I Della Ripa banchieri israeliti di Pesaro
Giovanna Patrignani
I Della Ripa erano una famiglia di banchieri ebrei pesaresi, che dai primi anni del Settecento alla prima metà dell’Ottocento esercita un ruolo preminente non solo all’interno della comunità ebraica pesarese, ma anche nel più ampio contesto sociale, economico e culturale della città di Pesaro.
Il tradizionale legame del cognome ebraico alla località d’origine li potrebbe far supporre originari o comunque provenienti dalla comunità di Ripa, o Ripe, nell’entroterra di Senigallia, dove un carteggio di un centinaio di lettere del biennio 1702-03 documenta l’attività di commercio tessile, fieristica e feneratizia di Moisè Della Ripa, “ebreo di Sinigaglia”, che probabilmente nei primi anni del Settecento sposta il centro dei suoi affari in Pesaro, da cui provengono la maggior parte delle lettere indirizzategli 1. Con Moisè Della Ripa si potrebbero pensare in rapporto di parentela i Della Ripa pesaresi il cui cognome – nelle varie alternanze Ripa, Ripe, Ripi, Dalla/Della Ripa – è rintracciabile dai primi decenni del Seicento fra gli intestatari dei rogiti dei notai pesaresi: Marsia Della Ripa fa testamento nel 1620 con rogito del notaio Giacomo Necti, Samuele Della Ripa nel 1647 con rogito del notaio Piermaria Ianni, Laura Della Ripa fa stimare la propria dote nel 1667 dal notaio Giuliano Serandrea. La stabile residenza dei Della Ripa nel ghetto di Pesaro è confermata dalla Nota di tutti li capi de famiglie del ghetto di Pesaro, con il numero delle persone d’esse famiglie2, redatto nel 1747 da Jsach Salom, scrivano della comunità, nella quale due famiglie Della Ripa risultano composte dai capifamiglia Biniamin con tre persone e Zaccaria con sette persone. Nel Catasto delle case di Pesaro del 1793, nella Tavola dell’estimo delle case, orti o giardini che la compongono3, Zaccaria Della Ripa risulta abitante in strada delle Stalle in una casa d’affitto di proprietà della compagnia di Sant’Andrea, mentre nella vicina strada dei Mercanti risiedono sia il figlio Samuele, che condivideva con Abram Gentilomo l’affitto di una casa di proprietà di Francesco Montani, sia il figlio Salvatore, affittuario insieme allo stesso Abram Gentilomo di una casa della vedova Cattani, ma abitante in un’altra casa, sempre nella stessa via, affittatagli dal monastero di Santa Caterina. La condivisione di una casa in affitto a lungo andare produce “grandi dissapori e discordie” tra David Abramo Gentilomo e Salvatore Della Ripa, che per addivenire ad una “transazione ed amichevole concordia” finiscono nel 1797 davanti al notaio Agostino Bessi, il cui rogito4 testimonia che “sino da tempo antico” il Della Ripa abitava in quella “sua antica casa”.
Il nome di Salvatore Della Ripa, “negoziante e banchiere israelita”, fondatore e titolare dell’omonima ditta bancaria pesarese, compare con sistematicità nelle fonti notarili pesaresi dalla seconda metà del Settecento. I numerosi rogiti che lo riguardano (compravendite, prestiti, quietanze, confessioni di debiti, obbligazioni, costituzioni d’ipoteche, ecc.) ne attestano la florida e multiforme attività, che lo rende un personaggio di spicco nella Pesaro settecentesca e di primo Ottocento; oltre a gente comune, anche prelati, delegati apostolici e il fiore della nobiltà pesarese ricorrono alla “ditta bancaria Salvatore Della Ripa” per prestiti e ogni altro genere di operazione economica: tra i clienti abituali ricorrono Francesco Maria Mazzolari, Antaldo Antaldi e la moglie Lucrezia Ercolani di Bologna, Pietro Petrucci, le sorelle Bianca, Vittoria e Carolina Mosca, Giuseppe e Odoardo Macchirelli, i coniugi Francesco ed Elena Cassi e monsignor Luigi Pandolfi – delegato apostolico tra 1814 e 1820 – a cui i Della Ripa ha prestato 1.400 scudi e, su sua richiesta, persino delle coperte per ornare il palazzo apostolico nelle solennità religiose 5.
Salvatore Della Ripa, che nel 1818 fa parte del consiglio della comunità ebraica, muore l’8 settembre 1819, lasciando tre figli maschi – Giuseppe, Laudadio e Samuele – i quali gli subentrano nella direzione della ditta, che mantiene il nome del suo fondatore. Sul finire dello stesso anno il figlio Giuseppe è fra i componenti del “nazionale consiglio” della comunità ebraica pesarese.
Il 17 maggio 1819 i tre fratelli comprano da Moisè D’Ancona, per 300 scudi “ricevuti prima della stipulazione” 6, un palco nel “Teatro nuovo” di Pesaro, inaugurato con tale nome, dopo la completa ristrutturazione, il 10 giugno 1818 dalla Gazza ladra di Rossini, diretta dallo stesso maestro, di cui i Della Ripa sono ferventi ammiratori. La compra del palco è motivata non solo dall’inclinazione musicale dei Della Ripa, ma anche dalla volontà di adeguare l’immagine sociale all’elevato livello economico, seguendo un iter di ascesa usuale ovunque tra gli israeliti più abbienti, che fin dal Settecento possono vantare un palco nel locale teatro della città di residenza, a fianco di nobili e notabili.
In tale anno, per la morte del padre, torna a Pesaro per pochi giorni Samuele (Pesaro 1795 – Parigi 1829), che fin dal 1817 se n’è andato a Firenze, città percorsa ab antiquo da un notevole spirito di liberalità, come tutta la Toscana, dove gli ebrei hanno larghissima libertà d’azione e sono ben accetti nel mondo culturale e scientifico: è il primo dei tre fratelli Della Ripa a trasferire fuori da Pesaro parte dei propri capitali, in un tempo in cui nessuno pensa ancora alla critica situazione che si verificherà più tardi, ma forse già intuendo – con acume economico da esperto uomo d’affari – le possibili ristrettezze future dello Stato Pontificio. Non taglia comunque i ponti con Pesaro, in cui lascia la metà dei suoi averi e dove ritorna una seconda volta, sempre per pochi giorni, nel 1823, prima di morire a 34 anni, celibe senza prole e senza aver fatto testamento, a Parigi. Il più piccolo dei fratelli Della Ripa muore il 4 ottobre 1829 in una camera dell’Hotel des hautes Alpes, al n. 12 di rue de Richelieu, in circostanze per lo meno misteriose: la fede di morte 7, certificata con atto privato del maire de Paris, registra i testimoni: Charles Joupon di 36 anni, concierge dell’hotel e Antoine Rodde di 26 anni, “homme de confiance”, ma non fa il minimo accenno alla causa del decesso improvviso del giovane ebreo pesarese.
Quattro mesi prima di morire, Samuele si trovava a Firenze per definire con i fratelli la successione dell’eredità del padre Salvatore, morto già da dieci anni “senza alcuna testamentaria disposizione”, lasciando l’enorme patrimonio indiviso tra i figli che, vissuti fino ad allora “in comunione” di beni, con privata scrittura di convenzione stipulata a Firenze il 16 maggio 1829 8 avevano stabilito la divisione dell’asse ereditario paterno e fissato lo stralcio volontario e liquidazione della ditta bancaria, nominando stralcista e amministratore Moisè Graziadio Beer, “antico ed onorato ministro della famiglia Della Ripa”.
