Tzedakà: più della carità- Nachum Amsel
E’ impossibile definire e descrivere nei limiti di questo libro tutte le mete verso le quali vuole guidarci l’Eterno. I punti principali possono però essere sufficienti a mostrare la strada e a condurci a conoscenze di vasta portata.
Importanza straordinaria è data dall’Ebraismo ai precetti di Tzedakà e Mishpàt. Nel capitolo sulla profezia abbiamo citato alcuni ammonimenti dei Profeti a non deviare dalla strada di Tzedakà e Mishpàt. Essi si soffermarono anche sul legame esistente tra la ricerca di una vita facile e comoda e la trasgressione delle norme di Tzedakà e Mishpàt. Tuttavia, dato che in questo capitolo intendiamo parlare del posto che questi precetti occupano nella concezione ebraica del mondo, è bene che definiamo prima i due concetti. Essi sono molto simili l’uno all’altro; però non si identificano. Soltanto se comprendiamo ciò che li distingue, possiamo comprenderne la profondità. Effettivamente, dal giorno in cui l’Eterno disse ad Abramo di praticare Tzedakà e Mishpàt fino all’ultimo dei libri del Tanach che predica questi principi, trascorsero 1500 anni, durante i quali il significato di queste parole avrà assunto sfumature differenti. Tuttavia si possono dare queste definizione generali: il Mishpàt richiede tre azioni:
a) svelare i fatti come sono senza alcuna deviazione dalla verità;
b) stabilire se questi fatti siano consoni a ciò che richiede la legge;
c) trarne le conclusioni.
Apparentemente, se tutto il popolo seguisse il Mishpàt preso in questo senso, la situazione della società dovrebbe essere in perfetta regola; tuttavia ciò non è esatto. Il popolo romano sviluppò il diritto in grande misura; e ciò nonostante affermò: Summum jus, summa iniuria, e nell’affermare ciò aveva ragione per due motivi: prima di tutto perché qualsiasi legge, perfino una legge divina, deve necessariamente stabilire regole generali, dall’osservanza delle quali dipendono determinati effetti giuridici; altrimenti sarebbe impossibile che gli uomini mettessero ordine nella propria vita e in quella della società. Tuttavia quegli stessi effetti non si attagliano talvolta a una particolare situazione. Il furto è sempre un furto; ciò nonostante colui che ruba per arricchirsi non può essere paragonato a una donna che ruba per sfamare i propri figli; c’è chi falsifica un passaporto per sfuggire a una dura battaglia e c’è chi lo falsifica per partecipare a quella stessa battaglia; c’è chi distrugge una casa per danneggiare il padrone e c’è chi compie la stessa azione allo scopo di salvare delle vite umane; la maggior parte dei proprietari di terre proibisce agli estranei di passare attraverso i propri campi; come si deve però considerare una persona che impedisce al vicino il transito per l’unica strada da cui si acceda alla sua casa? La difesa dei diritti di proprietà è generalmente un’azione giuridica legale; tuttavia non bisogna eccedervi e ostinarvisi senza prendere in considerazione i bisogni del prossimo. E’ quindi evidente che non si può giudicare con giustizia senza entrare nei minimi particolari di ogni singolo caso.
In secondo luogo, talvolta la pena comminata per una trasgressione non colpisce in effetti il vero colpevole. In ogni singolo caso dobbiamo porci il problema se non siano state le condizioni di vita nel mondo in generale, o in un dato paese in particolare, a causare quella determinata trasgressione. Alcune trasgressioni vengono commesse per malvagità, altre sono conseguenza di uno stato morboso della società. Alcune cause civili nascono da differenti opinioni su determinati fatti e leggi; altre testimoniano della situazione morbosa della società. Che cosa si può fare per mutare questo stato di cose?
La Tzedakà si differenzia dal Mishpàt in quanto appunto essa tenta di modificare il Mishpàt nel caso che questo porti a ingiustizie; inoltre la Tzedakà si sforza di impedire la formazione di quelle condizioni che portano all’ingiustizia. La Tzedakà è ciò che in italiano può essere chiamata giustizia equilibratrice, equità.
Alla comprensione del rapporto esistente tra Mishpàt e Tzedakà siamo giunti per tre vie. Prima di tutto, ricercando l’etimologia delle due parole: come vengono chiamate quelle persone che mettono in pratica il Mishpàt e la Tzedakà? Colui che esegue il Mishpàt si chiama Shofet (giudice), l’altro Zadik (giusto).
