In ciascuno degli Shalosh Regalim leggiamo una meghillàh, a Pesach Shir ha-shirim, a Shavu’ot la meghilàh di Ruth e a Sukkot Qohelet. Il libro di Qohelet cerca di rispondere alla domanda su quale sia la via giusta affinché le azioni umane abbiano un senso, e dopo avere scartato numerose ipotesi, giunge alla conclusione che il timore del cielo sia l’elemento principale che caratterizza l’esistenza umana. In base a quanto scritto all’inizio del libro, che attribuisce le parole a Qohelet figlio di David, e ad altri passi, l’autore sarebbe il re Shelomò.
La tradizione rabbinica ne attribuisce la stesura, a partire da materiale orale, alla cerchia del re Ezechia, che visse circa duecento anni dopo. I commenti tradizionali propendono per la prima ipotesi, e spiegano il nome Qohelet in questo modo: il re ha l’obbligo di insegnare la Toràh a tutto il popolo, e Salomone a questo scopo riuniva le folle (qehillot). Secondo Rashì il nome è attribuibile al fatto che radunò molti tipi di sapienza differenti fra loro. La tradizione vuole che il re Salomone abbia composto tre libri biblici: Shir ha-shirim nella sua giovinezza, Mishlè nella maturità e Qohelet in vecchiaia.
I Maestri della Mishnàh (Bet Hillel e Bet Shammay)dibattono se includere il libro di Qohelet nel canone biblico (nel linguaggio della Mishnàh “se rende impuro le mani”). La regola segue l’opinione di Bet Hillel, e il libro è stato incluso nel canone biblico. Nella ghemarà nel trattato di Shabbat (30b) è scritto che i Maestri volevano seppellire il libro di Qohelet, perché contiene elementi contraddittori e da altre fonti apprendiamo che fa delle affermazioni che sfiorano l’eresia, in particolari perché assimilabili alla filosofia epicurea, che negava la provvidenza divina, e sosteneva che il mondo fosse dominato esclusivamente dalle forze naturali. Perché allora non lo fecero? Perché all’inizio e alla fine del libro vi sono parole di Toràh. Tuttavia i Maestri hanno non poche difficoltà ad accettare la visione pessimistica della vita di Qohelet. A partire da questa considerazione i commentatori hanno fatto enormi sforzi per risolvere le contraddizioni. In particolare alcuni versetti vengono considerati delle massime famose, evidentemente comprensibili a tutti ai tempi dell’autore, che l’autore citava ma non condivideva.
Effettivamente fra tutti i libri del Tanakh il libro di Qohelet è quello di più difficile comprensione, per via dello stile molto complicato, che rende difficoltosa un’interpretazione piana e univoca del testo. Per fare un esempio, da una parte sembra che tutte le azioni dell’uomo siano assolutamente inutili, ma dall’altra l’uomo trae vantaggio dalle proprie azioni. Anche l’approccio di Qohelet rispetto alla sapienza è ambivalente: la sapienza è molto superiore rispetto alla stoltezza, ma la morte annulla ogni differenza fra sapiente e stolto, e la sapienza porta solamente dolore, anche se da un altro passo sembra impossibile ottenere la sapienza. L’uomo non sa cosa è bene per lui, ma poi vengono elencate una serie di cose buone per l’uomo.
L’uso degli ashkenaziti è quello di leggere a Sukkot la meghillàh di Qohelet, a seconda degli usi lo Shabbat di Chol ha-mo’ed, o Sheminì ‘Atzeret. La maggioranza dei sefarditi (tranne gli yemeniti) usa non leggere la meghillàh. L’uso romaniota è quello di dividere la lettura in quattro parti, due i primi due giorni di mo’ed e due gli ultimi due. L’uso italiano è quello di leggerlo il giorno di Simchàh Toràh prima di minchàh.
I poseqim hanno spiegato l’uso in varie maniere:
1) La festa di Sukkot è considerata zeman simchatenu, il tempo della nostra gioia, e nella meghillàh è scritto (2,2) ulsimchàh ma zu osàh;
2) nella meghillàh è scritto ten cheleq leshiv’àh wegam lishmonà (11,2), riferito ai sette giorni di Sukkot e Sheminì ‘Atzeret che li segue; secondo un’altra interpretazione il sette e l’otto rimandano a Pesach e Sukkot, compreso Sheminì ‘Atzeret; alcuni in base a questo verso giustificano l’uso di leggere la meghillàh proprio di Shabbat, il settimo giorno, e non qualsiasi altro giorno della festa, come si potrebbe intendere dal verso stesso.
3) Il re Shelomò pronunciò la meghillàh in un Haqhel (riunione di tutto Israele, uomini, donne e bambini, come descritto alla fine del libro di Devarim) nella festa di Sukkot, come prescritto dalla Toràh;
4) Nella Meghillàh si ritiene che tutte le gioie di questo mondo non abbiano alcun valore e l’unica gioia veramente valida sia quella dello studio della Toràh;
5) Il re Shelomò inaugurò il primo Bet ha-miqdash durante i giorni di Sukkot, come narrato nel libro dei Re;
6) Secondo il Neziv il libro di Qohelet contiene un messaggio universale; nei giorni di mezza festa di Sukkot gli appartenenti alle altre popolazioni venivano presso il Bet ha-miqdash per offrire dei sacrifici, riconoscendo il Signore, e in tale occasione Shelomò leggeva il Qohelet;
7) Secondo il Prì Megadim l’introduzione della lettura è giustificata dal fatto che nel libro troviamo un rapporto ambivalente rispetto al tema della gioia, e visto che Sukkot è la festa della gioia, dobbiamo concentrarci per gioire secondo il modo prescritto, e non attraverso il solo godimento materiale, condannato dal Qohelet.
L’uso è stato introdotto in un periodo relativamente recente, essendo ricordato per la prima volta nel machazor Vitri. Alcuni usano leggere la meghillàh da un testo su pergamena recitando le relative berakhot. Altri la leggono da un testo stampato, e in ogni caso senza recitare benedizioni. L’uso provenzale era quello di leggere il libro nella Sukkàh.