Insospettisce che il motivo della morte precoce di Samuele sia taciuto in tutti gli atti notarili, carteggi privati e varia documentazione sulla famiglia Della Ripa trovata da chi scrive: traspare soltanto il dolore della madre Laura che, “giunta l’acerbissima notizia della morte ab intestato del di lei dilettissimo ultimo figlio maschio nubile […], ha stabilito fermamente di voler espressamente ripudiare la detta eredità […]; niun erede volontario ed estraneo può essere obbligato ad accettare un’eredità: […] molto meno potrebbe esservi obbligata una madre, una donna, e quella specialmente che trovasi in molto avanzata età, non bisognosa, e che pei riflessi da essa spiegati coll’accettazione potrebbe correr pericolo di abbreviare la propria esistenza, che è il primo bene” 9. La madre e i fratelli Giuseppe e Laudadio sono coeredi dei molti beni che il defunto Samuele ha lasciato “in piccola parte in Francia, in qualche più rilevante somma in Toscana e nella maggior quantità nello Stato Pontificio” 10. Anche in Francia dunque, oltre che in Toscana, i Della Ripa hanno iniziato fin dal 1817 a mettere al sicuro parte dei loro cospicui capitali, seguendo le nuove abitudini della borghesia mercantile, particolarmente settentrionale, di investire danaro oltralpe, in banche o imprese ben avviate, o di accreditarsi comunque per eventualità di iniziative su quei mercati.
Mentre Samuele emigrava in Toscana, i fratelli Giuseppe e Laudadio continuavano a incrementare a Pesaro la ditta ereditata dal padre, sviluppando una mole di affari e di investimenti che si riflette nel gran numero di rogiti notarili contratti dopo la morte del padre. Rappresentano ormai l’élite economica bancaria non solo pesarese, con un giro d’affari che include, oltre a zone limitrofe (Fano, Urbino, Urbania, Cagli, Ancona, Senigallia, Gubbio, Cesena, Faenza, Rimini), anche piazze come Firenze, Livorno, Pisa, Bologna, Ravenna, Roma, Venezia, addirittura Parigi e Londra. Ampie testimonianze di tale multiforme attività si traggono dalla documentazione notarile, riferita in gran parte a prestiti – che risultano l’impegno prioritario – e investimenti di beni immobili. Comprano palazzi, case, botteghe, fondi rustici e urbani, bestiame e lo stesso jus gazagà, e prestano somme anche molto ingenti a una differenziata clientela: municipi, ditte, enti religiosi, privati, da Giovannino il birocciaio ai nobili pesaresi, quasi tutti loro debitori. I fratelli Della Ripa finiscono per monopolizzare l’attività feneratizia sulla piazza pesarese, acquisendo un ruolo di spicco anche sul mercato immobiliare, poichè l’attività congiunta creditizia e commerciale consente loro numerosi investimenti.
L’acquisto più prestigioso fatto a Pesaro dai Della Ripa è palazzo Mazzolari, per la strada del Duomo: di proprietà del cavalier Francesco Maria Mazzolari, cui è pervenuto per eredità alla fine del Settecento, dallo stesso, carico di debiti e in pieno tracollo finanziario, è messo in vendita; l’acquirente è Moisè Rimini, che se lo aggiudica in asta pubblica “per la offerta somma di romani scudi 7.100” il 25 agosto 1824. Un paio di mesi dopo, dal deliberatario Moisè Rimini il palazzo viene dichiarato di proprietà della “ditta bancaria Salvatore Della Ripa”. Il giovane Moisè di Jacob Vita Rimini, ventunenne “israelita di questa città”, è solo un prestanome dei Della Ripa, come confessa formalmente con una “dichiarazione di buona fede”, rogata il 27 ottobre 1824 dal notaio Giuseppe Andreani con “atto fatto, letto e stipolato in Pesaro nella casa di abitazione de’ Signori fratelli Della Ripa, posta in via de’ Negozianti”:
Espone ancora che, non avendo né mezzi, né volontà di ottare a detto acquisto per sé, doveva solo offrire per la ditta Della Ripa da cui eragli stata data l’incombenza; inscio per altro delle formalità legali, fece egli l’obbligazione pura e semplice in proprio nome, senza enunciare di offrire per persona da nominarsi, per la qual cosa resta egli estrinsecamente riputato il deliberatario di detto fondo, quantunque vi offerisse per la ditta suddetta e dalla medesima ricevesse il prezzo da depositarsi, e nell’atto suddetto di delibera altro non facesse che prestare per lei il puro e semplice suo nome. Ciò stante, si ritrova in dovere di emettere una dichiarazione di buona fede, onde sia palese la verità della cosa e sia salvo in ogni tempo il diritto della ditta […]” 11.
Divenuti proprietari di uno dei più bei palazzi della città 12, progettato nel 1763 da Giannandrea Lazzarini, vi “si stabilirono conducendo vita signorile ed ospitale e primeggiando tra le famiglie della città. Gentiluomini perfetti, erano assai stimati ed amati anche pei loro sentimenti liberali e pel rispetto profondo che professavano verso le altrui opinioni, sì politiche che religiose; tanto che si narra di loro questo curioso particolare: che di domenica non ricevevano alcun contadino se non sapevano che avesse prima adempiuto al precetto di ascoltare la messa” 13. La potenza acquisita tramite l’enorme ricchezza li esonera di fatto dalla costrizione a risiedere nel ghetto, dove possiedono un’antica grande casa d’abitazione – sede della ditta bancaria – separata dal nobile palazzo di rappresentanza solo dalla montata della Ginevra. Sono i soli ebrei di Pesaro a risiedere fuori del ghetto in un palazzo patrizio: quando, più tardi, Leone XII vuole che gli israeliti tornino a vivere segregati dal mondo cattolico, una supplica firmata dalla gran maggioranza dei cittadini pesaresi chiede che i Della Ripa siano esonerati da tale obbligo, ma il pontefice risponde negativamente, e allora i Della Ripa affrettano la decisione, già presa, di trasferirsi da Pesaro a Firenze. In palazzo Mazzolari abitano dunque solo una decina di mesi poiché, seguendo l’esempio del fratello Samuele, anche Laudadio si trasferisce a Firenze nel luglio 1825 e con lui la famiglia del fratello Giuseppe, che vi si trasferisce per ultimo nel novembre dello stesso anno.
A Firenze infatti hanno già impiantato, forse da quando nel 1817 Samuele vi si è trasferito, un’altra casa bancaria: la filiale fiorentina deve aver preso il sopravvento sulla casa madre pesarese, per cui i due fratelli preferiscono raggiungerla e fissarvisi, senza però chiudere né la banca, né la casa di Pesaro dove, alternativamente, continuano a tornare dimorando, uno o l’altro, circa sei mesi all’anno nell’originario domicilio del ghetto pesarese. Del resto nel Pesarese persistono interessi commerciali e cospicui beni fondiari.
