L’esperimento scientifico socio-culturale di un iscritto che chiede lumi a 24 rabbini italiani su come comportarsi riguardo la spinosa questione dei matrimoni misti. Le risposte valgono più di 24 numeri speciali sul Rabbinato in Italia della Rassegna Mensile di Israel e dimostrano meno divisioni di quelle che appaiono all’esterno, sulle questioni cruciali.
Sandro Servi
Leggendo il giornale di una Comunità ebraica italiana mi sono imbattuto, qualche tempo fa, in una rubrica, intitolata “Auguri a…” in cui si fanno le felicitazioni per matrimoni, bar/bat mitzvà, nascite. Notando la nascita di ben tre bambini (due gemelli da un matrimonio e una bambina da un altro) e mi stavo rallegrando, visto che in quella Comunità le nascite raramente si contano in un anno con le dita di una mano, quando ho dovuto considerare che quei due matrimoni erano matrimoni misti in cui entrambe le madri non sono ebree, dunque anche i neonati non lo sono. Mi sono posto allora il problema dell’opportunità dell’iniziativa di pubblicare gli auguri per tali nascite in un giornale di una Comunità ebraica.
Se il problema che mi sono posto sia rilevante e degno di considerazione, o se invece esso sia insignificante, lo giudicherà il lettore anche in base alle considerazioni riportate in questo articolo; personalmente, qualunque sia la risposta che si intende dare alla domanda, l’ho ritenuto un problema molto rilevante e ho deciso di interpellare vari rabbanìm italiani, chiedendo la loro opinione sul problema, in termini generali. Ho quindi posto loro la sheelà che riporto qui per trasparenza:
Al rav
Si prega di rispondere alla seguente domanda circa una questione di interesse comunitario.
Nel periodico di una Comunità Ebraica Italiana c’è una rubrica intitolata “Auguri”, in cui si fanno le felicitazioni per matrimoni, bar/bat mitzvà, nascite.
Nel caso della nascita di un/a bambino/a in un matrimonio misto, in cui il padre è iscritto alla Comunità e la madre non lo è (in quanto non ebrea) e in cui non sia stato fatto un ghiur (conversione) al/la bambino/a, come giudicate l’iniziativa di pubblicare gli auguri per tale nascita? (per es. “doverosa, opportuna, irrilevante, inopportuna, proibita ecc”).
Se, oltre a definire con un aggettivo l’iniziativa, volete commentarla più estesamente ciò sarà utile e gradito.
(Si può immaginare che i motivi per fare quegli auguri stiano nel voler dimostrare che la Comunità è aperta, accettante, che essa vuole avvicinare chiunque; mentre i motivi contrari possono risiedere nel non voler celebrare un avvenimento considerato irrilevante (se non proprio dannoso) per la Comunità, nel non voler ingenerare confusione riguardo allo status (ebraico/non ebraico) delle persone coinvolte, ecc).
Grazie per l’attenzione e cordiali saluti
Ho inviato la domanda a 24 rabbanìm di cui avevo l’indirizzo e sintetizzo qui le loro risposte.
Premetto che non ho inviato la domanda proprio al rabbino di quella Comunità: questo potrà sembrare strano (come si capirà meglio dalle risposte da vari rabbini) ma ho preso questa decisione per vari motivi, a mio giudizio validi. Tra questi, l’intenzione di non aprire assolutamente una discussione con quel rabbino e con quella Comunità e con quei genitori e nonni, ma di affrontare il problema in termini generali. È quindi del tutto possibile, come opinano alcuni rabbanìm che mi hanno risposto, che in entrambi quei casi particolari esistessero motivazioni specialissime che rendessero la decisione di pubblicare gli auguri, opportuna o doverosa. Mi è peraltro ignoto se il rabbino di quella Comunità fosse informato della notizia, se ne fosse il promotore o se l’avesse convalidata, se l’avesse in seguito approvata o criticata: tutto ciò non infirma la questione generale, che prende solo spunto dall’episodio in oggetto.