In secondo luogo, osservando il parallelismo in versi come: Tzedakà e Mishpàt sono la base del Tuo trono, Chesed ed Emèth (benignità e verità) vanno davanti alla Tua faccia (Salmi, 89, 15). Qui la Tzedakà corrisponde al Chesed, il Mishpàt all’Emeth (cfr. anche: Seminate secondo la Tzedakà, mietete secondo il Chesed – Osea, 10, 12). Questo si deduce anche dal senso: di verità, ne esiste una sola: sia gradita o no, sia amara o lieta, non c’è alcuna possibilità di cambiarla; così è anche la via del Mishpàt; i fatti sono fatti, la legge è legge, e dato che esistono non si possono mutarne gli effetti. Al contrario, il Chesed è ricco e pieno di sfumature; esso vede le disgrazie del misero e si sforza di aiutarlo; Il Chesed non solo cura le ferite, ma impedisce anche che siano inferte: e questa è anche la via che la Tzedakà deve seguire.
In terzo luogo, alla comprensione di tale rapporto siamo giunti studiando l’evoluzione del significato della parola Tzedakà, il cui concetto ora abbraccia tutto ciò che presso gli altri popoli va sotto il nome di assistenza sociale. Con questa parola si indica non solo l’aiuto che si deve prestare in determinate situazioni sociali, ma anche ciò che si deve fare per evitare che nuove disgrazie avvengano e altre ingiustizie si aggiungano a quelle già esistenti. Come motto adatto alla Tzedakà si può prendere il verso di Isaia (35, 3): Fortificate le mani infiacchite, raffermate le ginocchia vacillanti!
Chi tenga presenti unitamente queste tre spiegazioni, comprenderà il significato generale delle parole Tzedakà e Mishpàt, sebbene in alcuni altri versi i precetti di Tzedakà e Mishpàt assumano un significato più vasto.
Ora possiamo tornare a sottolinearne l’importanza, attraverso citazioni testuali. Come primo esempio porteremo ciò che l’Eterno stesso ha detto di Abramo: Ed Abramo deve diventare una nazione grande e potente e in lui saranno benedette tutte le nazioni della terra. Poiché Io l’ho prescelto affinché ordini ai suoi figli e dopo di sé alla sua casa, che s’attengano alla via dell’Eterno per praticare la “Tzedakà” e il “Mishpàt” (la giustizia e il diritto), onde l’Eterno ponga ad effetto a pro’ di Abramo ciò che gli ha promesso (Genesi, 17, 18-19). Da questo verso noi vediamo che fu promesso ad Abramo che sarebbe stato il progenitore di un grande popolo e causa di benedizione per tutti gli altri popoli affinché i suoi discendenti praticassero la Tzedakà e il Mishpàt; concetti che il verso identifica esplicitamente con la via dell’Eterno. Possiamo perciò senz’altro affermare che, anche se questo fosse l’unico verso della Bibbia sull’argomento, sarebbe sufficiente a darci un’idea chiara del posto che questi due principi occupano nella concezione ebraica. Ma nella stesso senso troviamo nella Torà il comando: La giustizia, solo la giustizia seguirai, affinché tu viva e possegga il paese che l’Eterno tuo Dio ti dà (Deut., 16, 20). Anche qui questo precetto condiziona l’esistenza stessa del popolo e la conquista della Terra Promessa.
In Geremia (22, 15-16) troviamo: Tuo padre forse non mangiava e non beveva? Ma faceva ciò che è retto e giusto (Mishpàt e Tzedakà) e tutto gli prosperava. Egli giudicava la causa del povero e del bisognoso e tutto gli prosperava. Non è questo conoscerMi?, dice l’Eterno Come più sopra abbiamo trovato identità di significato tra la via del Signore e Tzedakà e Mishpàt, così qui troviamo identità di significato tra conoscenza dell’Eterno e Tzedakà e Mishpàt.
Questi due precetti sono anche condizione per la Gheullà (la redenzione): Rispettate il diritto (“Mishpàt”) e fate ciò che è giusto (“Tzedakà”), poiché la Mia salvezza sta per venire e la Mia giustizia sta per essere rivelata (Isaia, 56, 1); Ecco, i giorni vengono dice l’Eterno, quand’Io farò sorgere da David un germoglio giusto il quale regnerà e prospererà e farà Mishpàt e Tzedakà nel paese. Ai suoi giorni Giuda sarà salvato e Israele starà sicuro nella sua dimora (Geremia, 23, 5-6); Sion sarà redenta mediante il Mishpàt e quelli che a lei torneranno mediate la Tzedakà (Isaia, I, 27). Ricordiamo che la trasgressione di questi due precetti costituisce una delle cause del Churban (distruzione di Gerusalemme) e dell’esilio; è naturale quindi che il ritorno alla loro osservanza sia condizione delle Gheullà.