Nell’aprile 1826 anche Ester Della Ripa si stabilisce in Toscana con il marito Giuseppe D’Ancona, “negoziante”, sposato l’11 settembre 1813: il padre le aveva dato una dote di 8.000 scudi romani e assicurato un capitale di 7.000 scudi romani pagabili dopo il di lui decesso14. Giuseppe Della Ripa chiede la naturalizzazione toscana nel luglio 1826 e la ottiene il 9 settembre successivo, il fratello la chiede il 29 maggio 1828:
Laudadio Della Ripa negoziante e possidente di Pesaro, servo umilissimo dell’Altezza Vostra Imperiale e Reale, reverentemente espone come essendosi riunito alla sua famiglia domiciliata ne’ felici Stati dell’Altezza Vostra Imperiale e Reale fino dall’anno 1825, fu questa graziata della naturalizzazione toscana mediante un benigno rescritto datato 9 settembre 1826. Implora quindi esso pure di essere ammesso nel numero de’ fortunati sudditi dell’Altezza Vostra Imperiale e Reale.
Leopoldo II il 27 giugno 1828 emette un sovrano rescritto: “Fermo stante l’obbligo del permanente domicilio nel Gran Ducato di Toscana, concedesi al supplicante Laudadio Della Ripa di Pesaro la naturalizzazione toscana” 15.
Il trasferimento dei Della Ripa a Firenze rientra in una generale emigrazione degli ebrei dallo Stato Pontificio verso altre destinazioni (Veneto, Parmense, Toscana, piccoli centri tessili del territorio sabaudo) che garantiscano condizioni civili di esistenza e orizzonti economico-finanziari più vasti. La decretazione antiebraica di Leone XII culmina nel 1826-27 con la riproposizione degli antichi rigori dell’”editto sopra gli ebrei”, emanato da Pio VI nel 1775, e provoca una diffusa emigrazione delle famiglie israelitiche più facoltose appartenenti all’élite mercantile ebrea dallo Stato della Chiesa.
Anche dal Pesarese sono in parecchi ad andarsene, con impoverimento del ghetto ma anche con durevoli danni per l’economia cittadina. Sollecitato dalle stesse comunità ebraiche, allarmate e impoverite, Leone XII impone nel 1826 un “tassa di emigrazione”: gli ebrei che emigrano dovranno pagare, a beneficio del ghetto che abbandonano, una tassa del due per cento sui capitali “che volessero all’estero trasportare di qualunque genere ed in qualunque tempo”. E’ una tassazione consistente, raffrontata con la normale tassa del due per mille pagata dagli ebrei per i capitali posseduti nello Stato pontificio, a norma del regolamento16 che dal 1696 disciplina la ripartizione degli oneri fiscali nel ghetto di Pesaro. Tanto più gravosa per i Della Ripa, i cui capitali esportati assommano nel 1835, secondo i deputati della comunità ebraica pesarese, alla straordinaria cifra di almeno 600.000 scudi 17.
Decisa è la reazione di Giuseppe Della Ripa, che il 27 ottobre 1836 scrive da Firenze al cardinale Tommaso Riario Sforza, legato di Urbino e Pesaro:
L’università israelitica di Pesaro spiega a carico della famiglia Della Ripa le recenti disposizioni venute dalla Dominante relative alla tassa del due per cento imposta sugli emigranti israeliti dallo Stato pontificio. La mia famiglia non va soggetta a questa tassa per le seguenti ragioni:
1° Essendo la famiglia partita da Pesaro in luglio e novembre 1825, come da autentico certificato, e i dispacci governativi essendo del 27 settembre 1826 e 8 marzo 1827, non avendo le leggi forza retroattiva, non è ad essa applicabile la tassa medesima.
2° Perché dispongono i due dispacci suddetti che lasciando gli emigranti (e non dice emigrati) casa aperta, non sono tenuti alla tassa, e i Della Ripa avendo tenuto sempre casa aperta, come tengono tuttora, anche ciò implica a loro favore.
3° Perché i Della Ripa non hanno mai lasciato di pagare i pesi ordinari e straordinari imposti dall’università […] ed hanno pagato ancora tanto sotto il sistema delle offerte gratuite che ebbe principio nel 1821 e che ebbe termine nel 1832 […], quanto sul sistema delle tasse che dalla detta epoca del 1832 in poi è in attività.
4° […] i Della Ripa pagano a quella di Pesaro per quei capitali soggetti a quella università, e sebbene il suo patrimonio sia diviso in due Stati, nondimeno pagano all’università di Pesaro la somma stessa che pagavano prima del loro stabilimento in Firenze e dal 1832, in cui si passò al sistema delle tasse, hanno pagato la medesima somma superiore ancora ai capitali che hanno presentemente soggetti alla università suddetta, e ciò onde non recare danno alla medesima.
Da tutto ciò si rileva che assurde sono le pretese della università contro la famiglia Della Ripa, ma la medesima ingrata di quanto essa opera, anche in altro modo, in beneficio di quegli indigenti, non lascia di inquietarla da tanti anni, e ora più che mai […].
Io mi appello alla sapienza e all’alta giustizia dell’eminenza vostra reverendissima, onde supplichevolmente ottenere, se non il ritorno della traviata università alla ragione, perlomeno di concedermi la grazia di accordarmi un tempo opportuno per fare tessere una memoria da qualche onesto legale, che per la circostanza delle autunnali vacanze non è facile da ritrovare, sospendendo intanto questa mano regia, tanto più che per i Della Ripa si rende inutile, avendo nella provincia tanti beni stabili da saziare l’avidità di questa inonesta università. 18
Nel 1826 e ‘27 due dispacci governativi prima escludono dalla tassa del due per cento l’emigrante che lasci aperta la casa di proprio jus gazagà, poi annullano questa limitazione. Quando la comunità ebraica di Pesaro ottiene dal legato l’autorizzazione ad adire le vie legali, affidandosi all’avvocato Cesare Stefani, gli israeliti emigrati passano al contrattacco delegando la difesa delle loro ragioni ad esperti avvocati: il più celebre è Carlo Armellini 19, esimio civilista e futuro triumviro della Repubblica romana, che rappresenta i Della Ripa.
L’arringa dell’Armellini in difesa dei Della Ripa 20, senza data, è anteriore all’11 luglio 1836, data del protocollo d’arrivo in legazione. Il 9 novembre successivo i Della Ripa scrivono anche al cardinale Gamberini – segretario per gli affari di Stato interni – che
un dottissimo Voto pronunciato per sentimento di verità dall’esimio giureconsulto signor avvocato Armellini ed esibito alla legazione, mostrò essere nonché un’ingratitudine, ma una stravaganza, una pazzia, un’ingiustizia la più solenne la pretesa dell’università di Pesaro, dappoichè la legge della santa memoria di Leone XII, che colpì della tassa di emigrazione del 2 per % gl’israeliti emigranti sui capitali che fossero per estrarre, escluse pur quelli che nella loro patria continuassero a tenere per loro conto le proprie case, cioè non l’alienassero, né l’affittassero. Ed i fratelli Della Ripa non solo non alienarono, né affittarono mai l’ampia loro casa in Pesaro, ma la tennero sempre aperta all’abitazione della genitrice, della zia, de’ famigliari, degl’impiegati allo scrittoio e di loro stessi nei molti mesi che facevano ritorno al loro luogo natio. Non basta la detta legge, ancorché non li avesse posti in una eccezione, non avrebbe neppur mai potuto percuoterli, perchè quando fu emanata si erano già essi molto tempo prima trasferiti colle persone e con parte de’ loro capitali in Firenze, sicchè per quell’irrefragabile principio che la legge non può aver effetto retroattivo avrebbero avuto sempre diritto di esserne dispensati. In fine, e con motivi di fatto e di diritto, fu fino all’evidenza provato che i Della Ripa col loro trasferimento in Firenze non avevano per questo perduto il loro domicilio d’origine, non potevano quindi considerarsi emigrati ed in conseguenza tanto più emergeva assurda, nonché inammissibile la domanda dell’Università. 21
Nelle lettere sono sintetizzati i “motivi di fatto e di diritto” dell’arringa dell’Armellini, densa di dottrina giurisprudenziale, che considera con rispetto e civile disinvoltura i clienti che difende contro l’assurdità di una legge che retroagisce e concentra tutte le ragioni nel malessere degli ebrei fin dai primi tempi della restaurazione, pesante nei loro confronti soprattutto nello Stato pontificio, “quando la condizione dei professori di questo culto rese ai medesimi non molto piacevole la dimora nel nostro Stato ed invitò i più opulenti ed agiati della loro comunione a ricercare una protezione più favorevole ed una tolleranza più umana in regioni straniere”.