Ebbene, dei 24 rabbanìm interpellati, tre non hanno risposto affatto: forse avevo l’indirizzo sbagliato, forse erano in altre faccende affaccendati, forse hanno deciso che fosse opportuno non rispondere.
Dei 21 rabbanìm che hanno risposto, due hanno preferito non fornire la loro opinione.
Rav 5 (i numeri identificativi sono posti casualmente al posto dei nomi perché alcuni hanno fatto appello alla riservatezza), per es. ha scritto che “sarebbe opportuno formulare la sheelà al Rav della Comunità il quale conoscendo… saprà senz’altro risponderle per il meglio”.
Rav 16 ha risposto che la domanda era generica e non chiara nei suoi intenti, che una “domanda accademica” non gli interessava, che se la questione era di halakhà pratica sarebbe vietato rivolgere la domanda ad altri che al rabbino competente territorialmente, e che vi è un divieto di creare/fomentare machloqot (dispute) il che potrebbe suggerire che sia consigliabile non approfondire l’argomento (o almeno di non renderlo pubblico). Devo sottolineare che lo stesso rabbino ha anche scritto “la domanda riguarda infatti un ambito estremamente delicato e ahinoi di sempre maggiore attualità”.
Un solo rabbino (Rav 6) ha sostanzialmente difeso la scelta fatta dal giornale, definendo la pubblicazione degli auguri “non inopportuna” (qualunque cosa ciò significhi!): ha scritto che mentre il matrimonio misto è un evento “dannoso” per la Comunità, tale non lo è la nascita dei figli di tale matrimonio; ha ribadito che la pubblicazione non porterà a “confusione” (vedi altre considerazioni più sotto), in quanto la rubrica è separata da quella della “anagrafe” (che riguarda i soli ebrei iscritti); che il giornaletto finirà presto nella carta straccia senza costituire danno.
Tutti gli altri rabbanìm hanno sostanzialmente criticato la decisione di pubblicare tali “auguri”, con vari argomenti e con toni più o meno severi.
Rav 1 scrive che non si fanno gli auguri fintanto che un bet din (tribunale rabbinico) non decida di fare il ghiùr (conversione) del bambino e che gli auguri fatti in caso contrario rischiano di confondere lo tzibbùr (il pubblico).
Rav 20, dopo aver consultato alcune fonti, ritiene che la pubblicazione degli “auguri” avrebbe dovuto essere evitata, così come avviene per altri periodici ebraici: la halakhà non prevede “auguri” in casi del genere. Ci vorrebbe almeno il buon senso della saggezza di attendere il completamento del taalich ghiùr (percorso di conversione).
Rav 2 scrive che gli auguri sono inopportuni; suggerisce che si affronti il problema del matrimonio misto, sottolineando l’importanza del matrimonio ebraico; che la Comunità deve rimanere aperta a tutti coloro che sinceramente vogliono avvicinarsi all’ebraismo e seguire un percorso di conversione che sarà sostenuto culturalmente e socialmente dalla Comunità.
Rav 3 afferma che a suo parere un organo di stampa comunitario non dovrebbe esprimere auguri e felicitazioni per la nascita di un figlio/a di madre non ebrea per cui non vi sia una pratica di ghiùr in corso.
Rav 4 mi dice che non esiste una regola uguale per tutte le Comunità ma che nella sua Comunità non è usanza pubblicare tali auguri.
Similmente Rav 12 dice che la questione “non è risolta dalla halakhà e che in altre Comunità più rigorose certamente non sarebbe consentito”.
Rav 14 afferma che la risposta, più ovvia e immediata, è “che sia per lo meno inopportuno pubblicare in una rivista comunitaria ebraica pubblici rallegramenti per situazioni non conformi alle regole”. Tiene a precisare che, a suo avviso, da interpellare in materia è in primis il rabbino di quella Comunità e che bisogna sempre tenere in debito conto la delicatezza della questione e il kavòd ha-beriòth (l’onore dovuto a ogni persona). Considera quell’episodio la punta dell’ice-berg di una situazione molto grave e diffusa di assimilazione delle nostre Comunità; ritiene che sarebbe essenziale che vi venissero dedicate maggiori e più consapevoli e responsabili energie. Afferma di umanamente comprendere che un padre voglia esprimere la gioia per la nascita di un figlio, ma che permane il problema di come fare per prevenire, evitare, contenere o sanare queste situazioni; considera che questo discorso meriterebbe una riflessione corale da parte di tutti e che la cosa appare urgente.