Qualche lettore potrebbe sostenere che questi precetti non sono esclusivamente della Bibbia e che non dovrebbe neanche esserci bisogno di comandarli. La realtà, tuttavia, è purtroppo ben differente: tutti i popoli, non escluso il nostro, hanno peccato contro queste norme; mentre i nostri capi spirituali non hanno mai cessato di predicare che ciò costituisce una colpa ed un peccato, dopo più di 3000 anni da quando la parola divina espresse questi precetti, gli Stati totalitari seguono la regola che l’interesse dello Stato ha più importanza di qualsiasi richiesta di Tzedakà e di Mishpàt. Anche molti altri Stati agiscono in questo spirito, sebbene non lo dichiarino apertamente; e quanti peccano contro la norma prima e basilare di Tzedakà e Mishpàt, contro la norma dell’uguaglianza di ognuno dinanzi alla legge! Differenze di razza, di colore, di religione e di ceto servono perfino ai legislatori come base per discriminazioni, e tanto più ai giudici e alla burocrazia! In molti paesi la procedura giuridica è diventata così lenta e cara che molte persone rinunciano ai loro diritti piuttosto che ricorrere ai tribunali. Nei paesi anglo-sassoni il Mishpàt assume talvolta l’aspetto di competizione sportiva tra gli avvocati, invece che di sforzo teso alla ricerca della verità; essi impiegano un’arte particolare in richieste formali; con penetrante acutezza hanno tanto trasformato la procedura, che essa è divenuta, da mezzo, la dominatrice del giudizio. Hanno dimenticato completamente che è vero, sì, che il giurista deve essere un artista, ma che l’arte del diritto non deve consistere nel vincere a qualsiasi costo, bensì deve servire a raggiungere la giustizia e la verità. Un solo scopo deve avere il giudizio: ricercare la verità e trarne le conseguenze.
Un esempio di come gli uomini si perdano nella foresta della giustizia e dimentichino per quale ragione esistano i tribunali è il seguente: durante il periodo dell’inflazione in Israele, alcune persone cercavano il modo di annullare i contratti di vendita che avevano già firmato, dato che ogni annullamento avrebbe permesso loro di vendere la merce a prezzo più vantaggioso; un avvocato tra i più famosi, un avvocato che godeva di una posizione ragguardevole, accettò di difendere in giudizio uno di questi profittatori; quando gli feci notare l’immoralità di tale procedimento, mi rispose: Secondo tutti i principi dell’etica professionale, io ho non solo il permesso, ma il dovere di accettare di difendere questa causa: va’ pure a consultare la letteratura giuridica inglese e vi troverai che l’avvocato non è tenuto altro che a ricercare esclusivamente il lato giuridico; se trova che, per un qualsiasi vizio di forma, il contratto può essere impugnato, non gli è più lecito rifiutare il suo servizio al convenuto. A ciò io risposi: Che c’entra l’etica professionale inglese con l’Ebraismo? A questo proposito i nostri Maestri hanno già detto: “Non comportarti come gli avvocati” (Avoth, I, 8), come quegli avvocati cioè, che ricercano pretesti giuridici per giustificare una posizione immorale. L’Ebraismo richiede fedeltà alla promessa, anche se è possibile sostenere che il contratto non è valido per un qualsiasi vizio di forma. L’Halakhà stabilisce infatti: “Quando è stato dato il denaro, anche se non è stato preso possesso dell’oggetto, sebbene giuridicamente non sia compiuto il passaggio di proprietà e quindi la compra-vendita possa essere annullata, tuttavia la parte contraente, sia il compratore sia il venditore, che ritorna sulla sua promessa, non si comporta secondo le usanze del popolo d’Israele; viene quindi invocata su di lui, dal Tribunale, la maledizione divina secondo la formula consueta: ‘chi ha punito la generazione del diluvio e quella della Torre di Babele… punisca chi non mantiene la sua promessa’” (Mishné Torà, Hilchoth Mechirà, cap. 7, halakhà I e II). E questa non è soltanto una disposizione morale, bensì una halakhà ben definita, una legge.