Non era semplice, prima del 1848, parteggiare per gli ebrei, neppure con la copertura di una professione come l’avvocatura 22: Armellini sembra allinearsi con un’ardita lettera scritta il 20 maggio 1827 da Pietro Giordani, l’amico di Leopardi, in difesa dell’avvocato Giovanni Vicini, punito col carcere e con un’ammenda pecuniaria per avere difeso un ebreo in una questione d’eredità, e precedere lo scritto pro-israelitico Dell’emancipazione civile degli ebrei pubblicato da Massimo D’Azeglio a Firenze nel 1847-48.
Il 12 novembre 1836 il cardinale Gamberini invia al legato di Urbino e Pesaro la “nuova supplica” dei fratelli Della Ripa, “facendo intanto sospendere qualunque atto a danno de’ medesimi”. Poi, l’intricata causa, emblematica di analoghe situazioni, viene troncata da Gregorio XVI, il quale “dichiara che i detti fratelli Della Ripa come non compresi nella disposizione della detta legge non siano ulteriormente molestati pel pagamento della tassa di emigrazione”, come comunica il 7 febbraio 1837 la segreteria di Stato 23. Due giorni dopo, a stretto giro di posta, Giuseppe e Laudadio Della Ripa da Firenze ringraziano il cardinale legato:
Con l’ordinario di questa mattina riceviamo dalla Dominante la lieta notizia che è piaciuto alla sovrana clemenza di Sua Santità concedere favorevole prescritto alle preci da noi umiliate al Trono, sul proposito della tassa di emigrazione contro noi promossa dall’Università Israelitica di Pesaro. Per la parte che l’Eminenza Vostra Reverendissima deve prendere alle cure che le sono sottoposte, sentiamo il bisogno di manifestare all’Eminenza Vostra Reverendissima la nostra rispettosa riconoscenza per la saviezza, imparzialità e retta giustizia con le quali l’Eminenza Vostra Reverendissima si è degnata di prendere in esame la controversia. Noi non mancheremo giammai di serbare nell’animo nostro la più cara riconoscenza, supplicando l’Eminenza Vostra Reverendissima di averci per i più devoti servitori, e ci chiameremo fortunati se ci sarà dato di ricevere dei comandi dall’Eminenza Vostra Reverendissima, onde dimostrare coi fatti la nostra gratitudine, ossequio e profonda venerazione […]” 24
A riprova della persistenza del domicilio pesarese dei banchieri, nonostante la naturalizzazione toscana, l’avvocato Armellini affermava che “lungi dall’essere stati considerati come stranieri o emigrati, essi si qualificano come domiciliati in Pesaro, specialmente nel solenne Inventario che fu fatto in occasione della successione di Samuele”, dopo la formale rinuncia della madre alla sua parte di eredità 25. In tale occasione, infatti, un notaio redige l’inventario dell’intero patrimonio Della Ripa 26, 224 pagine da cui balzano con evidenza gli estimi di fondi rustici ed urbani, bestiami, derrate e generi alimentari, case coloniche, magazzini, fabbricati, locande, palazzi, crediti sopra i coloni, ecc. Proprietari di una cinquantina di appezzamenti nei territori di Pesaro, Fossombrone, Cartoceto, Saltara, Cerasa, San Giorgio, Candelara, Montelabbate, ecc., i Della Ripa denotano un forte attaccamento alla terra, fatto nuovo per degli ebrei nelle Marche, e un irrinunciabile legame ad una plaga produttiva modesta quale il Pesarese: “I signori Della Ripa in Pesaro appunto hanno la sostanza più cospicua e preziosa del loro patrimonio, i beni stabili. Né anche una zolla essi possiedono all’estero. La casa di loro proprietà […], i fondi, i bestiami, che ne formano la dote, e il corredo si trovano solo in Pesaro. E si vorranno considerare per fuorusciti, per esteri, per emigrati?” si chiedeva l’avvocato Armellini.
Fuori Pesaro possiedono: una locanda a due piani a Lucrezia sulla Flaminia, tre case a Orciano, una casa con orto e stalla a Gubbio e un palazzetto a Fano posto nella parrocchia di sant’Antonio Abate, valutato per un estimo di 1.625 scudi; nella stalla c’è “una cavalla domenicale” usata dal fattore che ha in custodia la casa.
Gli stabili posseduti a Pesaro sono l’ex palazzo Mazzolari, valutato per un estimo di scudi 3.937,50 con magazzino annesso e una grande casa di abitazione nella contrada grande del recinto israelitico, con l’ingresso principale sulla strada maestra di porta Sale, valutata per un estimo di scudi 2.365: sorge ad angolo tra via di Porta Sale e la strada dei negozianti o del ghetto grande, “dirimpetto alla montata della Ginevra” 27. Il primo piano è composto da una ventina di stanze, di cui una decina costituiscono “lo scrittoio de’ loro affari bancari e mercantili, non che quello di amministrazione de’ beni rustici ed urbani, e serve di locale agl’impiegati che sono addetti ai rispettivi esercizi”. E’ una casa piena di pregevoli mobili, la cui descrizione richiede sei sessioni dell’inventario, che analiticamente elenca anche “i letti, gli arnesi di cantina e di cucina, la biancheria da tavola e da letto, l’argenteria usuale, il tutto di non mediocre valore”. Per la stima dei mobili si sceglie il rigattiere Antonio Magi, per gli argenti il pubblico orefice Emanuele Rossi, per i preziosi il pubblico gioielliere Girolamo Scacciani, figlio del pittore Giacomo detto Carbone 28. Tra l’argenteria da tavola e d’arredo, il cui valore viene stimato in 747,17.5 scudi, sono inventariati anche “una corona e due piramidi con campanelli per ornamento della Sacra Bibbia del peso in tutto once 193 e 4 ottave” e “un fornimento di circoncisione del peso once 116”. Le “gioie” sono innumerevoli e di ogni tipo, sia sciolte che montate in gioielli e monili: perle, brillanti, diamanti, smeraldi, rubini, zaffiri, topazi, ametiste, cammei, ma il perito precisa che “le indicate perle sono scadenti, colorite e fondi di partite, ed in merito ai brillanti, diamanti ed altre pietre preziose sono della medesima condizione”.
