Il declino della comunità ebraica di Pesaro nel XIX secolo
Riccardo Paolo Uguccioni
Diversi indicatori – dalla consistenza della popolazione all’ampiezza dei bilanci comunitari – segnalano che, nel corso dell’Ottocento pontificio, la comunità ebraica di Pesaro è in declino 1. Nel XIX secolo gli ebrei d’Italia presentano dei tassi di natalità inferiori al resto della popolazione cristiana 2, e l’università israelitica pesarese non fa eccezione. Negli ultimi decenni del Seicento gli ebrei a Pesaro sono stabilmente sopra le 500 unità e nel corso del XVIII secolo sono sempre più di 400; ma nel 1840 il parroco di san Nicolò censisce appena 300 anime e nel 1868 (a quel punto, passata Pesaro dallo Stato pontificio al regno d’Italia, la residenza nell’area del ghetto non è più obbligatoria per gli ebrei) le persone presenti nell’antico recinto saranno appena 167 3.
Al problema della minor natalità si somma il fatto che, nel nel corso del terzo decennio del XIX secolo, si verifica un movimento migratorio per censo, che vede la partenza da Pesaro delle famiglie più ragguardevoli: i Della Ripa, i Gentilomo, i D’Ancona, i Bolaffi. La lenta ma costante flessione demografica e l’emigrazione delle famiglie più facoltose si riverberano sul bilancio dell’università israelitica, che progressivamente si contrae. Poiché alcune voci del bilancio comunitario non possono essere ridotte, perché sono costituite da tasse camerali o da poste coattive – a volte vere e proprie angherie –, il pareggio dello stesso si ottiene erodendo altre voci, soprattutto le elemosine, con cui la comunità ebraica di Pesaro soccorre i propri poveri, che si abbassano dai 420 scudi annui del 1820 ai 179,40 scudi di un quarto di secolo più tardi.
Nello Stato pontificio, come è noto, gli ebrei sono soggetti a restrizioni e divieti di antica data, periodicamente ribaditi (obbligo del contrassegno sugli abiti, impossibilità legale di possedere beni immobili, divieto di servirsi di carrozze, di conversare con i cristiani, di assumere servitori di religione cristiana, di risiedere fuori del ghetto, ecc.). La frequente reiterazione di quelle disposizioni – ultima, in ordine di tempo, l’editto sopra gli ebrei di Pio VI, del 1775 – documenta anzitutto le difficoltà della loro applicazione, possibile solo in tempi di rigore inflessibile, che nel dominio ecclesiastico non sono mai per durare. Dopo la restaurazione, comunque, quel complesso di “insolenti discipline e incivile usanze del medio evo” 4 viene formalmente ripristinato. Da parte sua il cardinale Ercole Consalvi, segretario di Stato, propugna posizioni moderate, in questo come in altri ambiti di governo, ma altre autorità ecclesiastiche procedono invece verso il ripristino delle antiche interdizioni. Proprio a tale scopo il 29 dicembre 1817 il vescovo di Pesaro emette un editto, da affiggersi alle porte delle due sinagoghe cittadine, per sapere “quante e di qual condizione sieno le donne cristiane che li ebrei di questo ghetto tengono al loro domestico servizio” e “da qual tribunale abbia egli [l’ebreo] ottenuto il permesso di ritenerla [la domestica cristiana]”, nonostante le vigenti contrarie disposizioni; nel marzo 1818 trenta cristiane ricevono formale precetto di lasciare il lavoro, e analoga disposizione viene intimata ai loro padroni ebrei 5. In realtà non sappiamo se, e quanto a lungo, il divieto sia stato mantenuto: essendo evidente che il danno di gran lunga maggiore lo subiscono le fantesche cristiane, costrette a lasciare un servizio retribuito, è probabile che il precetto sia stato prima accolto malvolentieri e poi eluso, e che dopo qualche mese sia ricaduto nell’oblio. Nello Stato pontificio del resto, dove i confini tra la legislazione positiva e i precetti della Chiesa non sono del tutto definiti, l’incertezza del diritto è una costante lamentata da molti: nel caso delle interdizioni israelitiche, poi, la normativa vigente è di difficilissima applicazione e può sempre essere mitigata da un atteggiamento di benevolenza del pontefice, che senza abrogarla non la ribadisca, o da un tratto di amicizia personale con il cardinal legato, il vescovo, un canonico. Ma anche vincoli molto meno altolocati possono risultare propizi.
