A Gerusalemme un assembramento senza precedenti: a migliaia hanno partecipato al funerale di un rabbino di 99 anni vittima del coronavirus. Il governo raddoppia le multe per chi viola le regole sul distanziamento sociale. Da settimane, in diverse città del Paese, duri scontri tra gruppi di estremisti e la polizia che cerca di disperdere la folla
Sharon Nizza
Il complesso sistema su cui si fonda il rapporto tra la comunità ultraortodossa e le istituzioni dello Stato israeliano si è palesato in tutta la sua fragilità nell’anno del Covid, ma nel corso del terzo lockdown ha raggiunto livelli inauditi. Oggi a Gerusalemme in migliaia hanno preso parte al funerale di un importante rabbino, Meshulam Soloveitchik, deceduto venerdì a 99 anni a causa del Covid, nell’impotenza totale della polizia, che è riuscita solamente a respingere diversi autobus che continuavano ad arrivare, ma non a prevenire l’assembramento senza precedenti. Il vice ministro della Salute Yoav Kisch ha twittato: “Un funerale che porterà a molti altri funerali”. L’episodio di oggi arriva proprio nella giornata in cui il governo ha approvato la legge che raddoppia le multe per la violazione dei limiti negli assembramenti (da 1,300€ a 2,600€). Ma soprattutto dopo settimane in cui, in diverse città del Paese dove risiedono le più grandi comunità ultraortodosse, sono avvenuti numerosi scontri violenti tra gruppi di estremisti e le forze dell’ordine che cercavano di fare rispettare le restrizioni per il contenimento del virus.
Gli scontri più duri, con scene di guerriglia urbana, si sono svolti nei giorni scorsi a Bnei Berak, nei pressi di Tel Aviv, dove una grande folla ha posto resistenza agli agenti, definendoli anche “nazisti”. Alcuni manifestanti hanno dato alle fiamme un autobus, portando all’evacuazione degli edifici nei dintorni. Qualche giorno prima, una volante della polizia era stata presa d’assalto da altri estremisti, ferendo una poliziotta, che ha detto di aver temuto per la propria vita. In un’altra occasione, ad Ashdod, un poliziotto ha sparato in aria “sentendosi minacciato”.
A Gerusalemme molte proteste sono degenerate in violenza, con tanto di lancio di sassi e oggetti contro i poliziotti. I manifestanti hanno anche vandalizzato una delle stazioni della metropolitana leggera, bloccandone il tragitto e causando un blocco del traffico. Sono state arrestate decine di persone e, nel caso dell’assalto alla volante, si sono consegnati alle autorità quattro ventenni, spinti dalle pressioni dei leader comunitari che li hanno bollati come “mele marce che non ci rappresentano”. Tuttavia, la polizia è stata accusata di aver usato forza eccessiva e indiscriminata, con il ministro dell’Edilizia Yaakov Litzman (esponente di uno dei partiti che rappresenta una parte della comunità ortodossa ashkenazita) che ha puntato il dito contro il suo collega di governo Amir Ohana, il ministro della Sicurezza interna. Gli scontri avvengono principalmente intorno ai tentativi della polizia di disperdere assembramenti illegali, ma soprattutto di fare rispettare la chiusura del sistema scolastico.
L’attuale lockdown, in vigore dal 27 dicembre, inizialmente aveva risparmiato le scuole, per la prima volta rispetto ai lockdown precedenti. A fronte del costante aumento dei contagi, la decisione è stata ribaltata dopo due settimane, chiudendo le scuole di ogni grado, in aggiunta alla limitazione di qualsiasi assembramento a 10 persone massimo in spazi aperti e 5 in spazi chiusi. La chiusura degli istituti di studio per i haredim (“coloro che tremano” dinanzi a Dio, termine con cui si indica genericamente questa componente della società israeliana che conta il 12% della popolazione) è considerata un oltraggio, perché lo studio dei testi ebraici è la linfa vitale di questa comunità.