Sulla stessa linea Rav 19 Considera naturale che la nascita di ogni bambino sia una benedizione per questo mondo e che sia comprensibile il desiderio di un genitore di esternare la propria gioia, tuttavia ritiene quantomeno sconsigliabile e non appropriato che un mezzo d’informazione ebraico (o in pubblici contesti comunitari) si esprimano felicitazioni ufficiali per qualcosa che si discosta dalla halakhà. Anch’egli ritiene che dovrebbe essere il rabbino del luogo a scegliere le modalità e l’opportunità di azione e che questo episodio sia solo una “piccola” espressione di profonda crisi e assimilazione: andrebbe curata quindi la “causa” e non solamente il sintomo.
Rav 7 ritiene che gli “auguri” di un periodico ebraico debbano essere riservati agli iscritti, ribadisce che ciò non nega l’apertura della Comunità ad accogliere chi vuole fare ingresso nella Comunità stessa.
Rav 8 considera l’iniziativa “quantomeno discutibile”: è molto conciso e riservato nella sua risposta in quanto ritiene che vi siano altri canali per ottenere un parere ufficiale. Richiesto di quali siano quei “canali” risponde che, ai sensi dello Statuto può essere interpellata la Consulta Rabbinica (che però – aggiungo io per esperienza diretta e indiretta – usa non rispondere alle domande che le vengono sottoposte).
Rav 9 spiega i criteri adottati nella sua Comunità: “la pubblicazione è inopportuna; uno dei motivi per i quali le Comunità si riducono è la perdita di coscienza di quello che accade in questo campo. Per questo motivo rendere tutte le nascite uguali non si può; fare una rubrica speciale (“sono nati anche…”) è discriminatorio (…) Il bambino non ha alcuna responsabilità di quello che è successo, ma finché sono piccoli non si offenderanno certo dell’omissione. Potrebbero offendersi i genitori, ma sanno benissimo cosa hanno fatto”.
Rav 10 citando la sua esperienza, comunica che si dà notizia della nascita in tali casi solo dopo avvenuto il ghiùr che rappresenta appunto la “nascita” dal punto di vista ebraico.
Rav 15 fornisce due risposte. La prima ispirata al buon senso; si domanda: quanto è successo al sig. X è un lieto evento per tutta la Comunità? Se la risposta è no e il lieto evento non esiste, la pubblicazione è irrilevante, anche se ciò non esclude che in spirito di avvicinamento, il rav possa (o debba) telefonare al sig. X (noto che il Rav 6, già citato, descrivendo quale deve essere l’atteggiamento da tenersi in casi del genere, aveva scritto che nella sua Comunità la politica era quella di “non incoraggiare e non ricercare; se la coppia autonomamente manifesta l’intenzione di convertire il figlio/a, allora avviare la procedura, lunga e non facile. Se la coppia persiste nelle sue intenzioni, nonostante le lungaggini e le difficoltà, e si comporta secondo le indicazioni che il bet din – tribunale rabbinico – le fornirà, allora accogliere il bambino/a con simchà, sassòn e buon animo”.). La seconda risposta di Rav 15 è basata sulla halakhà. Dopo aver citato alcuni complessi casi che presentano qualche somiglianza, conferma che a suo parere esiste un “dovere di avvicinamento (dei figli di matrimonio misto) che ricade in primo luogo sui rabbini e gli educatori, ma che questo dovere non deve essere ottemperato a scapito di una confusione identitaria e di una confusione di valori (…) sarebbe come rubare per fare tzedaqà. La confusione poi non aiuterebbe neanche il sig. X che potrebbe pensare che siccome ha il nome del figlio sul numero di giugno di Famiglia Ebraica allora anche lui di fatto ha una famiglia ebraica. In secondo luogo poi una comunità non è da considerarsi ‘aperta’ se non ha regole e non ha identità, bensì è aperta se coloro che la compongono non svendono la propria identità ma in nome di essa sanno accogliere ed aiutare coloro che vivono uno status ebraico confusionario e vorrebbero comunque far parte della comunità stessa. Accogliere vuol dire aiutare gli altri a costruirsi o ri-costruirsi una reale identità ebraica e non annullare la nostra storia tradizionale e halachica per avvicinare. Posso avvicinare se ho una forte identità altrimenti farò solo danni, ma avere una forte identità significa anche saper avvicinare nel giusto modo”.