Da un punto di vista amministrativo, le comunità israelitiche nello Stato pontificio si possono paragonare a dei minuscoli municipi, con proprie magistrature, un proprio ordinamento e un bilancio. Dopo la restaurazione la comunità pesarese torna ad essere governata secondo le regole sanzionate nel 1696 dal cardinal legato Fulvio Astalli 6 – c’è chi tenta di sostenere che il motu proprio del 6 luglio 1816 le abbia soppresse, al pari degli statuti comunali –, regole che prevedono un consiglio, il cui compito principale è la ripartizione degli oneri comunicativi e fiscali fra i membri dell’università stessa; dal consiglio, formato in origine di 13 membri ma il cui numero in realtà varierà nel tempo, sono scelti ogni anno tre deputati che costituiscono l’esecutivo della comunità; a turno, ogni quattro mesi, uno dei deputati svolge le funzioni di ponente, cioè di presidente.
“Pei riparti di tasse ed imposizioni straordinarie a carico degli ebrei – ordina nel 1817 il delegato apostolico di Urbino e Pesaro – deve osservarsi il solito, cioè la base di riconoscere in corpo l’università” 7: la comunità è quindi responsabile come corpo unico delle tasse imposte agli ebrei della città adriatica. Il problema più delicato che il consiglio debba affrontare, e il più lungamente dibattuto, è la formazione della lista dei tassabili. Operando sia su base “di opinione” (che è appunto l’elemento debole del sistema), sia svolgendo indagini formalmente rigorose, che prevedono anche l’audizione degli interessati, periodicamente viene redatta una “stima delle facoltà” di tutti gli ebrei del ghetto: su quella base, i deputati ripartiscono le tasse e i costi interni dell’università. E’ previsto che, chi si creda tassato in eccesso, possa dichiarare con giuramento l’esatto ammontare del proprio patrimonio. Ma in realtà i contenziosi saranno continui.
Notiamo en passant che le regole “astalline” fissano anche criteri di valutazione per merci e oggetti preziosi, regolano matrimoni e doti, stabiliscono norme in caso di emigrazione di ebrei da Pesaro o di arrivo nella città adriatica di ebrei forestieri, ecc.
Dal 27 dicembre 1819 al successivo 11 gennaio si riunisce in più sere il consiglio “nazionale” della comunità israelitica di Pesaro, composto di dodici membri. I primi tre (si tratta di Alessandro Bolaffi, ponente, e di Isach di Emanuele Foligno e Giuseppe d’Ancona) sono i deputati, in carica dalla decorsa pasqua e per un anno; gli altri consiglieri sono già disposti in triple, che esprimeranno i deputati degli anni a venire: Amadio Bolaffi, Giuseppe Della Ripa, Salomon Raffaele Foligno compongono la prima; Alessandro d’Ancona, Abram Gentilomo e Isach Galligo formano la seconda; David Isach d’Ancona, Laudadio Gentilomo e Jacob di Emanuel Foligno costituiscono la terza tripla. Il consiglio discute diversi problemi relativi al preventivo 1820. Il rabbino Del Vecchio, la cui “condotta” dura un anno a partire dal primo giorno di Nisan, chiede un aumento dello stipendio, che gli si accorda (il suo compenso sale da 140 a 150 scudi), mentre il rabbino Foligno ne percepirà 75; lo sciattino, incaricato della macellazione rituale 8, percepisce 60 scudi, mentre con Raffaele Montebarocci, sorvegliante alle carni, si concorda un salario di 4 paoli (cioè 40 baiocchi) a settimana, pari a circa 22 scudi annui. Sabbato Vita Beer è segretario della comunità, con un emolumento di 50 scudi. La maggiore voce del bilancio restano comunque le elemosine settimanali, che ascendono a 420 scudi complessivi all’anno, e sullo stesso versante si colloca una posta di 15 scudi per le “azzime ai poveri”:
Va ricordato che esistono nel ghetto diversi sodalizi assistenziali deputati ad assistere i poveri e i bisognosi: uno di questi, la Compagnia della misericordia, si sostiene almeno in parte con un pedaggio imposto agli ebrei (esteri o dello Stato pontificio, compreso quelli di Pesaro) che si rechino alla fiera di Senigallia 9.
