Il libro di Elio Carmi,“Branding. Una visione Design Oriented”
Rossella Tercatin
Che cosa hanno in comune la bottiglia della Coca Cola, il marchio IBM, il simbolo AT&T, il logo I?NY?
Un filo che corre lungo la storia unisce queste icone della comunicazione commerciale moderna, come spiega Elio Carmi, vicepresidente della Comunità ebraica di Casale, nonché direttore creativo della Carmi e Ubertis e docente di design industriale al politecnico di Milano, nel suo nuovo libro “Branding. Una visione Design Oriented”, scritto con la collaborazione di Elena Israela Wegher, che verrà presentato martedì 17 novembre alla Triennale.
Un filo che rappresenta il legame fra le due dimensioni che Elio Carmi sente come proprie, l’identità ebraica e il mondo del design, o meglio dell’artigiano, di colui che “si abitua a confrontarsi con il divenire del pensiero e la concretezza del fare” come scrive nel prologo della sua opera. Opera concepita anche a scopo didattico, sia per gli addetti al lavori, sia per il grande pubblico che ascolta continui riferimenti a questi concetti, senza spesso conoscerne il vero significato.
Molti fra coloro che sono considerati padri del design e del branding erano ebrei o di origine ebraica, europei, poi trapiantati negli Stati Uniti. Tra questi gli ideatori delle brand sopra citate.
Dottor Carmi, com’è nata l’idea di questo libro?
“Branding. Una visione Design Oriented” nasce per dare delle risposte innanzitutto a me stesso, circa il legame tra design e cultura ebraica che ho percepito fin da quando ero studente, pur senza riuscire ad afferrarlo. Proseguendo nel mio percorso professionale ho realizzato che molte delle figure di riferimento della storia del design e del branding erano di cultura ebraica. Personaggi del calibro di Louis Bernays, nipote di Freud e autore del libro “Propaganda” (del 1928 ndr), considerato il padre delle relazioni pubbliche, oppure Raimond Loewy, ideatore della bottiglia Coca Cola e del pacchetto di sigarette Lucky Strike, Milton Glaser inventore di “I?NY”. Quando non addirittura ebrei ortodossi che si confrontarono tutta la vita con il preciso divieto di creare icone che diventassero idoli, come Paul Rand.
Partendo da questi presupposti ho compreso che questo collegamento rappresenta qualcosa di storico e tangibile, non esclusivo della mia esperienza personale, e soprattutto non casuale.
Lo può spiegare?
Il punto è che tutte queste persone avevano qualcosa in comune, come cerco di suggerire tra le righe del libro. Una formazione mitteleuropea, frutto della storia del continente, delle sue rivoluzioni, che nell’ambito del design sfociò all’inizio del Ventesimo secolo in nuove idee che si proponevano di fondere il concetto di estetica a quello di funzionalità, la forma alla finalità. Allo stesso tempo, essi coltivavano un’attenzione tipicamente ebraica all’interpretazione e al significato profondo di parole e simboli.
Con le migrazioni forzate verso l’America per sfuggire al nazismo, tutto questo incontrò l’universo statunitense e la società di massa, e si pose al servizio dei suoi bisogni. Era necessario creare dei veicoli di comunicazione semplici e contemporaneamente in grado di trasmettere i valori con cui le varie produzioni industriali volevano presentarsi al mercato. Così nacque il branding come lo intendiamo, che racchiude tutto ciò che un marchio rappresenta, un insieme di valori e di esperienze, che devono svilupparsi nel prodotto in maniera organica e coerente sotto ogni aspetto.
Nel suo libro, lei cita diversi modelli, regole da seguire, discipline con una propria scientificità. Come si concilia tutto questo con il fattore della creatività, che rimane un aspetto fondamentale di un’attività basata sull’estetica?
Creatività e scientificità non sono assolutamente in contraddizione fra loro. Nel design ci deve essere un approccio analitico. La bellezza delle forme o la loro originalità non sono mai a sé stanti, ma rappresentano un mezzo per raggiungere l’obiettivo per la cui realizzazione sono state studiate. D’altronde il significato della parola “design” non è “disegno”, come si potrebbe pensare, bensì “progetto”, concetto con una funzionalità intrinseca. Per questo il design è qualcosa di diverso dalle arti figurative che hanno una pura valenza estetica. Nella progettazione industriale la creatività si pone al servizio delle regole, e le regole declinano la creatività.
Dalla Newsletter L’unione Informa