Mobili, argenti e preziosi sono lasciati in custodia a Pietro Mengaroni, entrato “fin dalla sua tenera età in qualità prima di scrittore, poi di agente e commesso di affari al servizio della già cessata ditta […] Salvatore Della Ripa” 29. Pur avendo sperimentato la generosità dei suoi datori di lavoro che, oltre ad un buon stipendio mensile, lo gratificano con elargizioni extra per un totale di 1.000 scudi, come risulta da sue lettere di ringraziamento 30, “pressato da bisogni urgentissimi si permise di far delle pratiche onde ottenere nuove elargizioni dai signori Della Ripa, i quali rimasero ben disgustati nel prender notizie delle strane ed esagerate pretese proposte dal Mengaroni con la mediazione di alcuni suoi protettori, quali pretese giungevano persino a reclamare una cospicua pensione a vita” 31. Giunto a dimettersi e ad intentare causa ai suoi titolari, è ben presto costretto “a riconoscere il proprio torto” rinunciando alla causa intrapresa: perde il posto, ma riceve dai Della Ripa un’ulteriore gratifica e il condono di un credito, purchè non li molesti più.
Nell’inventariazione degli arredi vengono elencati anche una quindicina di “rami su carta”, alcuni quadretti su pietra, avorio e lavagna e ventidue quadri: nelle stanze dello scrittorio erano collocate incisioni raffiguranti Giuseppe Monti, Giulio Perticari, di cui c’era anche un semibusto di gesso, il cavalier Onori, il conte Giovanni Roverella di Cesena, Bacco, la “carità romana”; carte geografiche, di cui otto in rotolo senza cornici, le altre con le piante di Pesaro e Fano e nove fondi rustici dei Della Ripa. Arredavano le pareti delle stanze dello scrittorio “un quadretto in lavagna rappresentante la penitenza del figliol prodigo del Fiammingo”, “un quadro in legno rappresentante il ritratto di un giovane, di autor classico, altro quadro in tela rappresentante un guerriero del Fiammingo” 32; la camera di Giuseppe Della Ripa, al primo piano, era abbellita da “due rami bislunghi in carta, uno rappresentante il sole e l’altro la luna, con molte figure e cristallo avanti e cornige di ceraso, in bonissimo stato, scudi quindici; altro più piccolo rappresentante Apollo, con cornige simile e cristallo rotto, scudi quattro; due vedute campestri con figurine, cornici simili e cristallo avanti, in ottimo stato, scudi sei; quattro quadri ovali, uno rappresentante Dafni e figlio e l’altro Dafni e Amore e gli altri due i primi navigatori, tutti con cornige eguali alle altre, con cristallo avanti, in ottimo stato, scudi sei; altro più piccolo rappresentante Ercole, uno scudo e baj venti” 33.
La presenza di numerosi quadri in casa Della Ripa va interpretata non solo come arredo e status symbol, ma anche investimento e tesaurizzazione di prestiti su pegni, alla stregua del Monte di pietà, come documenta la dichiarazione sottoscritta il 28 dicembre 1819 34 dall’avvocato Ubaldo Valaperta, che aveva ricevuto un prestito di 100 scudi da restituire entro sei mesi: “A cautela poi della suddetta ditta consegno contestualmente alla medesima, come pegno convenzionale, un quadro rappresentante, quanto si crede, il ritratto di Raffaele d’Urbino 35, che si suppone fatto da lui medesimo, e nel caso che alla scadenza surifferita non fossi io puntuale alla restituzione del grazioso mutuo, sarà in diritto della ditta medesima l’esercitare sopra del quadro quell’azione che si prescrive dell’attuale codice di procedura civile, relativamente ai pegni convenzionali” .
Poiché quasi tutta la nobiltà pesarese, che racchiudeva nei palazzi aviti quadrerie più o meno consistenti, era cliente assidua della banca Della Ripa, i quadri potevano essere una tipologia di pegni molto usata, gradita sia ai titolati debitori, che ne hanno tanti, sia ai banchieri israeliti, in grado di apprezzarne il valore economico, artistico e decorativo.
Tra i “debitori in conto corrente” figurano numerosi ebrei di Pesaro (Isach Bono, Isach Foligno, Giacomo Beer, Jacob Vita Rimini, Vito Volterra, Jacob Vita Murgi), ebrei pesaresi residenti altrove (Laudadio Gentilomo in Venezia), ebrei di altre città (Alessandro Bolaffi di Pisa, Gioachino Galligo di Ancona, Isach Galligo di Senigallia, Giuditta Coen D’Ancona in Venezia); i nobili pesaresi Odoardo e Giuseppe Macchirelli, Domenico Paoli, Francesco Bonamini, Giovanni Giangolini, monsignor Angelo Olivieri; e tanti altri di altre città, fra cui Gubbio, Forlì, Bologna, Roma, Livorno, Londra e Parigi. Tra i moltissimi che hanno contratto cambiali con i Della Ripa, i nobili pesaresi Giuseppe e Anna Zanucchi, Pietro Petrucci, Luigi, Terenzio e Massimo Ciacchi, Vittoria Mosca, Francesco Baldassini, Lavinio e Giovanni Spada, Gordiano Perticari, Alessandro Olivieri; gli ebrei Amadio Bolaffi, Moisè Gentilomo, Lelio, Isach Raffaele e Giuseppe Foligno, Felice ed Angelo Coen, Samuel Donati, David D’Ancona, Laudadio e Giovanni Galligo, Bonaiuto Coen Vitali, Elia Sabato Zahan, Moisè Vita Rimini, la stessa università israelitica di Pesaro per un prestito di 150 scudi, ma anche il comune di Pesaro per un’obbligazione di 500; tra le persone che lavorano con o per i Della Ripa, il loro agente Mosè Graziadio Beer, il loro commesso d’affari Pietro Mengaroni, il perito gioielliere Girolamo Scacciani, i notai Pompeo Fallagrassa e Luigi Perotti, che rogano spesso sia per la famiglia che per la banca; si possono ancora citare il principe Astorre Ercolani di Bologna e il barone Bartolomeo Pergami amante di Carolina di Brunswick, che con lui ha soggiornato a Pesaro dal 1817 al 1820.
Tra le “passività della ditta Della Ripa” sono registrati due canoni annui perpetui di jus gazagà, uno di 6 scudi a favore dell’eredità Cattani e l’altro di 5 scudi a favore di Carlo Francesco Montani, entrambi poi affrancati dai banchieri ebrei.
Il dominio diretto della casa, riunito all’utile dominio, quindi l’assoluta e piena proprietà sarà acquistata nel 1874 dai figli di Giuseppe Della Ripa, i fratelli Zaccaria ed Ezechia Cesare, ormai domiciliati stabilmente a Firenze, al prezzo di affrancazione di 500 lire pagato al cavalier Filippo Benvenuti di Roma 36, cessionario del conte Alfonso Montani, a cui il canone era pervenuto per titolo ereditario paterno 37. All’antica abitazione nel vecchio ghetto i Della Ripa, pur risiedendo ormai a Firenze, continuano dunque a far riferimento, continuando a tener “casa aperta” nella patria d’origine: lì ha vissuto il capostipite Salvatore, con la moglie Laura Gentilomo, che vi muore il 13 gennaio 1833; lì muore il 13 maggio 1834 la zia Rachele, vedova di Mosè Consolo Recanati; i fratelli Giuseppe e Laudadio Della Ripa, anche dopo il trasferimento a Firenzee, in periodi diversi vi abitano per molti mesi all’anno perché un patrimonio così cospicuo comporta una presenza e un controllo assidui da parte dei titolari.