Altre voci del bilancio comunitario attirano la nostra attenzione, e fra queste i 10 scudi annui che spettano all’abate di san Nicolò, nella cui parrocchia è ritagliato il ghetto. C’è poi la tassa detta dei catecumeni, accollata a ogni comunità ebraica dello Stato pontificio per mantenere l’istituto romano che catechizza proprio gli ebrei che abbraccino il cristianesimo: nel caso di Pesaro sono 35 scudi all’anno, e dopo la restaurazione la comunità si vede richiedere anche gli arretrati per gli anni del dominio napoleonico. Si è invece persa memoria – lo dichiara lo stesso delegato apostolico, di fronte a un ricorso degli ebrei – della ragione istitutiva di una tassa detta di vassallaggio (o, più anticamente, cotta de’ giudei), pari a 87 scudi annui, ma intanto il tributo viene comunque riscosso, almeno fino al regno di Pio IX. Nel 1820 una voce del bilancio dell’ampiezza di 15 scudi, che non si ripeterà negli anni successivi, ha una singolare denominazione: “anniversario saccheggio e inglesi”. E’ assai probabile che ci si riferisca al saccheggio subito dal ghetto di Pesaro il 7 giugno 1799 per mano degli insorgenti, dopo la cacciata dei francesi e dei loro sostenitori locali 10; e che la dizione “inglesi” rimandi agli sbarchi britannici dell’aprile e maggio 1809, quando Pesaro è una vice-prefettura del regno (napoleonico) d’Italia. Si può forse ipotizzare che, anche a Pesaro, la comunità locale celebri gli scampati pericoli con una propria festa 11. Di grande interesse sono poi 140 scudi, denominati nel 1820 “rabbini del Levante e avventurieri”, su cui torneremo.
Per fronteggiare il passivo, la comunità deve reperire un totale di 1.186 scudi. Il consiglio attiva dunque alcune tasse: quella detta del quarto, che grava dello 0,25% qualsiasi contratto stipulato fra ebrei; una sulle lettere (riceverle costerà mezzo baiocco l’una); una terza, infine, che eleva il costo della “sciattatura”, ovvero della macellazione rituale. Dall’insieme di queste tasse si calcola un ricavo di 60 scudi per anno. Vengono poi tassati i commercianti ebrei di Pesaro, dopo averli classificati in sette classi di censo, che pagheranno da dieci a uno scudo: i maggiori contribuenti risultano essere Nedanel Bolaffi e Israel Cividali. Tassando così 35 commercianti, se ne ricavano 95 scudi. Rimane però ancora un forte disavanzo, per coprire il quale, dopo lunga e tormentata discussione (il consiglio si riunisce per più sere), si reputa necessario ricorrere ad offerte – per così dire – volontarie da parte dei maggiori “capitalisti” del ghetto. L’intera operazione viene condotta con accortezza, e certo non senza diplomatiche intese, infatti le offerte – con un lieve aggiustamento – finiranno per coprire l’intero deficit. I capitalisti che intervengono sono:
Salvatore Della Ripa s. 215 Laudadio Gentilomo s. 150
Gioachino d’Ancona s. 100 Alessandro Bolaffi s. 100
Jacob e fratelli Foligno s. 72 Salomon Raffael Foligno s. 50
Raffaele d’Ancona s. 40 Bonajuto d’Ancona s. 40
Alessandro d’Ancona s. 35 David Isach d’Ancona s. 35
David Abram Gentilomo s. 35 Amadio Bolaffi s. 30
Samuel del Bene s. 28 Isach Galligo fu Samuele s. 20 12
Questo elenco merita attenzione per diverse ragioni. Anzitutto, perché da un rapido raffronto risulta che i capitalisti che si autotassano sono gli stessi che in quel momento compongono il “nazionale consiglio” della comunità israelitica; poi, perché si può ragionevolmente supporre che l’ampiezza dell’offerta sia puntualmente proporzionale all’ampiezza dei rispettivi patrimoni; infine, perché la maggior parte degli ebrei che vi figurano sono proprio quelli che, nel volgere di pochissimi anni, avranno abbandonato la comunità pesarese e lo Stato pontificio.
Per gli ebrei dello Stato romano, e non solo per loro, le cose si complicano infatti con l’elezione di Leone XII, succeduto a Pio VII nel 1823. Il regno di papa Della Genga (1823-1829) segna infatti il ritorno a una politica di piena restaurazione, senza quei tratti di equilibrio che hanno contraddistinto il governo consalviano. Riaffermando le varie interdizioni israelitiche, dall’obbligo di assistere alle prediche conversionistiche al divieto di proprietà di beni immobili, Leone XII provoca l’emigrazione delle maggiori famiglie ebraiche di Pesaro. Le affermazioni pontificie della subalternità giudaica sono periodiche e dopo la prima recrudescenza, di solito, sono altrettanto periodicamente disattese; ma queste di Leone XII risultano tanto più intollerabili perché giungono dopo il lungo intervallo napoleonico e dopo il moderato governo del Consalvi.