Noi non pretendiamo che nella nostra storia si siano sempre osservate fedelmente le norme di Tzedakà e Mishpàt; al contrario: i Profeti di Israele non si sarebbero certamente dilungati nei loro discorsi su questo argomento, se non fosse stato necessario raddrizzare ingiustizie sociali. Sosteniamo soltanto che nella nostra legislazione ne esiste la chiara esigenza, e che in ogni tempo vi sono stati capi che sapevano e ci insegnavano che questa era la retta via da seguire. Inoltre noi non ci siamo mai vantati di un comportamento iniquo, di un comportamento che fosse contrario alla Tzedakà ed al Mishpàt. E non c’è neanche da temere che un giorno, sia pur lontano, potremmo essere portati a seguire i metodi degli Stati totalitari; ma c’è senz’altro da temere che potremmo seguire i metodi ingiusti di paesi civili, metodi a prima vista comodi. Per questo diciamo: Abbiamo il dovere di sradicare completamente la tradizione formalistica della procedura, che svisa la giustizia del diritto; ed a questo proposito lo Stato d’Israele ha avuto una cattiva eredità sia dai turchi sia dagli inglesi: la procedura deve servire la giustizia e non dominarla; in ogni caso di dubbio di procedura, si deve giudicare con benevolenza e non con severità; specialmente nell’escussione dei testi la procedura deve essere completamente elastica e tener presente che ha soltanto uno scopo: la ricerca della verità; si deve dare la possibilità al giudice e alle parti in causa di dedurre i fatti dalle parole dei testimoni e di chiarirli per mezzo di un’indagine intelligente. Limitazioni formalistiche non debbono ostacolare e svisare questa azione. Abbiamo il dovere di disprezzare quell’ “etica professione” che contrasta con le basi morali della Tzedakà e del Mishpàt. Abbiamo il dovere di essere consapevoli che i tribunali esistono per sostenere la verità, il diritto e la giustizia. “Che la legge spezzi le montagne!”, e certamente spezzi la procedura e tutto ciò che, creato in principio per servire e aiutare la giustizia, alla fine è diventato un ostacolo ad essa.
Non è questo il luogo per passare in rassegna il diritto ebraico e mostrare che vi si attuano i principi della giustizia. Tuttavia, possiamo dare alcuni esempi. Ecco degli ammonimenti contro qualsiasi discriminazione:
Non maltrattare lo straniero e non opprimerlo, poiché anche voi foste stranieri nella terra d’Egitto. Non affliggere alcuna vedova né alcun orfano (Esodo, 22, 20-21);
Non favorire il povero nel suo processo (Esodo, 23, 3);
Non conculcare il giudizio del forestiero e dell’orfano e non prendere in pegno l’abito della vedova (Deut., 24, 17);
Non aver riguardo alla persona del povero, non tributare speciale onore al potente (Levitico, 19, 15);
Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, rialzate l’oppresso, fate ragione all’orfano, difendete la causa della vedova (Isaia, I, 17);
Non difendono la causa dell’orfano, eppur prosperano, e non fanno giustizia nei processi dei poveri. E non dovrei punire Io queste cose – dice l’Eterno – E l’anima mia non dovrebbe fare giustizia di una simile nazione? (Geremia, 5, 28-19.
Nel capitolo 7 di Geremia il monito Non opprimete il forestiero, l’orfano e la vedova è in parallelismo al precetto E non verserete il sangue dell’innocente (7, 6).
Vedi anche in Zaccaria (7, 10): Non opprimete la vedova, l’orfano e il forestiero e il povero; e in Numeri (15, 16): Una sola legge e un solo giudizio sia per voi e per il forestiero che abita presso di voi.
Questi versi mostrano il senso fondamentale della morale ebraica; qui diamo ora alcuni esempi più particolareggiati:
Non defraudare il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno degli stranieri che stanno nel tuo paese, entro le tue porte. Gli darai il suo salario nel giorno che gli spetta e non attenderai che tramonti il sole, poiché egli è povero e l’aspetta con impazienza; così egli non griderà contro di te all’Eterno e tu non commetterai un peccato.
A questo verso è parallelo un passo del Levitico (19, 13): Non opprimere il tuo prossimo e non gli rapinare ciò che è suo: non ti resti in mano la notte fino al mattino il salario dell’operaio al tuo servizio .
Su questi due versi si basa l’halakhà fissata da Maimonide: Chiunque si appropri del salario dell’operaio è come se gli togliesse la sua anima… e trasgredisce quattro precetti negativi e un precetto affermativo (Hilchoth Sechiruth, 11, 2).
In quale Stato del mondo i diritti del lavoratore sono difesi in modo così energico? Non soltanto li difende il diritto civile, ma una violazione ai diritti del lavoratore è considerata un gravissimo crimine!
