Due sono, secondo i nostri Maestri, le ragioni alla base della Mitzwah di onorare i genitori. La prima risiede nell’idea del do ut des. L’avvicendamento generazionale è una ruota che gira su se stessa. Onora oggi i tuoi genitori se vuoi un domani essere onorato a tua volta dai tuoi figli (Abrabanel). E’ una concezione basata sull’idea di giustizia retributiva. La seconda motivazione risiede piuttosto nel senso di gratitudine che proviamo verso chi ci ha messo al mondo, ci ha nutrito per molti anni e ci ha dato un’educazione (Sefer ha-Chinnukh).
E’ questa una visione incentrata sull’idea di bontà e di chessed. I Maestri insistono sul valore particolare di questa forma mentale, che delle due è di gran lunga la più nobile. Essa non si fonda su un calcolo utilitaristico, ma su un vero sentimento. La riconoscenza verso i genitori porterà l’individuo, in ultima analisi, a provare gratitudine verso Colui che è stato loro socio nell’atto della sua creazione: D.
I commentatori della Parashah odierna osservano come proprio Esaù fosse dedito all’osservanza di questa Mitzwah. Ma se andiamo a vedere i fatti più da vicino, ci portano senz’altro a concludere che Esaù fosse spinto essenzialmente dalla prima motivazione: ne emerge una figura problematica, ma proprio per questo interessante e moderna. Molti sono gli elementi del racconto che mettono in luce questo aspetto. Anzitutto, Esaù aveva con suo padre un rapporto fondato sui regali. I regali non erano qui l’espressione di un sentimento, bensì prendevano il posto di un sentimento che non c’era. Ben inteso: Esaù non riceveva i doni, li faceva. Riteneva che questo fosse il modo più consono per ottenere lo sperato contraccambio: la benedizione paterna che altrimenti, paventava, avrebbe potuto essergli negata. Un verso dei Proverbi insiste proprio sull’inopportunità di riscuotere regali: ושנא מתנות יחיה “Colui che detesta i doni vivrà” (15,27)! I commentatori si interrogano allora sul perché papà Itzchaq abbia derogato a questo principio accettando, e persino sollecitando, le attenzioni del figlio. Essi rispondono che Itzchaq non voleva urtare la suscettibilità di Esaù, sperando nella sua Teshuvah. Cosa non si fa nell’illusione di recuperare un figlio.
Figlio che dal canto suo si divertiva a provocare suo padre, domandandogli per esempio: “Come si preleva la decima dal sale e dalla paglia?” (Rashì a Bereshit 25,27 dal Midrash Tanchumà). Le decime sono un obbligo che la Torah lega ai prodotti essenziali per il sostentamento dell’uomo: il grano, il mosto e l’olio. E’ un modo per riconoscere che questi doni del S.B., in quanto fonte di vita, hanno una loro qedushah. Il sale è un semplice condimento e la paglia è cibo animale. Nell’ordire la sua provocazione Esaù dimostrava di aver perduto la nozione dei veri valori, di voler santificare il superfluo e l’effimero anziché ciò che nella vita è davvero importante. O più esattamente ciò che, come il sale, ci consente un godimento più intenso dei beni materiali.
Interessante anche il rapporto di Esaù con le sue mogli. Dopo aver avuto una gioventù sfrenata, a quarant’anni sposò due donne cananee. Pensò: “è l’età in cui anche mio padre si è sposato”! Ma manteneva il proprio guardaroba a casa di sua madre. Non si fidava delle consorti, o piuttosto aveva paura del giudizio materno? Alla fine la Parashah narra che Esaù, dopo aver udito che il fratello Ya’aqov era stato mandato a cercarsi moglie presso la famiglia dello zio Labàno in Aram, partì a sua volta. Sapeva che “le cananee erano cattive agli occhi di suo padre” e si recò presso Ishma’el dove sposò una terza donna. Ma si guardò bene dal lasciare le prime due. L’onore dovuto ai genitori era per lui una facciata da mantenere senz’altro finché non si scontrava con i suoi comodi personali.
Diverso il caso di Ya’aqov. Anch’egli obbediva ai genitori. Ma lungi dal perseguire un interesse personale, la sua obbedienza sfociava nella sofferenza. E’ in obbedienza al comando di Rivqah che Ya’aqov si presentò dal padre sotto le spoglie di suo fratello per ricevere la Berakhah al posto suo, derivandone soltanto odio da parte di quest’ultimo. Ed è in obbedienza a un comando di entrambi i genitori che Ya’aqov lasciò non solo la casa paterna, ma anche la sua terra. A quale scopo? Affinché si realizzasse attraverso di lui un fine superiore, che la Berakhah spirituale di Avraham avesse una continuità: תתן אמת ליעקב “Darai la Verità a Ya’aqov” (Mikhah 7,20). Esaù certamente si metteva in pericolo quando andava a caccia per compiacere suo padre: ma questo era il suo mestiere, non si sacrificava. Ya’aqov rappresenta invece il sacrificio di sé per il conseguimento di valori elevati.
C’è a questo punto un terzo livello, in cui l’impegno verso i genitori si sublima, trova la sua redenzione finale. La redenzione comporta a sua volta una rinuncia in nome di un principio superiore. E’ quando siamo chiamati a rinunciare non ai nostri comodi, ma alla Mitzwah stessa di onorare i genitori per attendere a valori ancora più grandi. Responsa di Maestri contemporanei stabiliscono che un’altra Mitzwah è ancora più grande del precetto di onorare i genitori. Si tratta dell’obbligo di vivere in Eretz Israel. In linea di principio se un giovane desidera compiere la ‘Aliyah ed è ostacolato dai genitori senza particolari motivi d’urgenza, è tenuto a prediligere Eretz Israel a dispetto dei genitori. E allora –mi domanderete voi- perché Ya’aqov nostro Padre ha fatto apparentemente l’inverso, obbedendo ai genitori anche nel momento in cui gli ingiungevano di lasciare la Terra? La risposta è che c’è un terzo precetto ancora più forte: il dovere di sposarsi. E’ lecito lasciare Eretz Israel se si tratta di trovar moglie. E Ya’aqov lo fece.