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Note di Rav Di Porto ad integrazione della traduzione e del commento della Giuntina, recentemente pubblicato
a) Il verso “bechag ha-matzot” serve a paragonare Pesach e Sukkot per l’obbligo di linah, vale a dire per l’obbligo di pernottare a Yerushalaim la notte successiva al sacrificio, vale a dire la notte di chol ha-mo’ed. Non è possibile riferire il versetto della Torah “ufanita baboqer” al giorno di mo’ed stesso, perché si tratta di un giorno in cui c’è obbligo di presentarsi al Bet ha-miqdash (Rashì).
Alcuni rishonim credono invece che l’obbligo riguardi tutta la durata della festa. Infatti l’heqesh fra Pesach e Sukkot non sarebbe stato necessario, perché l’obbligo di pernottare dopo avere effettuato il sacrificio secondo la ghemarà in Sukkah (47b) riguarda tutti i sacrifici, mentre Pesach, e per traslato Sukkot hanno uno status particolare. Nella ghemarà in Zevachim (96b) infatti considera tutta la festa come un unico mattino, anche se per certi aspetti il suo modo di ragionare viene respinto (di Pesach sussistono i concetti di pigul e notar, che sono fondati su unità di tempo ben precise), ma questo aspetto viene accolto, come peraltro risulterebbe dal senso letterale del verso (Rashbà).
Inoltre dall’andamento della sughià nel trattato di Sukkah (47a) sembrerebbe essere così: infatti lì sono elencate tutte le similitudini fra Sukkot e Sheminì ‘atzeret, fra cui zeman (she-hecheyanu) e linah, che riguardano tutti i giorni della festa, e la ghemarà obietta solo relativamente a she-hecheyanu, ma non alla linah, segno evidente di accettazione del fatto che di Sukkot la linah dura per tutta la festa (Rashbà).
Uno dei problemi principali che emergono è quello di uscire dal techum della città di mo’ed, che è un divieto della Torah secondo la maggior parte delle opinioni. Anche chi sostiene che non sia un divieto della Torah deve confrontarsi con l’obbligo di offrire i sacrifici il secondo giorno della festa, cosa che evidentemente impedisce di partire.
Il Rivah nel suo commento alla Torah sostiene che “ufanita” viene ricordato per la festa di Pesach perché bisogna tornare al Bet ha-miqdash per Shavu’ot, e rimanendo tutto Pesach a Yerushalaim e dintorni per andare e tornare rimangono 40 giorni, tempo appena sufficiente per coloro che abitano ai confini di Yerushalaim, che è al centro di Eretz Israel (si dice che Israele misura 400*400 parasanghe -Bava Qamà 82b, e quindi per arrivare al confine bisogna percorrere 200 parasanghe; mediamente una persona percorre dieci parasanghe al giorno). R. Bechayè riporta il medesimo ragionamento, ma per avvalorare l’idea di Rashì, perché bisogna escludere gli shabatot e l’ultimo giorno di mo’ed, e rimangono pertanto solo 40 giorni per compiere il tragitto.
L’obbligo di pernottamento per una notte sussiste non solamente per i sacrifici festivi, ma per qualsiasi tipo di sacrificio (Sifrè).
Secondo alcuni sussiste una discussione fra i tannaim sulla regola della linah in generale, e questo spiegherebbe perché il Rambam non ricorda questa mitzwah, se non nel quarto capitolo delle Hilkhot bikkurim nel Mishneh Torah.
Hirsch nel suo commento alla Torah considera il pernottamento a Yerushalaim come uno strumento per acquisire il giusto spirito per il ritorno a casa. L’aspetto fondamentale nella pratica sacrificale non risiede pertanto nell’atto oggettivo del sacrificio stesso, ma nei pensieri che ci accompagnano nel silenzio della notte e si arricchiscono ulteriormente con i pensieri del mattino.
Secondo Torah temimah il motivo per cui bisogna partire di mattina è molto semplice: di notte i pericoli e la possibilità di imbattersi in briganti sono maggiori.
b) L’unità di misura per il calcolo dei mesi sono i giorni, poiché è scritto (Bemidbar 11) “ad chodesh yamim” (Rashì). Il Rosh Chodesh, in cui vengono offerti i sacrifici è un’unità di misura per il conteggio del mese. Per Shavu’ot l’unità di misura è quella delle settimane, e quindi il tempo per offrire i sacrifici sarà la settimana, e da qui apprendiamo che si possono recuperare i sacrifici di Shavu’ot (Rashì). Le Tosafot collegano quanto la ghemarà dice con il famoso brano in Menachot (65b) sul conteggio dell’omer. I Baitusim infatti sostenevano che il conteggio dovesse cominciare sempre dalla domenica, e non quindi in una data fissa, mentre i chakhamim ritenevano che il conteggio iniziasse sempre il 16 del mese, e la logica che sottende al loro ragionamento è quella che troviamo qui in Rosh ha-shanah: infatti per il mese, che ha come unità di misura il giorno, il conteggio parte da un momento prestabilito (quello del molad), e l’inizio del conteggio è immediatamente successivo, salvaguardando l’unità di misura (ad escludere pertanto l’idea che il mese abbia come unità di misura quella delle ore, e non i giorni), e quindi il giorno dopo il molad è rosh chodesh; per il conteggio dell’omer si applica il medesimo criterio, iniziando a contare dal giorno successivo all’offerta dell’omer. L’inizio del conteggio è pertanto sempre riconoscibile, essendo sempre successivo ad un determinato momento, e non slitta nel tempo. Secondo R. Tam invece come le persone riconoscono il Rosh Chodesh in base alla copertura della luna, così si devono abituare a riconoscerla il 5 del mese, per rendersi conto dell’arrivo di Shavu’ot.
c) I Rishonim hanno obiettato che nella ghemarà poco prima è stato accolto il principio secondo cui “tafasta merubbeh lo tafasta”, e quindi per Shavu’ot si dovrebbe accogliere l’unità di misura dei giorni, e non quella delle settimane! In questo caso dobbiamo dire a) che il merubbeh non è in contraddizione con il mu’at (Ran), oppure b) che la festa si chiama Shavu’ot, dando pertanto preminenza alle settimane (Rashbà, Ritvà).