La maggior parte dei popoli, se non tutti, sono caduti in una grave colpa: durante le indagini riguardanti dei delitti usavano tormentare gli accusati allo scopo di farli confessare; così usano i popoli anche ai nostri giorni. E’ il terzo grado escogitato proprio in un paese libero, dimostra che torture di questo genere non sono monopolio degli Stati totalitari. Il popolo di Israele è forse l’unico che non sia incorso in questa stortura e ciò per merito di una norma giuridica semplice ma elevata. Nel diritto civile la confessione di una parte in causa, vale come cento testimoni, ma nel diritto penale vale invece la norma che nessun uomo può accusare se stesso (Sanhedrin, 9). La confessione dell’accusato non ha quindi alcun valore e ne deriva necessariamente che non vi saranno torture nel suo interrogatorio. Questa halakhà, secondo Rav Zalman Baruch, z”l, è uno dei segni del rispetto di sé che fu comandato all’uomo di avere, in quanto creato a immagine divina, rispetto al quale nessun uomo ha il diritto di rinunciare. Seppure possano sorgere dubbi su questa opinione, certo non si può negare in modo assoluto l’ipotesi che la Suprema Sapienza abbia voluto impedire per mezzo di questa halakhà la tortura degli accusati. Ed ancora un’altra conseguenza importante: ogni uomo portato in giudizio è innocente fino a che non sia dimostrata la sua colpevolezza; questa regola è seguita, sì, anche da altri popoli, ma quale vera forza può avere se la confessione dell’accusato non è priva di ogni valore?
Ammirevole è il diritto in Israele e molto più progredito dei diritti moderni anche in quanto non esige dal teste di giurare che la sua testimonianza è vera. Il teste viene interrogato e i giudici indagano; ma se si ammette che senza giuramento il teste può mentire, neppure col giuramento gli si deve prestar fede (Kiddushin, 43). In questo modo il diritto ebraico evita quel vilipendio del giuramento, così diffuso nella maggior parte degli Stati moderni. Come è degradante la forma con la quale, a nostra vergogna, nel diritto attuale in Israele, si ascoltano testimoni e si accettano dichiarazioni sotto giuramento! Di fronte a ciò, il metodo seguito dal nostro diritto rafforza il senso dell’onore e della responsabilità del teste. Il teste che sa che, a priori, gli si presta fiducia e si ha rispetto di lui, non può essere paragonato a quel teste che sa che, a priori, non gli si presta fiducia altro che in virtù di un giuramento.
Ora dalla procedura passiamo al diritto civile.
E’ proibito guadagnare nella compra-vendita più di una determinata percentuale, a meno che il compratore non sia d’accordo. Tuttavia ciò non basta: occorre ancora una salvaguardia nel caso di carestia, quando cioè i compratori possono essere costretti ad accettare, contro la propria volontà, di pagare qualsiasi prezzo; perciò l’halakhà stabilisce che i tribunale fissino, nel momento del bisogno, i prezzi massimi per le merci di importanza vitale (Hilkhoth Mekhirà, 14, 1-2). Secondo la nostra definizione, questo non è soltanto diritto, bensì insieme diritto (Mishpàt) e equità (Tzedakà). La halakhà si sforza di assicurare che determinate merci vitali siano vendute sempre a un prezzo che ogni uomo possa pagare.
Così la Tzedakà si intreccia col Mishpàt anche nelle halakhot riguardanti i prestiti: E’ un precetto affermativo prestare ai poveri di Israele, poiché è detto: “Se presterai del denaro al Mio popolo, al povero che si trova presso di te…” (Esodo, 22, 24). Non pensare però che sia soltanto un precetto facoltativo; infatti è scritto anche: “Gli aprirai largamente la mano e gli presterai quanto gli bisognerà” (Deut. 15, 8). E questo precetto è più importante di quello che impone di dare Tzedakà al povero che domanda, poiché questi si trova già nella condizione di chiedere, mentre quegli non è ancor giunto a questa necessità; e la Torà è particolarmente severa verso colui che ha evitato di prestare al povero, poiché è scritto: “Guardati dall’accogliere in cuor tuo un cattivo pensiero che ti faccia dire: – Il settimo anno, l’anno di remissione, è vicino! – e ti spingerà ad essere spietato verso il tuo fratello bisognoso, sì da non dargli nulla; poiché egli griderebbe contro di te all’Eterno e ci sarebbe del peccato in te”.
Questa halakhà costituisce l’introduzione a tutte le leggi che stabiliscono ciò che è permesso e ciò che è proibito nell’esigere un credito. Le leggi sul prestito si basano sul principio: Se presti del denaro… non comportarti da usuraio (Esodo, 22, 24), e i doveri di colui che presta derivano dal verso che afferma Non dire al tuo prossimo: Va’ e torna (Proverbi, 3, 28).
