Nel libro di Shemòt vi sono tre versetti nei quali è scritto che al fine di liberare i figli d’Israele dall’Egitto, Moshè avrebbe dovuto chiedere al faraone l’autorizzazione a uscire dal paese e andare per tre giorni nel deserto a servire l’Eterno. Uno di questi versetti appare in questa parashà dove Moshè disse al faraone: “Noi andremo per tre giorni nel deserto e offriremo sacrifici all’Eterno, nostro Dio, come Egli ci ordinerà” (Shemòt, 8:27).
R. Hershel Schachter (Scranton, 1941), in Insights and Attitudes, (p. 88) osserva che molti commentatori della Torà si domandano per quale motivo Moshè chiese al Faraone di andare a servire l’Eterno nel deserto per tre giorni. Era chiaro che Moshè desiderava la liberazione completa degli israeliti e non aveva nessuna intenzione di ritornare! Non era questo un inganno?
Inoltre, prima di uscire, gli israeliti chiesero agli egiziani oggetti d’argento e d’oro e capi di vestiario per andare a servire l’Eterno nel deserto. Se questi oggetti furono dati loro per pochi giorni, oltre all’inganno si sarebbe trattato di un vero e proprio furto di tutto il popolo!
R. Schachter risponde che in Egitto non era permesso agli schiavi di praticare nessuna religione. L’autorizzazione del faraone di uscire dal paese per servire l’Eterno anche solo per tre giorni era un’implicita liberazione degli schiavi. Pertanto Moshè non ingannò il faraone quando chiese di servire il’Eterno per tre giorni.
Rimane tuttavia il fatto che gli egiziani non erano al corrente del dialogo tra Moshè e il faraone. Non è evidente dal testo della Torà che gli egiziani furono ingannati?
Una prima risposta la offre Rashì (Troyes, 1040-1105) nel commento a un testo successivo (Shemòt, 12:36). Rashì scrive che durante l’ultima piaga, quella della morte dei primogeniti, quando gli egiziani temevano che sarebbero morti tutti, diedero agli israeliti anche oggetti che non avevano chiesto purché se ne andassero immediatamente dal paese. Non vi fu quindi nessun furto. Gli egiziani diedero tutto volontariamente per poter rimanere vivi.
Un’altra risposta a questo punto la troviamo in un passo midrashico nel trattato di Sanhedrin (91a). In questo passo è raccontato che il popolo egiziano portò a giudizio il popolo ebraico da Alessandro il Macedone, quando questi invase la terra d’Israele e l’Egitto. Il popolo egiziano disse ad Alessandro: Si dice nella Torà: “E il Signore aveva ispirato benevolenza degli egiziani nei confronti del popolo [ed essi prestarono loro oggetti d’oro e d’argento]”(Esodo 12:36). Gli egiziani reclamarono di essere stati ingannati e chiesero la restituzione dell’argento e dell’oro che gli israeliti avevano preso per andare a servire l’Eterno per tre giorni e non l’avevano restituito.
I Maestri nominarono come rappresentante del popolo ebraico un ebreo sagace il cui nome era Geviha ben Pesisa. Costui disse ai rappresentanti degli egiziani: Da dove state citando la prova che avete diritto all’argento e all’oro? Gli dissero: Dalla Torà. Geviha ben Pesisa disse loro: Anche io vi citerò solo prove tratte dalla Torà. Nella Torà è scritto che i figli d’Israele soggiornarono in Egitto per quattrocentotrenta anni (Esodo 12:40). In questi anni furono ridotti in schiavitù, impegnati in duri lavori manuali. Geviha chiese quindi agli egiziani il salario per il lavoro svolto dai 600.000 uomini sopra i vent’anni (Esodo 12:37) per quattrocentotrenta anni. Di fronte a questa risposta gli egiziani non seppero cosa dire e tornarono a casa a mani vuote.