Molti eventi catastrofici nella storia ebraica, fra cui la distruzione dei Santuari di Gerusalemme per mano dei babilonesi prima, dei romani poi, sono avvenuti il 9 di Av. Ogni anno il digiuno del 9 di Av rappresenta di certo un’occasione per riflettere sulla storia passata, ma dovrebbe, e questa è secondo Maimonide una delle funzioni dei digiuni, farci riflettere sulla situazione attuale.
Il 7 ottobre per il mondo ebraico ha rappresentato una cesura epocale. Non potrebbe essere altrimenti, sia per via della portata dell’evento, sia perché siamo ancora coinvolti, alcuni concretamente, altri solamente da un punto di vista emotivo, nelle conseguenze determinate da quel brutale assalto, caratterizzato da modalità alle quali non si assisteva dalla Shoah. Difficile confrontarsi con una situazione del genere, se persino la stessa Shoah a livello rituale non è stata metabolizzata, se non in modo incidentale.
Quando ci si trova in una situazione negativa, spesso si prova la sensazione di non essere in grado di uscirne. Per questo può rivelarsi utile riflettere su come il popolo ebraico sia riuscito in passato a superare le proprie crisi epocali. Si tratta di un fenomeno tutt’altro che scontato, ancora non completamente spiegato dagli storici; nei secoli molti popoli, che sembravano più strutturati per affrontare i rovesci della storia, sono naufragati, mentre il popolo ebraico ha di volta in volta individuato le proprie strategie per superare la crisi, dando luogo a nuove creazioni che hanno consentito di affrontare le diverse situazioni.
La distruzione del Tempio e la caduta di Betar hanno sancito in modo definitivo la perdita dell’indipendenza politica di Israele, ponendo le basi per una Diaspora che si sarebbe protratta per quasi venti secoli, sino alla nascita dello Stato di Israele. La vita ebraica si era trovata privata del proprio centro spirituale, rendendo necessari processi di adattamento che hanno condotto alla stesura dei testi fondativi della tradizione rabbinica, la Mishnà e il Talmud, che in breve sono divenuti, assieme al Tanakh, il fulcro della sensibilità e dell’esperienza ebraica.
Rivolgendosi a tempi più recenti non si può non pensare alla guerra dei Sei giorni, al passaggio repentino dal rischio di sparire all’euforia per la conquista di Yerushalaim, non pianificata e totalmente inaspettata.
Rav Kook, uno dei più raffinati pensatori del ’900 ebraico, ha considerato le guerre, in modo apparentemente paradossale, uno strumento divino per far compiere alla storia dei balzi che in tempo di pace non sarebbero contemplabili, provocando sconvolgimenti repentini, altrimenti molto lenti. Certamente se la scomparsa o almeno il sostanziale indebolimento del male radicale si rivelasse l’esito di questa guerra, il carico indicibile di dolore e sofferenza che questa ha provocato assumerebbe un significato molto diverso. Ciascuno di noi è tenuto a fornire, in base alle proprie capacità e virtù, il proprio contributo. Ciascuno deve farsi trovare pronto.
Riprendendo un famosissimo insegnamento tradizionale Rav Mirvis nota come uno dei termini chiave di Tishà Beav sia Ekhà (come?), che ricorre nella parashà di Devarim, che si legge sempre il sabato che precede il digiuno e nel brano profetico di quel sabato, il primo capitolo del libro del profeta Isaia, e apre il libro di Ekhà, che viene letto due volte, la sera e il mattino, durante il digiuno. Come è possibile che si sia arrivati sino a questo punto? Come è possibile che determinate cose accadano proprio a me? Queste, registra Rav Mirvis, non sono le uniche occorrenze del termine, che compare complessivamente 18 volte nel canone biblico. C’è una diciannovesima occorrenza, in cui quelle stesse lettere vengono lette diversamente, nel libro della Genesi, quando il Signore si rivolge ad Adamo, che aveva appena mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Chiede ad Adamo “Ayeka?” (Dove sei?). Questo, dice il Signore, non è il momento di nascondersi, non è il momento di sottrarsi alle proprie responsabilità. Quando succede qualcosa di negativo, dovremmo chiederci a che punto siamo, e come potremmo reagire in modo costruttivo e proattivo. Questo è quello che dovremmo fare anche oggi in queste circostanze.
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