Sarebbe bene che i lettori apprendessero i particolari delle halakhot che regolano i prestiti: questi precetti hanno educato gli Ebrei in ogni generazione. E’ vero sì che è stato stabilito lo etter ‘iskà (autorizzazione di commercio), che ha permesso di prendere interessi; tuttavia si tenga presente che è permesso ricorrervi solo nel caso di persone che prendano in prestito del denaro non perché ne manchino completamente, ma proprio perché ne hanno; cioè, per quei proprietari di capitali o mercanzie, che cercano di accrescere i propri guadagni aumentando la propria disponibilità di denaro o di merce. In questo caso ci troviamo di fronte a una speculazione, e colui che presta una parte del capitale, investendo il proprio denaro, ha il diritto di chiedere la sua parte di guadagno. Chi invece chiede in prestito perché è veramente indigente, ha diritto alla ghemiluth chesed, prestito senza interesse; e in ogni generazione sia dei singoli, privatamente, sia casse di soccorso appositamente istituite, hanno contribuito, con prestiti elargiti a persone bisognose, ad evitare che queste si riducessero alla mendicità. E così ci è stato comandato: Se presterai denaro (e hai l’obbligo di prestarlo) al Mio popolo, al povero che si trova presso di te.
In modo particolare la legge ebraica si preoccupa della Tzedakà nel senso di giustizia equilibratrice. Il diritto romano definì la proprietà come la prerogativa di disporre dei propri beni secondo la propria volontà. Il diritto ebraico non riconosce la proprietà in un senso così lato; e questo è forse uno dei segni più notevoli della supremazia della nostra Torà su tutte le altre leggi, sia del suo tempo sia di molto posteriori. Il padrone non può fare con i propri beni ciò che vuole. Ogni bene – dice la Torà – deve innanzi tutto servire ai bisognosi (tra questi si trovano i Cohanim e i Leviti, che non posseggono beni immobili e quindi non hanno entrate normali; ma non è questo il luogo di trattare tale argomento, perchè qui ci interessano le limitazioni di proprietà istituite in favore dei poveri).
Quattro limitazioni sono stabilite per le vigne: il lèket(spigolatura), le oleloth (resti di raccolto), la peà (estremità del campo) e la shichkhà (parti dimenticate); tre per i prodotti della terra: il lèket, la shichkhà e la peà; due per i prodotti degli alberi: la shichkhà e la peà (Maimonide: Hillkhoth mattenoth ‘anyim, I, 1). Inoltre spetta ai poveri la decima del secondo e del sesto anno di ogni periodo di sette anni o shemittà (Deut., 14, 28; Hilkhoth mattenoth ‘anyim, 6, 4).
Dal punto di vista della filosofia del diritto è molto importante notare che tutti questi contributi il povero non li riceve come regalo, né il proprietario li dà per bontà di cuore: spettano al povero di diritto, proprio come allo Stato spettano di diritto le tasse e i contributi dei cittadini. Il proprietario il dà perché la proprietà che egli ha dei suoi beni è, a priori, limitata: le sue terre sono soggette a un controllo legale; egli non ha il diritto di usarne a volontà e di sottrarsi alle limitazioni legali.
Un’altra dura limitazione ai privilegi dei proprietari è costituita dalle leggi riguardanti l’anno del Giubileo, leggi che impedirono completamente la vendita dei beni immobili (escluse le case delle città cinte di mura), trasformandola in un affitto fino all’anno del Giubileo.
La questione ha tre aspetti importanti: il primo è, come abbiamo detto sopra, la fondamentale differenza di significato che ha assunto il concetto di proprietà; il padrone della terra non è libero di fare con i propri beni ciò che vuole; l’interesse della collettività ha la precedenza su quello del privato. A parte le conseguenze pratiche, questa legge ha anche un valore educativo: ogni limitazione e assoggettamento a vantaggio della collettività insegna sempre al proprietario che non è il suo egoismo a determinare i limiti del suo dominio; il bene della collettività prevale, quindi come in tutti gli altri casi, sui privilegi del privato.
In secondo luogo nessuna famiglia può cadere in povertà in modo definitivo: dopo un determinato periodo le viene sempre restituita la sua proprietà fondiaria; questa legge quindi impedisce l’esistenza nel paese di persone ridotte in miseria senza speranza.
In terzo luogo i prezzi dei terreni non potranno mai salire a dismisura: chiunque compri dovrà prendere in considerazione gli anni che rimangono fino al Giubileo, poiché sa che allora la proprietà gli verrà tolta; necessariamente non pagherà un prezzo esagerato. Il prezzo dei terreni ha influenza sui prezzi dei prodotti; per cui questo sistema ha anche la forza di impedire il rincaro dei prodotti.