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Tra coloro che se ne vanno, non senza strascichi e contenziosi con gli ebrei che restano, rappresentati dalla stessa università di Pesaro, c’è Laudadio Gentilomo, del fu Nadanel. Le sue attività economiche mostrano un vigore straordinario: ma prima di esaminarle dobbiamo insistere sul fatto che, all’interno della popolazione ebrea di Pesaro – come in qualunque altra comunità –, enormi sono in realtà le differenze fra i membri della stessa, che annoverano chi vive del pubblico sussidio, chi si industria con commerci più o meno estesi, chi amministra patrimoni grandissimi consistenti in beni immobili e denaro contante.
A Venezia il 15 settembre 1825 Laudadio Gentilomo. “possidente negoziante di Pesaro, ma che ora attrovasi domiciliato in questa città, abitante in parrocchia san Marziale”, istituisce suo procuratore nell’intero Stato pontificio Jacob Levi del fu Samuel, ebreo di Pesaro 13. Una serie di imponenti transazioni, negli anni seguenti, ci dà la misura del patrimonio della ditta bancaria Gentilomo. Il 1° aprile 1826 “a due ore di notte con più lumi accesi”, per esempio, il conte Domenico Paoli incontra in Pesaro il Gentilomo stesso, “qui di transito”, nello scrittojo della sua casa in via dei Negozianti. Il Paoli contrae un prestito di 6.500 colonnati d’argento, che si impegna a restituire entro dieci anni al saggio del 5%; in garanzia del prestito vengono ipotecati tre poderi in Romagna. il rogito precisa (si tratta peraltro di una formula abituale) che la restituzione avverrà con la stessa moneta ricevuta, “esclusa ogni altra, segnatamente inferiore, sebbene metallica, molto più poi esclusa la carta monetata o da monetarsi, ancorché per legge sovrana andar dovesse a livello di detta specie di moneta, non mai in disprezzo di tal legge, ma perché così è stato stabilito fra le parti per condizione, senza la quale la suddetta ditta [Gentilomo] non avrebbe fatto l’enunciata somministrazione” 14. Il 21 aprile 1826 Laudadio Gentilomo acquista da. Odoardo Machirelli censi e rate di censo accesi a suo tempo dall’ospedale di Pesaro in favore di Annibale Abbati Olivieri, e pervenuti al cedente per via ereditaria 15. Il 23 giugno dello stesso 1826 il Gentilomo acquista dei fondi rustici nell’anconetano per 2.270, 26 scudi 16. Il 2 gennaio 1827 Laudadio Gentilomo compra per 30.430,55 scudi alcuni beni e canoni situati nel Polesine, a fronte dei quali il banchiere ebreo cede sei poderi situati tra Monteluro, Candelara, Novilara e Mondolfo e versa in moneta sonante quasi tutta la differenza (si tratta di 11.660,10.3 scudi) 17. Sembrerebbe un inizio di smobilizzo di proprietà situate nello Stato pontificio, scambiate con altre del Lombardo-Veneto, ma poi il 25 luglio dello stesso anno, tramite il suo procuratore, il Gentilomo acquista per 23.137,71 scudi dei beni situati fra Cesena e Cervia 18. Negli anni seguenti, comunque, l’attività del Gentilomo si distanzia progressivamente – per così dire – da Pesaro, sebbene negli atti notarili continuino a comparire operazioni tutt’altro che secondarie. Fra queste dobbiamo segnalare almeno l’atto di divisione fra i Della Ripa e il Gentilomo stesso. L’insolvenza di certi debitori, si legge in premessa, ha fatto sì che le due ditte bancarie abbiano talvolta ricevuto terreni e altri beni in luogo dei crediti concessi, e li abbiano provvisoriamente amministrati in comune. Ma ormai i Della Ripa hanno spostato a Firenze il centro della loro attività, e il Gentilomo risiede sempre più stabilmente a Venezia: il 14 giugno 1831 si procede dunque alle suddivisioni, che riguardano un patrimonio di molte decine di migliaia di scudi fra Romagna e Marche 19. Il fatto che il 28 dicembre 1840 Laudadio Gentilomo nomini da Venezia un nuovo procuratore ad lites et negotia, nella persona del pesarese Pietro Scacciani, significa comunque il persistere di interessi nello Stato pontificio 20.