L’antica grande casa nel ghetto è venduta nel 1881 a Giuseppe Viterbo 38; palazzo Mazzolari, pervenuto a Laudadio nel 1841 per divisione ereditaria dopo lo scioglimento della ditta “Salvatore Della Ripa” in conto di parte dei beni a lui spettanti 39, l’anno seguente è venduto alla marchesa Vittoria Mosca “per un sacco d’ossa”, 6.300 scudi romani 40.
Il legame con la città natale è documentato anche dal carteggio – 74 lettere, di cui una cinquantina scritte da Laudadio – conservato nella Biblioteca oliveriana di Pesaro. Datate tra 1814 e 1846, per la maggior parte da Firenze, sono indirizzate a illustri esponenti della Pesaro del tempo: Giuseppe Mamiani, Francesco Baldassini, Pietro Petrucci, Francesco Cassi, Giulio e Gordiano Perticari, Domenico Paoli, una nobiltà ormai in declino e quindi bisognosa dei prestiti dei banchieri ebrei, di cui però sono anche amici sinceri, come si desume dalle lettere, che testimoniano frequentazioni, interessi e gusti comuni. Piccoli episodi di quotidiana familiarità dimostrano che tra i banchieri israeliti e i nobili letterati pesaresi c’è un rapporto antico, basato su rispetto e stima. Da Firenze i Della Ripa inviano libri, novità del progresso, le ultime stravaganze della moda per le nobildonne e i nobiluomini pesaresi, che dalla provincia ricambiano con i prodotti alimentari delle campagne e dell’Adriatico.
Il 28 gennaio 1830 Laudadio scrive da Firenze a Pietro Petrucci di avere spedito da Bologna “la cassetta contenente il cappello di seta per l’egregia di lei signora, e gradirò di sapere che siale giunto e che piaccia alla signora marchesa. In seguito poi le manderò la nota del conto” 41; il marchese ricambia con del buon vino, che il Della Ripa gradisce: “accetterò la spedizione di vino per la discreta quantità che vorrete destinarmi e potrete mandarla a Livorno […] indicandomene l’importo” 42.
La serie più consistente del carteggio è costituita dalle 34 lettere scritte tra 1828 e 1845 da Laudadio a Giuseppe Mamiani, con il quale la frequentazione deve essere stata più confidenziale che con gli altri, come si desume dal numero e dal tono delle lettere: “appena entreremo in primavera io conto di ritornare costà e di passare lietamente qualche ora in compagnia vostra e degli altri nostri amici” 43. “Anziché ricondurmi per ora a Pesaro, penserei di fare un viaggetto in Lombardia […]. Se a voi non rincresce la mia compagnia, io mi terrei ben fortunato che volessimo unirci in codesta gitarella, e perché la villeggiatura vi tornasse più lieta, inviterei con noi mio nipote Zaccaria per il quale voi aveste tanta bontà allorché tornò recentemente a Pesaro” 44. “Voglio dare a voi il predio che bramate e ammetterò le condizioni che chiamate meschine, sicuro che vi piaccia di pagarlo quel che vale […]. Io non chiedo che il giusto valore, ammetto le condizioni da voi fissate e amo di preferirvi ad ogni altro, perché meritamente avete la preferenza nel mio cuore” 45. Dalle lettere a Mamiani emerge anche il comune interesse per la musica “unica arte che oggi è in gran voga” 46 e i cantanti: “se volete farmi un dono preziosissimo, venite qui a sentire la Pasta che canta come un Dio” 47. Col fidato amico Mamiani, Laudadio si sfoga anche di una “sventura” sottaciuta agli altri corrispondenti; se in una lettera del 24 febbraio 1833 da Venezia l’accenno è ancora larvato (“Passerò in silenzio la causa che tanto mi ha trafitto l’anima, onde non rendermi a voi molesto, né riaprirmi una piaga non ancora cicatrizzata” 48), due anni dopo, l’8 luglio 1835, in un’altra da Venezia, lo sfogo esplode dirompente:
Sapete che l’università israelitica di Pesaro mi vo’ per forza dichiarare emigrato, nel concetto di rubare alla mia città una grossa somma, in appoggio dell’editto leonino che condanna gli israeliti emigrati sotto il suo regno, alla multa di 2 per % scudi sui capitali esportati dallo Stato. Ma la mia famiglia non ha mai dichiarato il suo espatrio, né i quattro gatti arrabbiati de’ miei avversari possono contarmi a pagare come emigrato finchè continuerò a soddisfare le tasse che mi sono inflitte dall’Università, ancorché mi sieno pesanti e non esista più la banca sulla quale è fondato il tributo. Credo che l’eminentissimo legato rigetterà sdegnosamente la nefanda scemenza e questi avvoltoi birboni se n’andranno svergognati come meritano. […] amicone mio […] mille cose affettuose per ora a nostri amici di Pesaro 49.
Dalle lettere emergono rapporti d’amicizia con Costanza Monti Perticari, Vincenzo Monti e Giulio Perticari, delle cui “affezioni ipocondriache” Laudadio si dice “preoccupato”. L’immagine della frizzante Costanza balza nitida da una lettera a Giuseppe Mamiani datata Genova 21 luglio 1834: “Soggiornai a Milano 15 giorni e mi divertii girando per quei contorni veramente deliziosi. Andai anche a visitare i monumenti rari di quella capitale ed in Brera mi trovai un giorno colla Costanza e con mio nipote […] e nella Pinacoteca si vide un ritratto che v’assomiglia per eccellenza, e si parlò di voi con meritata lode e la Costanza soggiunse che avete mente e molto accorgimento. Oh quanto avrei desiderato d’aver in Milano la vostra lettera per farle leggere i saluti che le mandate e che ben so come li avrebbe graditi!” 50.
Laudadio muore il 13 aprile 1869, senza figli 51. Era molto affezionato ai nipoti, a cui accenna spesso nelle lettere: Zaccaria ed Ezechia Cesare, figli del fratello Giuseppe e di Allegra Morpurgo; Sansone, Prospero ed Alessandro, figli della sorella Ester e di Giuseppe D’Ancona. Zaccaria, Cesare e Sansone sono gli eredi dello zio, in base al suo testamento dell’8 gennaio 1864 a rogito del notaio Luigi Santoni di Firenze.
I fratelli Della Ripa, trasferitisi a Firenze, avevano continuato ad occuparsi di affari, tra gli altri, fornivano legnami da costruzione all’Ammiragliato inglese, quando la quercia di Romagna era reputata il miglior materiale per la costruzione di vascelli. La famiglia Della Ripa è parte attiva anche nei fatti che preparano l’unità italiana; Laudadio fa della sua casa fiorentina, a palazzo Friulani in via Sant’Egidio, un centro frequentazione per patrioti devoti alla causa nazionale: tra i suoi commensali assidui, l’avvocato Ferrari di Reggio, Vincenzo Salvagnoli, il principe Caetani duca di Sermoneta, Luigi Carlo Farini.
