Se ragionassimo in termini oggettivi, e leggessimo di preghiere organizzate da ebrei per Kippùr, il giorno più sacro dell’anno, interrotte anche con violenza da facinorosi estremisti, protetti dalla polizia e dalle ordinanze comunali, non avremmo dubbi che quello che è successo ieri a Tel Aviv ricade nella categoria dei peggiori atti antisemiti. Ma le normali categorie dei nostri ragionamenti, a volte sono inutili per definire situazioni complesse come quelle a cui assistiamo oggi in Israele.
Le premesse
Negli ultimi anni assistiamo in Israele a una profonda ridefinizione di quello che eravamo portati a pensare come “laico” e come “religioso” con importanti ricadute sui rapporti stato e religione.
Da una parte assistiamo a un allontanamento progressivo e costante della parte meno tradizionalista dai valori identitari che pure hanno portato alla fondazione di uno stato ebraico. La Hatikvà, l’inno dello stato ebraico, parla di “speranza mai perduta” ed è un palese rifiuto dell’espressione “speranza perduta” di cui parla il profeta Ezekiele (37, 11). L’epos sionista infatti, che pur negava la religione, era profondamente impregnato dei valori etici e dei testi della religione ebraica. Oggi invece, in alcuni ambienti secolarizzati, regna l’ignoranza più assoluta, sia intorno ai primi, che intorno ai secondi. Si racconta di un politico israeliano a cui addirittura hanno dovuto suggerire le poche parole del versetto iniziale dello Shemà Israèl.
Dall’altra invece e con segno del tutto contrario, in occasioni particolari come il digiuno del 9 di av e appunto il giorno di Kippùr, molti ebrei laicissimi hanno iniziato a frequentare cerimonie e preghiere organizzate pubbliche e private. Cadute infatti molte barriere ideologiche, in molti kibbutzim ex-socialisti (e oramai anche anche ex-collettivisti) vengono aperti rifugi e invitati officianti a dirigere le preghiere. Nelle grandi città questi eventi improvvisati sono diventati presenza costante di massa. Nessuna costrizione o imposizione stavolta. Solo la spontanea partecipazione di cittadini che almeno per una volta all’anno vogliono esprimere il loro sentimento religioso e forse non si trovano a loro agio nelle sedi deputate che sono le sinagoghe funzionanti regolarmente tutto l’anno.
Lo status quo in materia dei rapporti Stato-religione
David Ben Gurion (nella sua saggezza, potremmo azzardare) aveva intuito che la forza della religione, se lasciata fuori dalla gestione dello stato, avrebbe potuto essere un ostacolo alla fondazione e poi alla vita comune del futuro stato e fece diverse “concessioni” ai rappresentanti religiosi dell’epoca. Tra queste, il trasferimento di matrimoni e divorzi nelle mani del rabbinato, negando cioè il matrimonio civile; l’esenzione dal servizio militare di chi studiava nelle yeshivòt (all’epoca poche migliaia, ora molti molti di più); l’assicurazione che non ci sarebbero stati trasporti pubblici di shabbàt salvo che in città miste arabe-israeliane come Haifa e tutta una serie di accordi minori, la stragrande parte dei quali mai messi per iscritto.
Fatto sta che dopo 70 anni sono cambiate le premesse, è cambiato il mondo e sono ovviamente cambiati gli israeliani e le “trasgressioni” a queste intese da entrambi le parti non sono mai mancate, forse anche dall’epoca che vennero formulati gli accordi. Recentemente l’istituzione di linee speciali di autobus operanti di shabbàt proprio a Tel Aviv (ma sporadicamente anche altrove) non ha sollevato grandi proteste. Ma quello che è certo che nessuno dei due schieramenti può gridare alla sopraffazione dell’altro.
L’opprimente senso di assedio dei laicisti (spesso anche di sinistra)
È assolutamente palpabile la sensazione di assedio delle frange più secolarizzate della società israeliana ed è un grave errore di valutazione da parte di tutti gli altri gruppi sottovalutarne le conseguenze.
Il problema è che queste frange sono vittime spesso proprio dalla stessa “democrazia”, dal responso cioè delle varie tornate elettorali (in maniera più o meno rilevante) e dalla “demografia”, cioè non solo dal costante aumento proporzionale, sia di ultraortodossi (charedim) ma anche di sionisti religiosi e soprattutto di ebrei “tradizionalisti”. E sono questi ultimi il vero motore del cambiamento identitario che avviene oggi in Israele. Sono gli ebrei che forse fanno il Kiddùsh ogni venerdì sera, ma poi accendono tranquillamente la televisione per rilassarsi un po’. Sono quindi rispettosi di una religione che loro stessi hanno difficoltà a rispettare interamente. Sanno che c’è, ma per gli altri.
Anche in questo segmento, ormai decisamente maggioritario in Israele, è avvenuto un cambiamento che è tutta la cifra, che pochi raccontano, dell’ultimo giro elettorale. Una volta questi “tradizionalisti” israeliani guardavano con grande disprezzo agli ultraortodossi perché li ritenevano delle scomode reliquie del passato. Una delle offese più gravi era denominarli in ebraico “giukim” cioè “scarafaggi”, per via dei loro abiti quasi tutti neri. Oggi invece non è raro sentire difendere gli stessi ultraortodossi nelle loro richieste economiche e di esenzione dal militare, per esempio da commentatori del canale televisivo privato 14 (tradizionalista-destra) che ha ormai superato in ascolti tutti gli altri.
La ragione di questo shift di sentimenti è dato però in parte anche dall’estremo allontanamento dai valori identitari e religiosi degli ultra-laici. Molti tradizionalisti avvertono che senza charedim, l’identità ebraica di Israele sarebbe scomparsa da tempo.
E i nostri ultra-laici? Non trovano di meglio che interrompere a Tel Aviv le preghiere organizzate in spazi pubblici, in fondo proprio per laici come loro, forti di ordinanze del Comune che vieta l’organizzazione di eventi pubblici con “separazione di genere”, cioè con divisori tra pubblico femminile e maschile. Ora chiarito che la tradizione ebraica prevede questa separazione non da adesso, ma da almeno 25 secoli, a parte qualche numericamente irrilevante congregazione di ebrei “riformati” che in Israele non hanno mai veramente avuto seguito, ma che ne è della “liberalità” della quale tanto si vantano gli abitanti di Tel Aviv?
Anche tenendo conto del famoso paradosso di Popper, sembra a molti singolare che un sindaco e la sua vice si affannino con ordinanze a mantenere la laicità di una città, impedendo, e per di più per un solo giorno l’anno, le manifestazioni spontanee di una minoranza che rischia di non rimanere più tale, e soprattutto che questo sia il messaggio che passa ai violenti che le impediscono con la forza. Nel giorno più sacro dell’anno per gli ebrei.
Anche il Presidente Herzog interviene sull’episodio (inglese)