A Venezia, l’8 giugno 1830, è morto Moisé del fu Salomon Gentilomo, zio ex patre di Laudadio. Un testamento del 1811, più volte emendato, accolla a Laudadio, erede universale, alcuni legati ormai privi di copertura finanziaria, che il nipote decide di onorare attingendo dal suo patrimonio 21. La vicenda getta qualche luce su usanze e istituzioni del ghetto di Pesaro. Fra i vari legati a parenti e servitori, troviamo infatti 37,50 lire italiche (pari a scudi romani 6,65.4) a Moisé Raffaele Carcassone “onde recitasse in iscuola il consueto cudis pel corso di un anno dall’epoca del decesso di esso testatore”; quindici scudi al mese sono invece riservati a otto persone e a due rabbini, purché si impegnino per un anno in una “letrogia sacra” che duri un’ora. Emerge dalle carte un cenno alla politica di restrizioni antigiudaiche di Leone XII: nel liquidare Gentile Moscato, altra nipote del defunto Moisé, il Gentilomo le fa infatti versare il dovuto in moneta sonante, in quanto “pei regolamenti di nuovo non a guari richiamati all’osservanza, resta espressamente vietato agli ebrei di possedere stabili e di costituire crediti ipotecari, anche temporanei, perloché non potrebbesi, ancorché si richiedesse dalla stessa legataria, sanzionare un reinvestimento costitutivo di un’ipoteca o di una stabile proprietà a di lei favore” 22.
Di fronte a questo accenno agli inasprimenti di Leone XII, è però inevitabile rilevare ancora una volta come l’aspetto oppressivo di certe interdizioni, che rendendo la vita difficile agli ebrei dovrebbero forzarli al cristianesimo, si sommi alla loro inconcludente e sempre parzialissima applicazione, che non sembra davvero sfiorare i grandi “capitalisti”, e poco anche i medi. Si tratta insomma di vessazioni soffocanti, in altri tempi destinate ad avere anche epiloghi tragici, ma di difficilissima esecuzione e comunque sempre aggirabili, ma contraddette dal sentire comune e dalla loro stessa inapplicabilità 23.
Tra i legati del defunto Moisé figurano anche dei lasciti per l’educazione dei ragazzi poveri e il soccorso degli ammalati, “istituzione detta nell’idioma ebraico tamut orà e ghemilud kasadim”; poi per l’illuminazione a olio nella sinagoga spagnola di Pesaro ogni venerdì sera in perpetuo “e in tutte le sere del digiuno grande, così chiamato chipur”, a condizione che ogni sabato “si reciti in essa scuola l’esequie detta ascavà, ed anche nella sera detta chipur” (se la scuola spagnola non accettasse, la funzione andrebbe eseguita nella sinagoga italiana, o in altra città vicina); infine, per eseguire “una letrogia sacra e perpetua nella pia residenza di detta comune, nominata somech neffelim”.
All’erede è prescritto di effettuare un investimento, che garantisca l’adempimento dei legati. Nell’agosto 1830 Laudadio Gentilomo interpella dunque l’università ebraica e le compagnie legatarie perché determinino l’annuo costo dei legati. Individuato così il capitale necessario, Laudadio dichiara che ipotecherà la sua casa del recinto di Pesaro a garanzia dei legati stessi 24. Segno contraddittorio di distacco dal ghetto di Pesaro, e di nostalgico legame con lo stesso, la casa sarà poi venduta a Sabbatino Levi nel 1843 e poco più tardi Laudadio offrirà all’università israelitica di sostituirla nell’ipoteca con due fondi rustici che possiede in Romagna, verso Sant’Arcangelo 25.
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Privata dei suoi “capitalisti”, con cui sostiene un lungo contenzioso 26, la superstite università israelitica di Pesaro fronteggia i propri obblighi e le proprie necessità con difficoltà crescenti: e questo sebbene con i Della Ripa e con il Gentilomo, ormai assenti, si giunga a un accomodamento, che dagli uni e dall’altro assicurerà alla comunità un’offerta perpetua (“spontanea però, e non coattiva”).
Il confronto fra bilanci successivi mette in evidenza l’avanzante scarsità di mezzi. Poiché alcuni costi, come quello per la casa dei catecumeni, non possono essere soppressi, alla penuria di risorse si fa fronte con la contrazione dei salari degli impiegati dell’università e delle risorse destinate alla carità istituzionale. Per questo, a un certo punto, il gonfaloniere di Pesaro lamenta che diversi mendicanti ebrei chiedano la carità sulle pubbliche vie, “cosa non mai vista per lo passato”.
