Con la Riforma in Germania vennero introdotte varie novità, che presto si diffusero in altri luoghi. Le prime domande che sorsero furono sull’ingresso dell’organo nel bet ha-kneset, sulla recitazione della tefillàh nella lingua del luogo, sulla derashàh pronunciata nella lingua locale, sulla lettura della Toràh senza i tea’mim, oltre all’abolizione del secondo giorno in diaspora, che aveva un significato ben più dirompente, andando contro la taqqanàh dei chakhamim. Tutte queste questioni, con uno spirito ben differente, volto a chiarire quale fosse la halakhàh da seguire, erano state già poste dai chakhamim italiani.
Se i riformisti non avessero fatto tanto clamore, queste domande non sarebbero state considerate differenti dalle altre questioni halakhiche, e non avrebbero dato luogo ad una risposta tanto piccata. Varie volte il siddur era stato tradotto in italiano, già del XVI sec., almeno dai tempi del cabalista Mordechay dato, le derashot erano tenute in italiano. Anche sulla lettura senza te’amim R. Shelomò levet ha-Levì di Salonicco, testimonia, sebbene dobbiamo segnalare che non esistono altre fonti in merito, che questo era l’uso in Italia, e ipotizzando un motivo secondo la qabalàh, dice che la Toràh in realtà è una sequenza di Nomi Divini e così deve essere intesa, ed i te’amim, conferendo un senso differente al testo, la facevano scendere di livello. Nel secondo decennio del XIX sec. la riforma iniziò a prendere piede in Germania, provocando reazioni molto dure da parte del resto del mondo ashkenazita. La reazione in Italia fu molto più tiepida, anche per via della tradizione precedente e dell’apertura nei confronti del mondo circostante. I riformisti tedeschi lo sapevano bene, e per questo cercarono di instaurare un rapporto con i rabbini italiani, in modo particolare quelli di Livorno e Verona, che dopo una disamina halakhica si mostrarono concordi sulla liceità dell’uso dell’organo al bet ha-kneset.
Da Livorno arrivò una teshuvàh, scritta da un rabbino marocchino che non era fra i rabbanim della città, che portava varie argomentazioni per permettere l’uso dell’organo: a) il divieto di suonare dopo la distruzione del Tempio riguarda solo il suonare in occasioni frivole e non per mitzwàh; b) se hanno permesso di suonare per gli sposi, che sono esseri umani, tanto più sarà permesso per l’Eccelso; c) il canto è permesso, ed ovunque i chazanim cantano; d) adeguarsi a quanto fanno i goyim è vietato solo quando si tratta di azioni singolari, ma suonare per accompagnare la preghiera è un antico uso ebraico; e) l’uso dell’organo invoglia le persone a venire al Bet ha-keneset. Alla fine del responsum è scritto che i rabbini di Livorno erano d’accordo con quanto scriveva, ma non possiamo sapere se effettivamente fosse così. Una risposta, ancora più entusiastica, arrivò dal rabbino Ya’aqov Recanati di Verona. Non tutti i rabbini italiani erano di questo parere, e non serve dire che i rabbini ashkenaziti tuonarono, minacciando di escludere i riformatori dalla congrega di Israele. Per risolvere la situazione in Italia venne coinvolto come paciere R. Eli’ezer ha-Levi di Trieste, allievo del Chidà, uno dei rabbini maggiormente autorevoli dell’epoca, che personalmente era avverso all’introduzione di queste innovazioni, e per questo cercò di intervenire sui rabbini di Livorno, che almeno secondo il responsum riportato, erano d’accordo. Nel frattempo anche gli altri rabbini italiani si pronunciarono sulla questione, rigettando i cambiamenti, in particolare quelli sui cambiamenti nella tefillàh, sino a che si espressero anche i rabbini livornesi, sottolineando quanto fosse peccaminoso quello che si tentava di fare, e esplicitando la propria avversità all’uso dell’organo.
Fra i firmatari della lettera ad Amburgo, da dove proveniva la domanda, c’erano venti chakhamim livornesi, ed allegata una lettera del rabbino che aveva scritto il pesaq che permetteva l’uso dell’organo, dove scriveva, al contrario rispetto a quanto aveva fatto in precedenza, di essere d’accordo con i rabbini della città. L’intervento di R. Eli’ezer ha-Levì e la sua avversione alla riforma, che lo portò nonostante l’età avanzata a girare per l’Italia in cerca di sostegno in questa battaglia, colpì profondamente Shadal, suo giovane allievo, che narra che al bet ha-kneset di Trieste prima e dopo della tefillàh non si parlava di altro. Nel frattempo a Venezia veniva introdotto un coro che partecipava rispondendo ad alcune parti prestabilite della tefillàh, e restaurando quindi quanto avveniva a Ferrara, Mantova, e Venezia due secoli prima. Il Rabbino di Venezia Avraham Lattes si rivolse persino al Rabbino di Cento, Chananel Neppi, per sapere se, secondo lui, dovesse passare sotto silenzio il fatto che il pubblico, proprio per via della presenza del coro, avesse smesso di rispondere Barukh Hù uvarukh Shemò e Amen. R. Chananel Neppi rispose che secondo lui non c’era un obbligo halakhico di rispondere Amen a voce, e che in altre realtà, ad esempio Corfù, avveniva lo stesso.
Oltretutto attraverso questo sistema, già documentato, si evitava l’altra questione molto più scottante, che era quella dell’uso dell’organo. Quindi nello specifico è meglio chiudere gli occhi, perché la pace vale più di tutto. Risulta chiaro da quanto abbiamo detto che in Italia non c’erano, almeno in quel periodo, rabbini ideologicamente contrari all’uso dell’organo, ma che la situazione contingente richiedeva una certa rigidità. Successivamente Avraham Reggio permise ad un goy di suonare di Shabbat e Mo’ed al bet ha-kneset, anche se riteneva cosa spregevole che “un non ebreo aiutasse a ringraziare D.”. Qualcuno volle persino permettere ad un ebreo di suonare, ma vari rabbini si opposero. Nei decenni successivi in alcune sinagoghe si smise di suonare l’organo, mentre in altre si continuò, ritenendo di poter continuare a comportarsi secondo quanto dissero i rabbanim delle generazioni precedenti.