HaTikwa, di David Zebuloni
Una delle punte di diamante di Netflix ai tempi del corona e della quarantena forzata è senza dubbio Unorthodox, un’ambiziosa miniserie basata sull’omonimo libro autobiografico della scrittrice Deborah Feldman. Unorthodox racconta la storia di Esty, una ragazza appartenente alla Comunità ultraortodossa di Williamsburg, che all’età di diciannove anni si ritrova vittima di un infelice matrimonio combinato e altrettanto vittima di un sistema che la condanna ad una vita priva di ambizioni. Il ruolo di Esty all’interno della Comunità è semplice: annullarsi di fronte alle volontà del marito, procreare e occuparsi delle faccende di casa. E il pianoforte che tanto ama suonare? Il pianoforte le viene sottratto in quanto donna, in quanto moglie. Esty fugge e cerca la libertà in Germania. La trama si complica e culmina con un inseguimento da parte del marito, che atterrato a Berlino pare un alieno sbarcato da Marte. Lo scopo è quello di convincere Esty a tornare a casa e fingere che nulla sia accaduto, per non scombussolare troppo gli equilibri interni della Comunità e non creare un precedente che possa portare alla rivolta di altre donne, altre mogli.
Questa è a grandi linee la storia di Esty. Quattro episodi, una stagione. Nulla di più. Terminato l’inseguimento, è tempo di tirare le somme.
Unorthodox è un gioiello, un piccolo capolavoro cinematografico, su questo non c’è dubbio. L’interpretazione di Shira Haas nel ruolo di Esty è a dir poco superba, straordinaria. Diamole un Oscar, un Nobel, qualcosa. Così giovane, ma così intensa. Shira non si risparmia mai e conferma di nuovo il suo titolo di attrice più promettente del cinema israeliano. La prossima Gal Gadot alcuni dicono, e io me lo auguro di cuore.
Altre chicche di Unorthodox sono le ambientazioni, i costumi. Assolutamente credibili. Tutto rievoca l’ortodossia ebraica più estrema, senza renderla parodia. Gli abiti tipici, i grossi cappelli, le lunghe basette arrotolare su loro stesse, le parrucche, i gioielli ormai obsoleti. Gli attori recitano in un Yiddish perfetto. Non che io ne capisca qualcosa, ma così almeno pare allo spettatore medio. Proprio a questo proposito è importante ricordare che Unorthodox è la prima serie di Netflix in lingua prevalentemente Yiddish. Un vero traguardo direi.
Per farla breve, tutto sembra perfetto, ma qualcosa turba lo spettatore. Quello che scrive perlomeno. Unorthodox pecca di superficialità. Parola che pare terribile, ma che in realtà non è poi così drammatica. L’accusa non è di distorsione della realtà, assolutamente. I fatti riportati potrebbero essere reali, fedeli a quelli che caratterizzano la vita di chi fa parte di una minoranza tanto complessa. L’accusa punta invece il dito sulla mancata ricerca di ciò che va oltre la fuga, oltre l’amore per la musica.
In Unorthodox i personaggi si dividono in due categorie: i buoni e i cattivi. Quelli che scappano e quelli che inseguono. Mi domando e vi domando, da quando la vita si riduce al bianco e al nero? Da quando lo spettatore si accontenta di un’immagine così parziale?
Per fare un paragone azzardato, prendiamo come modello Fauda, altro colosso di Netflix e della cinematografia israeliana. Ecco, il conflitto che caratterizza Fauda è il conflitto di due gruppi che si battono per un ideale. Chi difende la propria terra e chi attacca per riappropriarsi di ciò che pensa esserli stato sottratto. Non ci sono buoni e cattivi. Ognuno può vedere se stesso nel conflitto e nei suoi personaggi. Per questo motivo Fauda ha avuto lo stesso successo sia in Israele che in diversi Paesi Arabi. L’obiettivo era quello di non raccontare una semplice guerra, ma di scavare a fondo dell’odio fino ad arrivare alle sue radici.
Lasciamo da parte il conflitto israelo palestinese e torniamo dai nostri ultraortodossi. Se prendessimo la serie televisiva Shtisel come esempio, altro piccolo grande capolavoro made in Israel, scopriremmo che la figura dell’ultraortodosso in realtà è ben più complessa di quanto si possa intuire osservandola da fuori. Una figura che vive in costante conflitto. Un conflitto che, a differenza di quello sanguinolento di Fauda, in questo caso è interno e non esterno al personaggio. In Shtisel è evidente il tentativo di mostrare la realtà dell’ebraismo più estremo, da una prospettiva più intima, più umana.
In Unorthodox questo tentativo non esiste. Nessuno scava a fondo della Comunità di Williamsburg per cercare di capire il motivo per il quale essa decida di non fare i conti con la realtà circostante. Nessuno scava nemmeno a fondo del personaggio di Esty per capire come mai questa diciannovenne in pena è diversa dalle sue coetanee e desidera soltanto evadere, se non la stessa Shira Haas che con uno sguardo riesce a dire più di mille parole.
La regia sembra aver pensato a tutto nei minimi dettagli. Gli attori sembrano conoscere i personaggi alla perfezione. Il cosmo sembra essersi allineato con loro per garantirne la riuscita. C’è tutto in Unorthodox, davvero, eppure manca qualcosa. E quel qualcosa si riduce ad una parola paradossalmente molto semplice: manca la complessità. In Unorthodox il nero e il bianco ci sono, non mancano all’appello. Adesso bisogna fare uno sforzo per trovare il grigio che si nasconde dentro di loro.
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