Secondo il bilancio preventivo redatto nel marzo 1838, e destinato a durare tre anni, gli “impiegati al culto” ricevono complessivamente 124,40 scudi annui e i “funzionari pubblici” altri 52. Ben diverse erano le poste di bilancio del 1820, quando i due rabbini erano retribuiti complessivamente con 225 scudi all’anno, lo sciattino con 60, segretario dell’università con 50, il sorvegliante alle carni con 22, il “servente“ Isach Levi con 12. Ma sono soprattutto le elemosine “settimanali” a diminuire: ora ascendono a 229,84 scudi, per cui, anche sommando altri piccoli importi destinati alla carità e le “azzime ai poveri”, si è molto lontani dai 420 scudi del bilancio 1820. Sono invece invariate le tasse camerali e per i catecumeni, e figurano anzi a bilancio anche alcuni arretrati, segno di una persistente difficoltà della comunità a far fronte ai propri debiti. Per fronteggiare un prospetto “presuntivo” di 825,77.5 scudi, sono chiamati a contribuire 37 ebrei “industrianti”, che versano una quota annuale oscillante dai settanta scudi di Salomon Raffaele Foligno ai trenta di Giacomo Beer, dai sei scudi di Davide Galligo ai due di Angelo Rocca, Jacob Del Vecchio, Angelo Viterbo; ma due quinti dei costi preventivati sono coperti dal contributo (che sia offerta spontanea o no, qui poco conta) dei Della Ripa e di Laudadio Gentilomo, che pur assenti da Pesaro rispettivamente sborsano 280 e 120 scudi annui.
Nel 1842, con il nuovo bilancio, le spese preventivate per “impiegati al culto” e per i funzionari sono quasi invariate (120 e 50 scudi); diminuiscono però a 179,40 scudi le elemosine settimanali, anche se permangono altri impegni di versante caritatevole, consueti o straordinari, come le azzime ai poveri o un piccolo aiuto alla Compagnia della misericordia. Il bilancio della comunità si contrae di rendiconto in rendiconto, e ora ha una ampiezza di poco superiore a 700 scudi, a fronteggiare la quale, oltre ai contribuenti locali, giova la consueta offerta degli emigrati, che ormai sfiora la metà delle entrate previste 27.
Nel bilancio del 1820 era presente una voce, denominata “rabbini di Levante e avventurieri”, recante una partita di 140 scudi complessivi per anno. Nel bilancio 1838 compaiono due poste, denominate la prima “corrisposta alle quattro università asiatiche” e l’altra “ospizio, vettura ed elemosina a poveri missionari e avventurieri”, rispettivamente di 24,32 e di 50 scudi. Nel 1842 l’ampiezza della prima voce rimane invariata, mentre la seconda posta scende a 30 scudi. Nel bilancio del 1851-1853 troviamo ancora 13,50 scudi segnati come “sussidio alle università in Terrasanta” e 20 scudi imputati alla voce “alloggio e vitto ai rabbini asiatici”. Le oscillazioni nel descrittivo non aiuta a intendere fino a che punto in tali poste di bilancio si mescolino problematiche diverse, da un lato il soccorso agli ebrei forestieri di transito a Pesaro e, dall’altro, un legame sia sentimentale che economico verso le superstiti comunità ebraiche in Palestina. E’ molto probabile che i “rabbini di Levante” siano quei “messi di Terrasanta” che, fin dai primi secoli dell’era volgare, percorrono l’Europa e vi operano come collettori di risorse “per mantenere in vita quel piccolo nucleo di studi e di religiosa pietà [dell’ebraismo] che è riuscito a sopravvivere in Palestina” 28.
Ci aiuta a meglio comprendere il senso di quelle spese il consiglio del 4 gennaio 1858, nel quale il problema delle elemosine per la Terrasanta giunge a essere discusso apertamente. Il consiglio della comunità israelitica di Pesaro affronta tra l’altro, in quell’occasione, alcune spese addizionali dell’anno prima, fra le quali 24,80 scudi sono il costo della visita di Pio IX a Pesaro, nel maggio 1857, e altri 13,50 scudi sono le spese per la fornitura di drappi nelle solennità del Corpus Domini, della Madonna delle Grazie e di san Terenzio. Ma il consiglio tratta anche la questione di un rabbino “d’Oriente”, che in quel momento alloggia a Pesaro a spese della comunità ebraica locale. Il rabbino viene da Safed, nell’alta Galilea, appunto per riscuotere le elemosine che, come tutte le comunità ebraiche d’Europa, anche quella pesarese usa inviare in Terrasanta (gli ebrei di Pesaro, anzi, hanno un arretrato decennale, pari a 64 scudi). I deputati pesaresi osservano – si legge a verbale – che, “per quanto sia vera la consuetudine di fare questa elemosina alle università d’Oriente, non è men vero però che non si ha diritto politico di esigerla, e che difatti è noto che le università di Francia si sono rifiutate a questo pagamento”. Stretti fra la tradizione, le ristrettezze del bilancio e le insistenze del messo, gli ebrei di Pesaro prima ribadiscono che l’esazione non costituisce un diritto, poi propongono una transazione, che viene accolta: nei prossimi dieci anni verseranno 3 scudi all’anno, al posto degli otto ducati pattuiti in antico 29.