Finché tutte le tribù d’Israele non saranno in possesso di tutto il territorio di Erez Israel, le norme riguardanti il Giubileo non entreranno in vigore; questa halakhà deriva dal modo in cui è formulata nella Torà. Non sappiamo perché la Torà l’abbia formulata in questo modo, ma un motivo semplicissimo possiamo comprenderlo: queste leggi possono essere osservate fin tanto che ogni ebreo può tornare al campo che egli o suo padre furono costretti a vendere. Il giusto principio su cui si fonda questa norma perde ogni valore, se una parte del popolo deve abbandonare ciò che ha acquistato, senza però poter tornare in possesso di quanto apparteneva in passato alla sua famiglia. E finché soltanto una parte della Terra d’Israele è nelle nostre mani, è evidente che chi lascia i beni immobili acquistati (allo scopo di permettere ad altri di prenderne possesso), non può tornare in possesso del patrimonio immobiliare della sua famiglia, in quanto esso si trova al di fuori dei confini dello Stato d’Israele. Noi comprendiamo quindi almeno una ragione per la quale le leggi del Giubileo non sono oggi in vigore. Se vogliamo, tuttavia, costruire lo Stato d’Israele sulle basi dell’Ebraismo, dobbiamo adattare la nostra legislazione fondiaria in modo da raggiungere le mete che quelle leggi si prefiggono. E ciò finché non giunga il Redentore e non riporti tutto il popolo nella Terra d’Israele, entro quei confini che essa aveva in origine; e allora Egli rimetterà in vigore anche le leggi del Giubileo in tutta la loro grandezza e in tutta la loro bellezza.
Vediamo ora quali siano le leggi riguardanti la Tzedakà che hanno valore anche ai nostri giorni. Abbiamo già visto che è nostro dovere di impedire, con mezzi costruttivi, il prodursi della povertà; ma finché esisteranno poveri ci è stato imposto di sostenerli con denaro e di procurare loro un tetto, vitto e vestiario: Aprigli largamente la tua mano (Deut. 15, 8); Se il tuo fratello che è presso di te è impoverito e i suoi mezzi vengono meno, tu lo sosterrai, anche se è forestiero e avventizio, onde possa vivere presso di te (Lev.; 25, 35). E subito dopo: E viva il tuo fratello presso di te (verso 36). Questi tre versi sono la base di tutta la successiva legislazione; molti altri versi Maimonide riporta nel corso del suo trattato.
Fino ad oggi sia gli uomini di scienza sia quelli di azione sono d’accordo nel riconoscere che il soddisfacimento delle tre necessità fondamentali, cioè un tetto sotto cui dormire, il vitto e il vestiario costituiscono la base di ogni assistenza sociale; e così ci ha anche comandato l’Eterno per bocca di Isaia: Non è questo (ciò di cui Io mi compiaccio)? che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu porti a casa tua gli infelici senza asilo, che quando vedi una persona nuda che tu la copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne (Isaia, 58, 7).
Da ciò si è sviluppata tutta la complessa rete della Tzedakà presso il popolo di Israele: la cassa per la distribuzione di aiuti in denaro, cucine popolari per il vitto, case di riposo per vecchi, orfanotrofi, ricoveri, depositi di vestiario. Tutto ciò non viene considerato come una elargizione di favore ai poveri, come presso gli altri popoli (pur quando essi fanno Tzedakà – nel senso della Charitas latina), sebbene, Tzedakà, giustizia equilibratrice, che ognuno è tenuto a compiere; e il povero non la riceve come un regalo ma come un diritto. L’ebreo compie una grave trasgressione se si sottrae all’obbligo di dare al povero ciò che gli spetta; noi non abbiamo il permesso di dimorare in una casa, di vestirci e di mangiare se non abbiamo fatto, ognuno nel limite delle proprie possibilità, in modo che altri non rimangano privi di un tetto, di un vestito e del cibo: Abbiamo l’obbligo di adempiere scrupolosamente al precetto della Tzedakà più che a qualsiasi altro precetto affermativo, poiché la Tzedakà è un segno della Zadik (giusto), stirpe di Avrahàm, come è detto: “Poiché l’ho conosciuto affinché comandi ai suoi figli di praticare la Tzedakà”. E il trono di Isarele non è stabile e la religione della verità non si mantiene se non per merito della Tzedakà, come è detto: “Nella Tzedakà rendimi stabile”. E Israele non sarà redento se non per merito della Tzedakà, come è detto “Sion col Mishpàt sarà riscattata, e i suoi esuli per merito della Tzedakà”. Queste parole non costitutiscono solamente un ammonimento morale, bensì una halakhà ben stabilita (Maimonide: Hilkhoth mattenoth ‘anyim, cap. 10, 1).
