Rav David Gianfranco Di Segni replica all’articolo di Vito Mancuso pubblicato domenica su La Stampa
In un articolo sulla Stampa del 13 luglio scorso il teologo Vito Mancuso cita un coccio risalente alle origini del popolo ebraico di cui ha parlato lo scrittore israeliano Amos Oz e nel quale sono riportate le seguenti parole: “Giudicate lo schiavo e la vedova. Giudicate l’orfano e lo straniero. Supplicate per il bambino, supplicate per il povero e la vedova. La vendetta in mano al re, l’umile e il servo proteggete. Lo straniero supportate”. E Oz commenta: “Questo messaggio, scritto in un inequivocabile ebraico di tremila anni fa, contiene imperativi morali e di equità nati in seno a una cultura che esige giustizia per i deboli e i perdenti. Il nocciolo della questione sta proprio nel servo, nella vedova, nell’orfano, nello straniero, nel povero, nel disgraziato, in chi ha bisogno”.
Non conosco la storia del coccio di cui parla Amos Oz (uno scrittore che amo, la sua “Storia di amore e di tenebra” l’ho divorata – nella lingua originale, l’ebraico). La Torà, ossia il Pentateuco, preferisco leggerla dal rotolo di pergamena (in sinagoga) o da un libro stampato (a casa o in classe). La Torà, per gli ebrei, è un libro vivo, che parla al presente, non un antico reperto archeologico.
In contrapposizione all’antica visione ebraica contenuta nel coccio, Mancuso pone niente meno che il libro del Deuteronomio, “la cui ideologia – così scrive – è tra le più settarie e le più violente della letteratura biblica e in genere del mondo antico”. Non so cosa faccia parte di questa classifica degli orrori: l’Iliade forse (beninteso, al secondo posto)? In realtà, di settario qui c’è la lettura che ne fa il teologo, dissezionando il testo alla ricerca dei versetti congeniali alla sua tesi e misconoscendo gli altri passi che non lo sono. Un’operazione che, come ha bene spiegato Elena Loewenthal sulla Stampa due giorni dopo, è l’unica vietata nel peraltro liberissimo studio della Torà. Non che Mancuso dica che tutta la Bibbia ebraica sia violenta, anzi: “Quelle pagine violente e cariche di odio delle Scritture ebraiche non hanno nulla a che fare con la vera essenza dell’ebraismo, espressa dal coccio di tremila anni fa e da molte altre pagine bibliche”.
Si dà il caso però che proprio nel Deuteronomio si trovino le più belle affermazioni presenti nella Torà a favore degli orfani, delle vedove, dei bisognosi e degli stranieri. Qualche esempio, non esaustivo. Rivolgendosi ai giudici del popolo d’Israele appena nominati, Mosè dice: “Ascoltate le questioni che sorgeranno fra i vostri fratelli e giudicate con giustizia fra un individuo ed il proprio fratello o uno straniero. Non abbiate riguardi nel giudicare; porgete ascolto al piccolo come al grande…” (Deut. 1:16-17; tutte le seguenti citazioni, salvo diversamente indicato, sono tratte dal Deuteronomio, Giuntina 2020, nella traduzione di rav Elio Toaff, rabbino capo di Roma per 50 anni, certamente un rabbino non settario; la sua traduzione peraltro è la stessa usata da Mancuso).
Nel cap. 5 del Deuteronomio (due capitoli prima dei passi citati da Mancuso) si trovano i Dieci Comandamenti, e sicuramente anche il teologo (qualsiasi teologo) concorderà nel dire che questi sono fra i pilastri della umanità e della civiltà. Altro che testo settario!
Per la precisione, si tratta qui della ripetizione che Mosè fa al popolo quaranta anni dopo la promulgazione del Decalogo raccontata nel libro dell’Esodo (cap. 20), sette settimane dopo l’uscita dall’Egitto (la parola “deuteronomio” vuol dire “ripetizione della legge”, in ebraico Mishnè Torà, che è anche il titolo della grande opera legale del Maimonide). Tra le due versioni ci sono alcune differenze, la più notevole delle quali riguarda la motivazione del riposo festivo nel giorno del Sabato: mentre nell’Esodo la motivazione era di natura cosmica, in analogia con il riposo divino al termine dei sei giorni della Creazione, nel Deuteronomio l’obbligo di astenersi dal lavorare durante il settimo giorno è necessario affinché “possa riposare il tuo schiavo e la tua schiava come tu stesso. Ricorderai che fosti schiavo in terra d’Egitto ed il Signore tuo Dio ti fece uscire di là con mano potente e braccio steso e che pertanto ti comandò il Signore tuo Dio di attuare il giorno del riposo”. Se oggi in tutto il mondo c’è (almeno) un giorno di riposo settimanale è grazie a questo comandamento “settario”.