Similmente Rav 17 mi ha scritto: Ritengo sicuramente inopportuna la pubblicazione di auguri su un giornale comunitario in occasione della nascita di un bambino che, avendo il solo padre yehudì, non è quindi ebreo. Innanzitutto la Comunità come istituzione non può in via esplicita e ufficiale avallare un matrimonio misto, tanto più quando ha la conseguenza di figli che non sono benè Israel. Questa notizia per molte persone non rappresenterà affatto un’occasione di cui rallegrarsi, inoltre anche ai fini di un progetto di riavvicinamento non si deve confondere l’atteggiamento di apertura, la volontà di non emarginare per cercare di recuperare anche le situazioni ebraicamente più problematiche, con la rinuncia così palese ad esprimere un valore essenziale dell’ebraismo, che non è affatto costruttiva, in nessun senso”.
Rav 18 dichiara il suo completo dissenso con l’iniziativa. Scrive: “il mio pensiero è che una Comunità ebraica ortodossa non dovrebbe venir meno a quelli che sono i principi e le basi ebraiche di ogni comunità ed evitare che si venga a creare confusione fra ebrei, matrimoni misti ecc. (…) La comunità ebraica, come ente rappresentante tutti gli iscritti alla stessa dovrebbe evitare di manifestare pubblicamente e a nome di tutta la comunità, il suo compiacimento e partecipazione lieta per la nascita di un non ebreo”.
Rav 21 Scrive che “per ogni nascita è giusto dire mazal tov, ma in questo caso, in cui nasce un/a bambino/a di un padre ebreo e di una madre non ebrea, fare gli auguri significa accettare questo matrimonio civile, ma io come ebreo non posso accettare un matrimonio misto. Per questo non dirò mai mazal Tov a quel padre e soprattutto non lo scriverò sul giornale della Comunità”.
Rav 11 considera la scelta fatta dal giornale “non solamente inopportuna ma anche proibita” in quanto così facendo la Comunità non si dimostra una Comunità “aperta” ma una Comunità che legittima il matrimonio misto, approva l’assimilazione e genera confusione tra i lettori.
Rav 13 sostiene che vi è una proibizione nella Torà che si definisce “chanupà” e consiste nel lodare un trasgressore per il suo comportamento o mostrare approvazione per le sue azioni, sebbene vietate dalla halakhà. “Fare gli auguri a un figlio di un’unione proibita è chanupà perché dimostra tacita approvazione o poco interesse per il matrimonio misto”.
Queste, in una accurata sintesi, le opinioni dei rabbanìm interpellati che mi stimolano a pormi, e a porvi, alcune domande:
- Questo piccolo episodio è rilevante e dunque degno di essere esaminato e valutato, oppure è del tutto innocuo e trascurabile?
- Fermo restando il rispetto dovuto a chiunque, qualunque scelta di vita decida di compiere, è lecito discutere di queste problematiche per la ricaduta che esse hanno nelle nostre Comunità, oppure il rischio di “fomentare machloqòth (dispute)” imporrebbe di rivolgere lo sguardo altrove?
- È lecito ad un ebreo che si pone simili interrogativi, rivolgersi ai rabbanìm della sua generazione per avere la loro opinione, oppure l’argomento è di esclusiva competenza del “rabbino del posto” e del suo insindacabile giudizio?
- Se una azione non è obbligatoria o proibita da una chiara halakhà, ma rientra nel campo delle cose possibili, è necessariamente il rabbino che deve decidere, o forse è la Comunità stessa che può assumere una decisione al riguardo?