1 Una panoramica sulla comunità ebraica pesarese nell’Ottocento pontificio in R.P. Uguccioni, La comunità ebraica di Pesaro dopo la restaurazione, in “Pesaro città e contà”, 3 (1993), pp. 21-38, e in Id., Note sulla comunità ebraica di Pesaro nel XIX secolo, in “Pesaro città e contà”, 7 (1996), pp. 77-98, alle cui indicazioni bibliografiche si rimanda; cfr. anche V. Bonazzoli, La componente ebraica tra fine dell’antico regime e unificazione nazionale, in Quei monti azzurri. Le Marche di Leopardi, atti convegno a cura di E. Carini, P. Magnarelli e S. Sconocchia, Venezia 2002, pp. 197-223.
2 M. Livi Bacci, Ebrei, aristocratici e cittadini: precursori del declino della fecondità, in “Quaderni storici” n° 54 (1983), pp. 913-939. Vi si sostiene che, forse per un mutamento del modello matrimoniale, le comunità ebraiche italiane presentino nel corso dell’Ottocento una media di accrescimento del 25 ‰, nettamente inferiore a quello della restante popolazione. Vedi anche S. Della Pergola, La popolazione ebraica in Italia nel contesto ebraico mondiale, in Storia d’Italia Einaudi, Annali 11**, Torino 1997, pp. 897-936 e in part. pp. 923-925.
3 C. Vernelli, la popolazione di Pesaro e del suo contado nei ristretti delle anime del Seicento, in “Pesaro città e contà”, n° 13 (2001), p.46; Asdp, Stati d’anime, b. 67, “ghetto”. Indicazioni sulla demografia ebraica prima della devoluzione in R. Segre, Gli ebrei a Pesaro sotto la signoria dei Della Rovere, in Aa. Vv., Pesaro nell’età dei Della Rovere, Historica Pisaurensia III/1, Venezia 1998, pp. 157-158.
4 La definizione è di L. C. Farini, in Lo Stato romano dall’anno 1815 all’anno 1850, Torino 1850, I, p. 20.
5 Asdp, Acta civilia et criminalia 1800, cont. 1, n° 77.
6 Capitoli e regole da osservarsi dagli ebrei di Pesaro nel ripartire i pesi dell’università, in Uguccioni, La comunità ebraica cit., pp. 21-38.
7 Ascp, b. 129, “Sussidio pubblico”, 1816-1817
8 Sulla macellazione rituale, compiuta da persona appositamente abilitata, cfr. P. Jacca, Shemà Israel. L’ebreo orante, Milano 1988, pp. 48-49.
9 R.P. Uguccioni, Note sul “pedaggio” degli ebrei nella fiera di Senigallia (1816-1859), in La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIII-XX, cur. S. Anselmi e V. Bonazzoli, quaderno monografico di “Proposte e ricerche”, 14 (1993), pp. 321-333.
10 Nel 1799, dopo il saccheggio del ghetto di Pesaro a opera degli insorgenti, gli ebrei – sotto la spinta delle circostanze – non solo rinunciano alla restituzione degli effetti rubati, ma offrono pure al municipio una contribuzione. Bop, ms.963, II, n° 29.
11 M. Caffiero, Tra Chiesa e Stato. Gli ebrei italiani dall’età dei Lumi agli anni della Rivoluzione, in Storia d’Italia Einaudi, Annali 11**, Torino 1997, pp. 1090-1132 e in part. pp. 1125-1126. Sullo sviluppo del dibattito nei decenni seguenti, cfr. F. Della Peruta, Gli ebrei nel Risorgimento fra interdizioni e emancipazione, ivi, pp. 1133-1167.
12 Tutte le indicazioni sul preventivo 1820 vengono da Asp, Da, Miscellanea, b. 4, 1820.
13 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1826, 1°, cc. 52 r. – 53 v. Si tratta di una procura “generalissima”, cioè illimitata.
14 Ibidem, cc. 161 r. – 165 v.
15 Asp, Np, notaio Giuseppe Andreani, 1826, cc. 149 r. – 151 v. L’importo è di 842,09 scudi, pagati in moneta d’oro e d’argento.