Poco oltre Mosè ammonisce il popolo d’Israele perché segua le vie del Signore che “fa la giustizia dell’orfano e della vedova e che ama lo straniero dando loro cibo e vestiti. Amerete lo straniero perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto” (10:18-19). Non si tratta solo di indicazioni generiche e teoriche. Più avanti è scritto: “Al termine di ogni triennio tu dovrai togliere l’intera decima parte del tuo prodotto […] allora verrà il Levita che non ha né proprietà né eredità presso di te e il forestiero, l’orfano e la vedova che abitano nelle tue città mangeranno e si sazieranno” (14:28-29).
La massima aspirazione alla giustizia che si trova nella intera Bibbia è riportata al cap. 16 del Deuteronomio: “Porrai dei giudici e dei funzionari in tutte le tue città […] e giudicheranno il popolo con vera giustizia. Non torcere il diritto, non avere riguardi di sorta e non farti corrompere perché il prezzo della corruzione acceca gli occhi dei saggi e rende tortuose le parole dei giusti. La giustizia, la vera giustizia seguirai (tzèdeq tzèdeq tirdòf) affinché tu viva ed erediti la terra che il Signore tuo Dio sta per darti” (16:18-20).
In un altro lungo e dettagliato passo è scritto: “Non defraudare il salariato povero e misero, sia esso tuo fratello o forestiero che abita nel tuo paese, nella tua città. […] Non sovvertire il diritto del forestiero e dell’orfano e non prendere in pegno il vestito della vedova. Ricordati che fosti schiavo in Egitto e il Signore tuo Dio ti redense di là: perciò io ti comando di fare queste cose. Quando mieterai il tuo campo e avrai dimenticato un covone, non tornerai indietro a raccoglierlo, rimarrà per lo straniero, l’orfano e la vedova affinché ti benedica il Signore tuo Dio in ogni tua azione. Quando scuoterai il tuo olivo, non tornare indietro a raccogliere le olive rimaste sull’albero, esse saranno per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornare a racimolare il rimanente, sarà per il forestiero, l’orfano e la vedova. Ricorderai che fosti schiavo in terra d’Egitto e per questo io ti comando di fare questo” (24:14-22).
Qualcuno potrebbe obiettare che lo straniero (gher) di cui qui si parla si riferisce allo straniero convertitosi all’ebraismo (gher tzèdeq). Ma Rashì spiega che in questo passo la parola gher si riferisce sia al convertito sia a colui che vive in mezzo agli ebrei ma sceglie di rimanere non-ebreo (gher toshàv, straniero residente). Questa spiegazione di Rashì si basa sul Talmud (Babà Metzi‘à 111b) ed è originata dalla apparente ridondanza del testo biblico, che parla dello straniero che abita “nel tuo paese, nella tua città”.
Per riassumere, tutto quanto è scritto nel coccio di Amos Oz si trova anche nel Deuteronomio. Il coccio non si contrappone al testo della Torà, è parte della Torà.
Abbiamo detto che il Deuteronomio è essenzialmente la ripetizione di quanto insegnato in precedenza. Infatti nell’Esodo (22:20-21) è scritto: “Non ingannare né angustiare lo straniero poiché stranieri foste nella terra d’Egitto. Non opprimete la vedova e l’orfano” e: “Non angustiare lo straniero, voi ben conoscete l’animo dello straniero, poiché stranieri siete stati nella terra d’Egitto” (Es. 23:9).
A commento di questi versetti vi è un notevole passo di Rabbì Chayìm Ibn ‘Attàr, nato in Marocco nel 1696, che dopo una permanenza di due anni in Italia, in particolare a Livorno, fece la aliyà in terra d’Israele nel 1741 e infine morì a Gerusalemme nel 1743. (Si racconta che a Livorno avesse stabilito un centro di studi a cui accorrevano moltitudini di persone tanto che dovevano andare presto a prendere posto per poter assistere alle sue lezioni; durante la permanenza in Italia visitò le comunità di Venezia, Ferrara, Modena, Reggio e Mantova). Così egli scrive nel commento alla Torà Or Ha-Chayìm, interpretando il testo di Esodo 22:20: “I figli di Israele, discendenti di Abramo, Isacco e Giacobbe, possesso particolare del Signore benedetto, [potrebbero essere tentati] di disprezzare le persone che non sono della loro stessa discendenza e quindi ingannarli, ritenendoli di grado inferiore. Perciò la Torà, quando comanda di non ingannare né opprimere gli stranieri, specifica che non si dica che gli stranieri derivano da una mala pianta o che essi sono di grado inferiore [rispetto a voi ebrei] ‘perché anche voi foste stranieri in terra d’Egitto’, e quindi lo straniero è come uno di voi senza alcuna differenza: perciò non va ingannato né oppresso”.