E’ in questo ambiente che la nuova generazione dei Della Ripa matura la sua educazione e partecipazione politica: il 14 ottobre 1846 Cesare Della Ripa, secondogenito di Giuseppe, inizia in Firenze, con Carlo Fenzi, una sottoscrizione nazionale con “solenne invito a tutti gl’Italiani perché unitamente concorrano a offrire” 52 un’oblazione non superiore ad una lira per fare omaggio di una spada d’onore a Giuseppe Garibaldi, generale della legione italiana a Montevideo, una medaglia d’oro al capitano Anzani, una medaglia d’argento a tutti i legionari. Per diffondere la sottoscrizione tra i pesaresi, Cesare Della Ripa la invia al conte Giuseppe Mamiani insieme ad una lettera, senza luogo né data, ma allegata a quella inviata dallo zio Laudadio allo stesso Mamiani da Firenze il 5 aprile 1845:
Pregiatissimo signor conte, benché da lungo tempo io non abbia avuto il vantaggio di vederla, pure voglio sperare che il mio nome non le giungerà affatto nuovo. Accluso alla presente ella troverà un opuscolo pubblicato qui dal colonnello Laugier all’oggetto di far conoscere gli alti fatti di un pugno d’Italiani militanti in Montevideo, come pure un manifesto di soscrizione diretto a fare una nazionale manifestazione di lode a quei bravi. E’ troppo conosciuto il suo bell’animo ed il sentimento di amor patrio che ella mostra perché mi sia dato di dubitare che ella vorrà con ogni suo potere dar opera perché una così generosa idea possa aver una pronta e piena esecuzione. […].
P.S. Rimetto alla sua prudenza la scelta dei mezzi più idonei a farmi pervenire l’ammontare delle somme che le verranno fornite dalla buona volontà dei nostri Pesaresi” 53.
Durante la prima guerra d’indipendenza Cesare Della Ripa si arruola nella legione toscana e col grado di sottonente e le funzioni di aiutante in campo del generale Cesare De Laugier prende parte a quella campagna in cui si svolgono i combattimenti di Curtatone e Montanara. Nel 1859 ospita, nella sua villa di Carreggi, il cognato Augusto Vecchi – ufficiale di marina e scrittore con lo pseudonimo di Jack La Bolina – recatosi in Toscana per promuoverne l’annessione all’Italia subalpina, d’accordo con Giuseppe Dolfi, amico di Garibaldi e Mazzini. L’attività patriottica di Cesare Della Ripa viene continuata da Sansone – deputato al Parlamento italiano -, Prospero ed Alessandro d’Ancona, cugini di Cesare, che si ritira a vita privata attendendo all’educazione della prole ed a raccogliere antichi oggetti d’arte, di cui è appassionato collezionista.
Una della figlie di Cesare, Paola Valentina Della Ripa, nata nel 1864 a Firenze, dove viveva con larga reputazione di donna colta e gentile, muore improvvisamente il 6 novembre 1907 a Orciano, dove possedeva una tenuta in cui passava alcuni mesi dell’anno: con lascito testamentario dispone che gli oggetti antichi collezionati dal padre – quadri, mobili, porcellane, ecc. – diventino proprietà del Comune di Pesaro, rendendo omaggio “al degno suo genitore non meno che alla città, di cui la sua famiglia aveva conservato sempre il più gradito e caro ricordo” 54. La stima degli oggetti d’arte costituenti il lascito ascende a 11.000 lire; le spese per la tassa di successione e per la consegna sono a carico dell’erede – sorella della testatrice – “che nel corso delle operazioni di inventario ha usato verso il comune legatario la massima larghezza” 55.
Nella seduta consiliare del 27 novembre 1907 per l’accettazione del lascito Della Ripa, il sindaco Angelo Recchi pronuncia la commemorazione della benemerita testatrice, manifestando “alla sorella della defunta le proprie condoglianze insieme con i ringraziamenti per la larghezza dei modi con i quali ha voluto trattare il nostro Comune” 56.
Tra i consiglieri comunali c’è anche Vincenzo Toschi, marito della marchesa Vittoria Mosca che, defunta nel 1885, con lascito testamentario aveva donato al comune di Pesaro collezioni e arredi del suo palazzo. Ventidue anni dopo, Paola Valentina accresce il nucleo iniziale del museo Mosca con la donazione Della Ripa, tuttora presente fra le collezioni dei Musei civici, dove tre pregevoli dipinti cinque-seicenteschi provengono dalla quadreria Della Ripa: la Sacra famiglia con San Giovannino (foto 1) attribuito a Filippo da Verona, Cristo deriso (foto 2) di Trophime Bigot e La pollarola (foto 3) della bottega dell’Empoli 57.
1 Asp, Lettere a Mosè Della Ripa, in Senigallia, 1702-03.
2 Asdp, Stati d’anime, b. 67, “ghetto”, non datato ma trovato tra i fascicoli del 1747: comunicazione del direttore dell’Archivio storico diocesano di Pesaro, don Igino Corsini, che ringrazio.
3 Ascp (in Bop), già Officio dell’estimo, sec. XIX, città, Repubblica Cisalpina, caseggiato, II e 14, cc. n. n..
4 Asp, Np, notaio Agostino Bessi, 1794-97, 19 gennaio 1797, cc. 136r-138v.
5 Cfr. R. P. Uguccioni, Note sulla comunità ebraica di Pesaro nel secolo XIX, in “Pesaro città e contà”, 7, 1996, p. 91. Altre notizie sui Della Ripa in Id., La comunità ebraica di Pesaro dopo la restaurazione, in “Pesaro città e contà”, 3, 1993, pp. 21 – 33.
6 Asp, Np, notaio Agostino Bessi, 1819, 17 maggio 1819, cc. 114r-115v. Si tratta del palco 5 del secondo ordine.
7 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1830, XV, allegata al rogito del 12 gennaio 1830, c. 5 r-v.
8 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1829, II, inserita nel rogito del 23 settembre 1829, cc. 161r-162v.
9 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1830, XV, 12 gennaio 1830, cc. 1r – 4r.
10 Asp, Da, tit IX misc., b. 28, Ebrei 1834-53, Stato generale de’ capitali che si stimano asportati dallo Stato Pontificio all’estero dagl’infrascritti emigrati, compilato da noi sottoscritti deputati pro tempore incaricati a tal uopo dall’attuale Consiglio israelitiio di Pesaro nella congregazione tenuta il dì 23 aprile 1835, voce “Della Ripa Giuseppe e Laudadio”, cnn.
11 Asp, Np, notaio Giuseppe Andreani, 1824, II, 27 ottobre 1824, cc. 151v.
12 Su cui si veda G. Calegari (a cura di), Palazzo Mazzolari Mosca, Pesaro 1999.
13 Ascp, Atti consiliari, 1907, 27 novembre, delibera n. 178, p. 638.
14 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, rogiti del 30 novembre 1814 e 19 dicembre 1822. A Ester sono attribuiti 15.000 scudi esportati e al marito quasi 2.500 “che in più la deputazione non volle far ascendere per alcune disavventure avvenute nel suo commercio”, Stato generale de’ capitali cit., voce “D’Ancona Giuseppe”, cc. n. n.