L’insegnamento che dobbiamo trarre da tutto ciò è oggi ben differente che nel passato: mentre un tempo il nostro dovere si limitava a due osservanze, cioè ad eseguire i precetti sia scritti sia insegnatici dalla legge orale e a comportarci secondo lo spirito degli statuti divini, anche in quei casi non esplicitamente da essi contemplati, oggi abbiamo un ulteriore compito: adattare la legislazione dello Stato d’Israele a questi principi, conformando le basi dell’economia moderna e della società moderna allo spirito degli statuti della Torà, sia scritta sia orale. Non è compito di questo libro scrivere una simile legislazione in tutti i suoi particolari: gli esempi citati possono indicare solo in misura limitata in quale direzione si debba procedere; ma gà da tempo è giunta l’ora non solo di elaborare le leggi generali, ma anche di soffermarsi su tutti i loro minimi particolari. Nessuna legislazione sarà completa se non sarà costruita sui due fondamenti della Tzedakà e del Mishpàt.
Un Mishpàt uguale per ogni individuo senza discriminazioni; un Mishpàt attuato da giudici e da avvocati che lavorino insieme allo scopo di scopire la verità e di fondare su di essa, e solo su di essa, le loro decisioni. Un Mishpàt senza vittorie formali e senza sconfitte formali; un Mishpàt la cui procedura aiuti a raggiungere questa meta e non la travisi.
E accanto al Mishpàt, la Tzedakà, giustizia equilibratrice che impedisca all’individuo di abusare dei prorpri diritti tanto da ledere i diritti degli altri; che sottometta i privilegi del singolo al bene della collettività e stabilisca un sistema di vita economica nel quale per ora siano alleviate le sofferenze dei poveri, e in fine non vi sia posto per la povertà.
Tuttavia la legislazione da sola non può tanto: il fattore decisivo è l’educazione del singolo; Tzedakà e Mishpàt non avranno predominio nello Stato se non quando ogni singolo sarà pienamente consapevole che essi sono le pietre basilari della Casa d’Israele.
Non diamoci tregua, continuiamo a studiare e sapremo che senza Tzedakà e Mishpàt, la vita non ha valore. Abbiamo il preciso compito di far dominare innanzi tutto Tzedakà e Mishpàt nella nostra vita privata, di fare tutto il possibile affinché Tzedakà e Mishpàt governino tutto il paese: nella vita del privato, nella società e nello Stato.
NOTE
1 Secondo il Talmud palestinese si tratta di un quinto dei suoi beni solo per il primo anno, dopodiché, è un quinto del suo reddito.
2 Cfr. Mishnè Torà, Eruvin 12,13.
3 Cioè in questordine di priorità.
4Cioè sono molti e si portano con loro i poveri della propria città.
5Agli esattori di Tzedakà
6 Per luomo si tratterebbe di prostituzione omosessuale.
7 Il mamzer è il figlio di un rapporto adulterino o tra consanguinei.
8 Che altrimenti si sarebbero vergognati.
9 E chiaro che si tratta di ridurre le spese in onore del sabato e non un invito alla profanazione.
10 Yevamot 79a
11 Bava Batra 10a.
12 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:1.
13 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:3.
14 Sukkah 49b.
15 Proverbi 21:3.
16 Alla fine della preghiera Untane Tokef nel Mussaf dei giorni di Rosh Hashanà e Jom Kippur.
17 Proverbi 10:2.
18 Bava Batra 9a.
19 Bava Batra 10a.
20 Bava Batra 8b
21 Commento del Maharsha a Bava Batra .
22 Rashi, Commento su Genesi 6:9.
23 Deuteronomio 16:20.
24 Levitico 19:36.
25 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:3.
26 Haggai 2:8.
27 Salmi 24:1
28 Avot 3:7
29 1 Cronache 29:14.
30 Il Commento di Abarbanel a Deuteronomio 15:7-8.
31 Bava Batra 10a.
32 Midrash, Tanchuma, Tazria 5.
33 Secondo verso della preghiera Alenu, che si dice alla fine di ogni tefillà.
34 Deuteronomio 15:11.
35 Terza benedizione della Birkat Hamazon.
36 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:5.
37 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:14.
38 Maimondie, Hilchot Matanot Aniyim 10:13.
39 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:12.
40 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:11.
41 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:10.
42 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:9.
43 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:9.
44 Bava Batra 9b.
45 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:5.
46 Bava Batra 93b.
47 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 10:6.
48 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:13.
49 Shulchan Aruch Yoreh De’ah 251:3 e Shulchan Aruch Yoreh De’ah 75:1-4 dove un coniuge può “forzare” l’altro ad andare a vivere in Israele e/o a Gerusalemme, come un coniuge può “forzare” l’alro a vivere nella sua città nativa.
50 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:7.
51 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:5.
52 Esiste un libro su queste problematiche in inglese: Maaser Kesafim, Cyril Domb, ed., Gerusalemme, Feldheim, 1980.
53 Avot 4:11.
54 Sotah 3b.
55 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:2.
56 Maimonide, Hilchot Matanot Aniyim 7:6.