Rabbì Don Yitzhaq Abrabanel (Lisbona 1437-Venezia 1508, ma sepolto a Padova), cacciato nel 1492 dalla penisola iberica dal re Ferdinando e dalla regina Isabella, rileva che ogni qualvolta la Torà ci comanda di fare del bene ai poveri e agli stranieri, ci ricorda che gli ebrei furono stranieri e schiavi in Egitto (vedi ad es. il suo commento a Deut. 5:12-15).
Un brano fondamentale di tutta la Torà sul rispetto dell’altro è costituito dal cap. 19 del Levitico, dove si trovano i precetti che impongono il rispetto dei genitori (v. 3), l’assistenza del povero e dello straniero (vv. 9-10), l’onestà e la lealtà nei confronti del prossimo (v. 11), la tutela dei diritti dei disabili (v. 14), le norme che vietano lo sfruttamento degli altri (v. 13) e l’omissione di soccorso nei confronti di chi è in pericolo (v. 16). In questo capitolo, ai versetti 17 e 18, sono anche riportati i famosi precetti che invitano a non odiare il proprio fratello e a non serbargli rancore ma, anzi, ad amare il prossimo come sé stesso, concetto che è poi stato parafrasato da Hillèl (1° secolo a.e.v.) con le parole: “Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te” (Talmud bavlì, Shabbàt 31a). L’amore del prossimo va esteso anche allo straniero, come è esplicitamente comandato ai versetti 33 e 34 dello stesso capitolo del Levitico: «E quando uno straniero abiterà presso di voi nella vostra terra, non dovrete fargli sopruso. Lo straniero dimorante con voi deve essere per voi uguale a un vostro indigeno, e lo amerai come te stesso, perché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto, Io sono il Signore Dio vostro”. Anche in questo caso, il riferimento è sia allo straniero convertitosi all’ebraismo (gher tzèdeq), sia allo straniero residente (gher toshàv) (commento Da‘at Miqrà, ed. Mossad Harav Kook, Gerusalemme 5752-1992).
Dall’analisi di questi passi della Torà e dei commentatori si possono trarre alcune conclusioni:
- Lo straniero è considerato una categoria debole e indifesa, alla pari dei poveri, degli orfani e delle vedove, in quanto – come questi – egli non è sufficientemente fornito di propri mezzi di sussistenza e quindi deve essere aiutato sia moralmente che economicamente.
- In particolare, è vietato opprimere, sfruttare, ingannare e umiliare lo straniero, che va invece tutelato in giudizio alla pari di tutti gli altri cittadini e va amato dagli ebrei “come loro stessi”.
- I figli di Israele devono comportarsi nei confronti degli stranieri con amore e sensibilità umana nonché con aiuti concreti perché gli ebrei stessi furono stranieri, umiliati e oppressi in Egitto e sono quindi in grado di conoscere e meglio capire l’animo dello straniero.
- Si potrebbe forse dire che uno degli scopi della permanenza dei figli di Israele in Egitto, se si può azzardare di capire le ragioni della Provvidenza, fu proprio per insegnare agli ebrei il rispetto per le categorie di persone socialmente disagiate e per insegnarci che, come Dio ebbe misericordia degli ebrei e li liberò dall’oppressione, così gli ebrei devono fare con tutte le persone oppresse e umiliate.
Detto ciò, come spiegare quello che i nostri occhi vedono in Medio Oriente? Non ho risposte. Cerco di districarmi nei testi biblici e rabbinici, ma vivendo nella Diaspora non ho una conoscenza sufficiente della realtà e della politica per capire quello che sta succedendo in quella regione, e meno che mai per giudicare. Altri credono di poter esprimere certezze ed emettere sentenze. Per quanto mi riguarda, posso solo sperare che presto si arrivi a una pace definitiva per tutte le popolazioni coinvolte. Amèn.
https://riflessimenorah.com/una-lettura-non-settaria-del-deuteronomio/