- E se una azione che è stata compiuta, è proibita dalla halakhà, in assenza di un intervento del rabbino del posto, come deve comportarsi il singolo?
Cercherò di spiegare perché il “piccolo episodio” è parso a me non trascurabile. Esso è il sintomo di un fenomeno di progressiva assimilazione che colpisce le nostre Comunità (ove più, ove meno). Questa assimilazione dipende da varie cause, interne ed esterne, ma può essere contrastata o incoraggiata. So bene che vi sono Comunità che hanno altri problemi, ma ve ne sono alcune in cui è in atto un processo che tende a incrementare l’assimilazione, generando confusione sullo status delle persone, equiparando matrimoni ebraici a matrimoni misti, bambini e coniugi ebrei e gentili; proponendo atteggiamenti anti-ebraici, indicando come modelli di comportamento persone che negano e trasgrediscono norme basilari di vita ebraica: lo scopo è quello di trasformare le Comunità in agglomerati informi di persone dallo status sempre più confuso e incerto. Tale processo è promosso consapevolmente da alcuni, e implementato inconsapevolmente (per poca conoscenza e poca coscienza) da molti altri: particolarmente grave è quando tale processo è incoraggiato dalla stessa dirigenza comunitaria. Quando un caso del genere si verifica è a mio parere compito di ogni ebreo prendere l’iniziativa (kol israel arevìm ze la-ze = tutti gli ebrei sono responsabili uno per l’altro) e, con tutta la cura che si può mettere nel mostrare rispetto per certe situazioni delicate, il rischio di urtare la suscettibilità di qualcuno passa in secondo piano rispetto all’emergenza della situazione. I rabbanìm dovrebbero essere i primi a sensibilizzarsi di fronte a questa problematica e se ciò non accade è, a volte, per ragioni, molto discutibili, di convenienza politica o personale. Ciò accade, per esempio, quando esponenti della Comunità che si definiscono “laici” (nel senso – del tutto opinabile – che non praticano le mitzvòth e ne sono fieri) assumono l’atteggiamento clericale di difendere il rabbino ad oltranza, considerato come quello che, in Comunità (e a differenza di loro stessi) deve dire le preghiere e praticare i precetti, purché non interferisca (non insegni, non critichi) nella loro mancata osservanza (alcuni rabbini sembrano particolarmente soddisfatti da questa divisione di ruoli). È questo un serio problema comunitario, sul quale, a mio modesto parere, è lecito al singolo, e perfino doveroso, interpellare altri rabbini (che, a loro volta dovrebbero avvertire l’obbligo di insegnare). È un problema di cui si può (e si deve) parlare prima che sia troppo tardi. Vi sono Comunità in cui la questione dei ghiurìm (conversioni) è affrontata con troppa superficialità: accanto a persone che hanno studiato e dimostrato nei fatti la loro adesione all’ebraismo, si accettano come gherìm (convertiti) persone che (anche senza loro colpa) non hanno ricevuto una adeguata preparazione e il cui merito è la parentela acquisita con qualche iscritto “illustre” o la particolare devozione da loro mostrata nei confronti, non dell’ebraismo, ma della persona del rabbino, che si crea così una corte di seguaci, sempre grati e disponibili. Ciò contribuisce a creare una Comunità che non è “aperta” (come ha ben definito Rav 15, vedi sopra), ma povera, senza identità, senza valori, senza dignità, senza Torà, priva del senso della storia, arresa di fronte alle sfide del futuro.
Sono molto grato ai rabbanìm che hanno risposto alla mia domanda e mi auguro – ed è questo un grido d’allarme e una richiesta di aiuto – che i problemi a cui qui si è accennato non vengano dimenticati; come molti di loro hanno giustamente detto, l’episodio citato è solo la punta di un ice-berg: sarà opportuno che l’ebraismo italiano non abbandoni a sé stesse le sue piccole Comunità (tutte sono piccole!); si deve comprendere che un mal inteso senso di autonomia (“si rivolga al rabbino del posto!”) rischia di contribuire a mandarle a picco, nell’indifferenza generale e nella beata inconsapevolezza degli iscritti.