“Vesamachta bechaghecha vehayita ach sameach”, sarai felice durante le tue festività e non avrai altro che gioia” (Devarim 16:14-15). Molti di noi hanno familiarità con questo versetto riferito alla festa di Sukkot. Ma cosa significa essere felici e perché abbiamo il mandato di essere felici proprio a Sukkot?
La festa di Sukkot è comandata in diverse Parashot nella Torà. Nel libro di Devarim viene descritta come momento in cui riconosciamo il ruolo di D-o nel sostenerci e come mitzva di dimostrare gratitudine per il nostro raccolto. Questa esigenza di rallegrarsi può lasciare perplessi, poiché rallegrarsi al momento del raccolto sembrerebbe essere una reazione umana naturale, e spesso la Torà non ci comanda di seguire la nostra natura e istinti ma, piuttosto, di controllarli per elevarci nella santità. Perché la Torà ci comanda di seguire la nostra naturale inclinazione?
Per rispondere a questa domanda, dobbiamo comprendere il significato dietro la parola “simcha” – felicità – e cosa intende D-o quando ci comanda di essere felici. Nel mondo di oggi, libertà e ricerca della felicità sono spesso tradotti in termini edonistici, dove la “felicità” deriva dal successo materialistico. La Torà ci incoraggia a perseguire la felicità, ma quella felicità è qualitativamente diversa dalla definizione che la società moderna dà in generale. Il Malbim definisce la parola “simcha” come sentimento coerente e continuativo, in contrapposizione a “ghilà”, che è una felicità improvvisa e fugace. La “ghilà” che proviamo in seguito ad un singolo emozionante evento, è seguito da simcha, che è una felicità più consistente, una simchat olam, felicità eterna che deriva dal riconoscimento della bontà di D-o e dal riconoscimento che seguire la volontà di D-o è la risposta ebraica per una vita significativa ed appagante. L’Oxford English Dictionary definisce la parola “felicità” come“sentimento o dimostrazione di contentezza, avere un senso di fiducia e confidenza in (una persona, una situazione)”.
È interessante notare che la prima volta che il verbo “sameach” appare nella Torà è nella Parashà di Shemot, quando Moshe viene scelto da D-o come leader del popolo ebraico, con la missione iniziale di far uscire gli ebrei dalla schiavitù egiziana. La Torà ci racconta la reazione di Aharon, fratello di Moshe, a questa notizia: “Veraachà vesamach belibbò”, quando ti vedrà si rallegrerà nel suo cuore (Shemot 4:14). Aharon è lodato per questa reazione emotiva, perché al posto dell’istinto di gelosia per la nomina di suo fratello minore come leader, ha mostrato contentezza e fiducia nella scelta di D-o. La Torà, tramite questo versetto, incoraggia la felicità che deriva dalla contentezza che deriva a sua volta dalla fiducia in D-o, non solo dalla fiducia in noi stessi. Nella Meghillat Ester (5:9), Hamman lascia il banchetto di Esther “sameach vetov lev”, gioioso ed esuberante: La sua simcha viene definita come sentimento personale di appagamento dovuto alla fiducia in se stesso. Quella Simcha fu fugace ed ebbe una fine drammatica per Hamman.
La simcha che ci viene comandato di provare a Sukkot è la definizione ebraica di felicità, che deriva dall’avere un senso di fiducia e confidenza in D-o e dal trovare un significato nella nostra relazione con Lui. Forse per questo motivo, l’elemento della simcha viene evidenziato maggiormente in riferimento alla componente agricola dei Shalosh Regalim, le tre feste di pellegrinaggio. Quando raccogliamo il primo dei nostri raccolti alla fine del cicloagricolo, siamo felici perché confidiamo che D-o stia sostenendoci. I Chachamim al riguardo notano la locuzione usata per la mitzva di essere felici a Sukkot, “vehayita ach sameach”, chiedendo perché venga usata la parola “ach” e cosa significhi. Ibn Ezra definisce “ach” come “solo”, spiegando che ci viene comandato di non fare altro che rallegrarci. Rashi spiega che questa frase non è un comandamento ma un’affermazione, una promessa di D-o che saremo felici perché Egli si prenderà cura di noi. Sia l’approccio di Rashi che quello di Ibn Ezra rafforzano l’intero approccio tematico a Sukkot. Se, infatti, a Sukkot celebriamo la nostra fiducia in D-o e nel Suo sostegno, allora è logico che ci venga comandato di essere solo felici. La natura umana ci porta ad essere felici solo se ilraccolto raccolto fosse abbondante. In un anno in cui il raccolto fosse meno abbondante, la nostra felicità sarebbe moderata o inesistente. La Torà ci dice “vehayita ach sameach”, sii solo felice, indipendentemente dall’esito di quel raccolto particolare, abbi fiducia in D-o.
Il Malbim, dopo aver definito la simcha, distingue i vari modi di essere felici. “Sameach be”, “sameach le” e “sameach al”. “Sameach be” significa essere felici nella cosa stessa, come descritto nel versetto “vesamachta bechagecha”, essere felici nel chag stesso, a causa della festività, non a causa del raccolto più o meno abbondante. Nella festa di Sukkot, celebriamo la nostra relazione con D-o, entriamo nelle nostre capanne temporanee a dimostrare la nostra fiducia che Egli si prende cura di noi ed è la fonte di tutti i nostri bisogni. Questo riconoscimento dovrebbe consentirci di non provare altro che simcha. Esiste inoltre una chiara correlazione tra la felicità che proviamo come risultato della cura di D-o per noi e la nostra cura per le altre persone. Come Aharon, che era felice non per se stesso, ma per l’onore dato a Moshe, la nostra simcha durante i chagim non riguarda solo la nostra soddisfazione, ma dovrebbe riguardare anche a come tradurre la nostra felicità nell’aiutare gli altri. L’applicazione pratica del fatto che D-o provvede ai nostri bisogni è che dobbiamo aiutare il prossimo. Il Rambam in Hilchot Yom Tov spiega che la componente chiave della “simchat yom tov”, lafelicità della festività, è la condivisione con gli altri. Coloro che si godono il cibo durante Yom Tov senza condividerlo con gli altri non sperimentano la “simchat yom tov”, ma solo la felicità dello stomaco (Hilchot Yom Tov 6:18).
Se durante Kippur, ma anche durante l’anno, le nostre tefillot sono maggiormente efficaci se effettuate non solo per il nostro bene, ma anche per il bene del prossimo, durante Sukkot abbiamo la possibilità di mettere in pratica una mitzva molto importante come la “ahavat chinam”, l’amore incondizionato, l’amore per il prossimo che èindipendente da qualsiasi fattore materialistico o utilitaristico. La festa di Sukkot può e deve quindi essere una festa che ci ispira per il nuovo anno, che ci insegna a riconoscere la fonte del nostro sostentamento, a riconoscere la via corretta da seguire, fare atti di chesed, aiutare ed influenzare positivamente il prossimo. Possaquest’anno essere per tutti noi un anno “ach sameach”