15 Asp, Da, tit IX Misc., b. 28, Ebrei 1834-53, cnn.
16 Capitoli e regole da osservarsi dagli ebrei di Pesaro nel ripartire i pesi dell’Università, approvato nel 1696 dal legato di Urbino, card. Fulvio Astalli
17 Stato generale de’ capitali cit., voce “Della Ripa Giuseppe e Laudadio”.
18 Asp, Da, tit IX Misc., b. 28, Ebrei 1834-53, cnn.
19 Cfr. Dizionario biografico degli Italiani, vol. 4, Roma 1962, pp. 228-229.
20 Si tratta del Voto per la verità sul preteso diritto di esigenza dai membri della ditta Della Ripa della tassa di emigrazione, in Asp, Da, tit IX Misc., b. 28,. Ebrei 1834-53, ms. rilegato, pp. [91]. Cfr. W. Angelini, Carlo Armellini a difesa di ebrei pesaresi, in “Atti e memorie” della Dep. st. p. Marche, 1971-73, Ancona 1974, pp. 249-266.
21 Asp, Da, tit IX Misc., b. 28,. Ebrei, cit.
22 Intorno al 1840 la politica antiebraica della gerarchia ecclesiastica è così intollerante, specialmente in tutti i centri marittimi marchigiani e anche in località padane, da provocare la Mediazione del barone Rotschild di Vienna nel 1843 presso Gregorio XVI a favore delle Comunità Israelitiche di Ferrara, Pesaro, Senigallia, Ancona, in Archivio della Comunità ebraica di Ancona.
23 Asp, Da, tit IX Misc., b. 28, Ebrei, lettera del card. Gamberini, segretario per gli affari di Stato interni, al card. Riario Sforza, legato di Urbino e Pesaro, Roma 7 febbraio 1837.
24 Asps, Da, tit. IX Misc., b. 28, Ebrei, 1834-53, fasc. 28, cnn.
25 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1830, XV, 12 gennaio 1830, cc. 1r – 4r.
26 L’inventario in Asp, Np, notaio Francesco Carlo Gentilini, 1830, XI, 1 febbraio-30 settembre 1830, cc. 87r-311v.
27 L’ubicazione ed estimo della casa d’abitazione dei Della Ripa è registrata nel Catasto delle case di Pesaro del 1793 (Ascp, già Officio dell’estimo, sec. XIX, città, Repubblica Cisalpina, caseggiato, II e 14, cnn.), nel Registro censuario delle case della città di Pesaro fatto nel giugno 1809 (Ibidem, sec. XIX, città, caseggiato, XIII e 5, cnn), nell’Elenco degl’Israeliti dimoranti in Pesaro compilato da me Andrea Putajoli abbate di S. Nicolò nell’anno 1840 (Asdp, Stati delle anime, b. 67, “ghetto”, cnn), nell’elenco della Popolazione israelita in Pesaro nell’anno 1868 (ivi), dove la casa Della Ripa vacat, perché non è più abitata da tempo; nel Catasto dei fabbricati del 1870 (Asp, Comune di Pesaro, Catasto dei fabbricati, registro delle partite, vol. 2, partita n. 370, p. 164, voce Della Ripa), dove risulta costituita da 5 piani e 46 vani, come nell’inventario del 1830.
28 Cfr. D. Bonamini, Abecedario degli architetti e pittori pesaresi, a cura di G. Patrignani, in “Pesaro città e contà”, 6, 1996, pp. 137 -138.
29 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1843-46, XXVIII, 11 novembre 1846, cnn.
30 Datate tra 1825 e 1843, sono conservate negli atti della causa promossa dal Mengaroni contro i Della Ripa nel 1845 davanti il tribunale di prima istanza di Pesaro.
31 Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1843-46, XXVIII, rogito cit.
32 Inventario cit., cc. 123r e 126v-127r.
33 Ibidem, cc. 140rv.
34 Registrata come atto privato il 9 luglio 1827: Asp, Np, notaio Pompeo Fallagrassa, 1827, XII, 9 luglio 1827, cc. 108 r-v.
35 L’Autoritratto di Raffaello (1506 circa, olio su tavola, 47,5×33), ebbe grande fortuna come termine sicuro di confronto con l’identificazione fisionomica dell’artista urbinate: numerose sono le copie, anche antiche, realizzate dalla tavola, e altrettanto numerose le incisioni. Forse già a Urbino nella collezione Della Rovere, probabilmente citato nella “Nota de’ quadri buoni d’Urbino”, pervenne prima a Ferdinando II de’ Medici (1631), poi al cardinale Leopoldo de’ Medici (1675), con i cui autoritratti entrò nel 1682 nella Galleria degli Uffizi, dove è tuttora conservato. Il tradizionale riferimento al Sanzio ha suscitato forti perplessità nella critica più recente: sono stati espressi molti dubbi sulla sua autenticità e sull’autografia di alcune parti, e si tende a crederlo copia dell’autoritratto nella Scuola d’Atene.
36 Asp, Np, notaio Alessandro Perotti, 1874, 23 febbraio 1874, cc. 60r-62v.
37 Asp, Np, notaio Luigi Andreani, 1856, 8 maggio 1856, cc. 122r-131v.
38 Asp, Catasto dei fabbricati del 1870 cit.: “compra per istromento 17 novembre 1881 rogito Guidi”.
39 Per rogito del notaio fiorentino Gaspare Leoni in data 15 febbraio 1841, depositato negli atti del notaio bolognese Vincenzo Pallotta il 20 febbraio dello stesso anno.
40 Asp, Np, notaio Luigi Perotti, 1842, II, 6 ottobre 1842, cc. 273r-315r.
41 Bop, Carteggio del marchese Pietro Petrucci, ms. 1195, cc. n. n.
42 Ibidem, lettera datata Pesaro, 6 giugno 1832.
43 Bop, Carteggio di Giuseppe Mamiani, ms. 1765, 10, lettera n. 6, Venezia, 29 dicembre 1832.
44 Ibidem, lettera n. 7, Venezia, 24 febbraio 1833.
45 Ibidem, lettera n. 23, Firenze, 24 novembre 1839.
46 Ibidem, lettera n. 10, Genova, 21 luglio 1834.
47 Ibidem, lettera n. 6, Venezia, 29 dicembre 1832.
48 Ibidem, lettera n. 7.
49 Ibidem, lettera n. 12.
50 Ibidem, lettera n. 10. L’amicizia con Costanza è documentata in Otto lettere della Contessa Costanza Perticari Monti a Laudadio della Ripa, Firenze1877, pubblicate in occasione delle nozze Zabban-Romanelli da Sansone D’Ancona, figlio di Giuseppe D’Ancona e Ester Della Ripa.
51 Bop, ms. 1549, Notizie di persone più o meno illustri, per la maggior parte di Pesaro, voce “Della Ripa Laudadio”, cnn.
52 Bop, ms. 1765 cit., 10, lettera 34, allegato.
53 Ibidem, lettere nn. 33 e 34.
54 Ascp, Atti consiliari 1907, 27 novembre, delibera n. 178 cit., pp. 637-641.
55 Ibidem, delibera n. 178 cit., p. 640. La spesa per il trasporto da Firenze a Pesaro di mobili, quadri e porcellane, effettuato dalla ditta dei fratelli Gondrand, ammonta a 550 lire: ibid., 30 dicembre 1907, delibera n. 188, p. 673.
56 Ibidem, pp. 640-641.
57 Rispettivamente i numeri 36, 61 e 66 in Dipinti e disegni della pinacoteca civica di Pesaro, a cura di C. Giardini, E. Negro, M. Pirondini, Modena 1993, pp. 61-62, 81-82, 86-87.