fatta di alti e bassi, di passi avanti e di ritorni indietro, di cadute e di rialzate. Non c’è crescita senza movimento, e non c’è movimento autentico senza la capacità di ritornare al centro. Così è la Teshuvà: un andare e tornare continuo, come il battito del cuore. A volte ci sentiamo vicini, a volte lontani; a volte D-o sembra abitare dentro di noi, a volte nascosto. Ma proprio questo alternarsi è la melodia stessa della vita.
Vayelech e Teshuvà ci insegnano che gli alti e bassi non sono una contraddizione, ma il respiro dell’esistenza. E se anche nei momenti di vuoto sappiamo dire: “Elohai bekirbi” – “D-o è dentro di me” – allora scopriremo che ogni salita e ogni discesa, ogni passo avanti e ogni ritorno, ci avvicinano, in modi diversi, al cuore di Hashem.
Shabbat Shalom