Secondo il generale Romi Numa, che per la protezione civile israeliana gestisce l’assistenza alle comunità ultraortodosse, nelle ultime due settimane il 15% degli istituti di studio in questo settore sono rimasti aperti in contravvenzione alle normative. Parliamo tuttavia di una comunità in cui vige il principio del pikuah nefesh, secondo cui la salvaguardia della vita è prioritaria rispetto a qualsiasi altra considerazione religiosa e in cui esistono innumerevoli associazioni caritatevoli volte ad aiutare i più bisognosi a ottenere le cure migliori. Quindi risulta difficile comprendere, persino dal punto di vista religioso, la scelta di contravvenire alle misure anti Covid presa da alcuni leader di questo settore – che a sua volta è articolato in numerose correnti, ognuna facente riferimento a un maestro di studi e a direttive diverse tra loro. Si tratta di una società molto povera, che vive in condizioni di sovraffollamento – una media di 7 bambini a famiglia – tra cui il virus ha raggiunto i picchi di contagio più elevati nel corso della pandemia.
Parliamo anche di una comunità che vive tendenzialmente isolata dal mondo, non guarda i notiziari, non utilizza internet, non possiede computer e spesso nemmeno cellulari, motivo per cui l’esercito già da aprile era presente sul territorio per aiutare la popolazione a fare fronte all’emergenza. I haredim vivono in una sorta di autonomia, conseguenza di un compromesso storico nel periodo precedente alla fondazione dello Stato tra i pionieri socialisti e i leader della comunità religiosa di allora. Sono esentati dal servizio di leva obbligatorio se studiano nelle yeshivot (istituti per l’approfondimento degli studi dei testi ebraici). Il loro sistema scolastico è indipendente e i finanziamenti statali sono condizionali alla quantità di materie “laiche” che vengono insegnate accanto agli studi ebraici: meno matematica e inglese si studiano, meno fondi si ricevono. Nella maggior parte delle scuole haredì non vengono insegnate materie non ebraiche. Se in alcune frange della società ultraortodossa la pandemia ha esasperato ulteriormente l’alienamento già esistente rispetto al resto della società israeliana, è stato possibile identificare durante questi mesi alcune nuove tendenze, prima tra tutte un aumento esponenziale degli abbonamenti a Internet, per grandi settori di questa società un tabù completo.
E si fanno sempre più sentire le voci, all’interno del mondo haredì, che parlano di una necessità di riconciliazione tra le diverse anime del Paese e che non hanno risparmiato critiche ai leader religiosi e politici, visti come i principali responsabili della situazione di anarchia che si è creata in troppe realtà del mondo ultraortodosso. Yehuda Meshi-Zaav, il fondatore di Zaka, un’associazione volontaria di pronto soccorso nata per identificare i corpi dilaniati durante gli attentati e dare loro una sepoltura dignitosa, si è visto portare via dal Covid, nel giro di un mese, padre, madre e un fratello. Ha puntato il dito contro “i politici che si occupano solo di negoziare benefici ognuno per la propria corrente, senza guardare veramente al nostro pubblico, che sta soffrendo così tanto. Non c’è una casa dove non ci sia stato un lutto”.
Eli Paley, l’editore di Mishpahà, il principale giornale della comunità ultraortodossa, di fronte alla violenza degli ultimi giorni ha scritto che “è arrivato il momento di fare una riflessione seria. Siamo arrivati a una condizione di anarchia, ogni gruppo nella nostra società prende le proprie decisioni in autonomia. Dobbiamo riconsiderare il nostro rapporto con lo Stato”. Il rabbino Betzalel Cohen, che da anni promuove attività per avvicinare i haredim ai settori laici della società israeliana, sostiene che nel mondo haredì da anni sia in corso una battaglia interna tra “responsabili” e “militanti”. A suo parere, il Covid ha rafforzato a livello di opinione pubblica le tendenze isolazioniste e il futuro dipenderà anche dalla capacità di scegliere nuovi interlocutori che rappresentino istanze diverse di fronte al resto della società.
Titolo originale di Repubblica: Israele, la rivolta degli ultraortodossi contro le norme anti-Covid