16 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1826, 1°, cc. 419 r. – 424 v
17 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1827, I, cc. 1 r. – 13 v.
18 Ibidem, 1827, II, cc. 224 r. – 234 r.
19 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1831, cc. 13 r. – 24 r.
20 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1845, I, cc. 6 r. – 8 v., dove compare un’aggiunta di procura rilasciata il 18 dicembre 1844 allo stesso Scacciani.
21 Ibidem, 1830, I, cc. 649 r. – 658 v.
22 Ibidem, 1830, II, c. 90 v. L’intero atto comprende le carte 88 r. – 93 r.
23 Nel marzo1856 al ministro degli Interni, il quale osserva che nulla è variato rispetto all’incapacità degli ebrei di possedere beni stabili, vescovi e governatori della provincia di Urbino e Pesaro rispondono elencando i beni posseduti in quel momento da ebrei. A Fano si segnalano acquisti della ditta Levi e Camerini di Senigallia; a Gubbio, Abramo e Giacobbe d’Ajò possiedono una casa e dei terreni; a Sant’Angelo in Vado la ditta anconetana Brisi Almagià possiede una casa; a Pergola l’anconetano Achivà Jacob Camerini e il senigalliese Leone Levi Camerini hanno qualche bene; a Pesaro non si segnalano acquisti recenti, ma Sabbatino Levi, Gioacchino Cividale e Lazzaro Montebarocci possieddono da tempo alcuni fondi rustici; a Mondavio ci sono ancora dei beni di Laudadio e Zaccaria della Ripa; a Senigalia e nel suo governo si segnalano beni della ditta Levi e Camerini, di Saul Almagià e Mosé Forti, di Achivà Jacob Camerini, di Gioacchino Galligo, di Abramo Mondolfo, di Laudadio della Ripa, di Zaccaria della Ripa, di Leonardo Zabban, di Romeo Zabban; a Urbino, Urbania e Sant’Angelo in Vado la ditta Felice e Angelo Coen possiede numerosi beni. Già nel 1852, l’arcivescovo di Urbino aveva inviato l’elenco dei beni posseduti “da questi israeliti Felice del fu Salomone Coen ed Angelo del fu Elia Coen, formanti separate famiglie, essendo però comproprietari della ditta commerciale sotto i medesimi loro nomi”. L’indagine del 1856 si conclude con l’esortazione del Sant’Offizio al delegato apostolico perché vigili ad impedire “onninamente” tali abusi. Asp, DA, tit. XI Miscellanea, b 26, 1856, f. 4 “diversi”.
24 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1830, II, cc. 228 r. 248 r. Ad accettare i pesi testamentari – più volte modificati nel tempo – sono, per l’università ebraica, Giuseppe del fu Samuel Foligno e Alessandro di Salomone Foligno; per la scuola spagnola, Samuel del fu Caim Levi e Israel del fu Giacomo Cividale; per la compagnia Moscian Zecchenim, ossia “residenza dei vecchi”, Giuseppe del fu Samuel Foligno e Elia del fu Abram Isach Bono. La casa Gentilomo è valutata dall’ing. Pietro Togni 3.477.75 scudi.
25 Ibidem, 1847, I, cc. 459 r. – 478 v. Di due legati, uno dello zio Dattolo Gentilomo (che nel 1819 aveva disposto l’elemosina di uno scudo settimanale per “i poveri nazionali in Pesaro”, e al quale Laudadio assieme al fratello Salomone Vita aveva provveduto ipotecando due poderi dell’Urbinate), l’altro dello zio Davide Gentilomo (che nel 1833 aveva disposto una elemosina di 30 scudi annui, anche questa caduta su Laudadio come erede universale), si parla ivi, alle cc. 479 r. – 482 r. e 483 r. – 485 v.
26 La vicenda, che coinvolge il Gentilomo assieme ai Della Ripa, ai D’Ancona e ai Bolaffi, in Uguccioni, Note sulla comunità ebraica di Pesaro nel XIX secolo, in “Pesaro città e contà”, 7 (1996), pp. 79-84.
27 I dati sui bilanci 1838 e 1842 in Asp, Da, tit. XI Miscellanea., b.28, 1834-1853.
28 A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1992, p. 510.
29 Asp. Da, tit. XI Miscellanea, b. 27, 1850-1860, “1858”. Nel consiglio siedono Raffaele Bolaffi, Lazzaro Montebarocci, Dattolo Viterbo, Moisé d’Ancona, David Foligno, Gioachino Cividali e Pacifico Foligno.