L’economia del ghetto
Viviana Bonazzoli
1. Nella prima metà degli anni ’30 del ‘600, quando – morto nel 1631 senza eredi maschi in linea diretta Francesco Maria II della Rovere, sesto ed ultimo duca di Urbino, e devoluto il ducato al diretto dominio della Sede apostolica – viene estesa al territorio dello Stato di Urbino la normativa vigente in materia di ebrei nello Stato pontificio 1, la fase di più acuta ostilità antiebraica da parte dei sovrani pontefici è ormai superata. Di fatto, dopo l’alternarsi di misure restrittive e moderatrici delle restrizioni che si protrae dal 1553 – decreti sulla distruzione del Talmud – lungo quasi tutta la seconda metà del ‘500, il regno di Sisto V segna l’inizio di una fase di normalizzazione nella politica pontificia verso gli ebrei dei territori soggetti a Roma. Infatti, benché non vengano mai abrogate le norme più duramente limitatrici emanate nella seconda metà del ‘500 2, tuttavia, di volta in volta, ad alcune restrizioni verranno introdotte deroghe ovvero esse verranno applicate con minor rigore 3. Il ‘600 negli Stati dell’Italia centro-settentrionale e in quello pontificio in particolare coincide con un periodo di assenza di persecuzioni antiebraiche degne di nota e di relativa tranquillità per la popolazione ebraica, un periodo che si estende al secolo successivo.
Talché per gli ebrei dell’ex ducato – dal 1631 legazione di Urbino e Pesaro –, il lungo periodo che va dalla devoluzione dello Stato urbinate a Roma sino al 1797, quando l’occupazione napoleonica decreta con la fine dell’antico regime l’abolizione del complesso di interdizioni antiebraiche, presenta oltre agli evidenti caratteri di continuità istituzionale, condizionanti pressoché ogni altro aspetto della vita della popolazione ebraica e delle relazioni fra ebrei e cristiani, anche un prevalente atteggiamento di moderazione da parte del potere politico verso gli ebrei, benché meglio conosciuto per quanto attiene alle scelte compiute dal potere centrale rispetto alle soluzioni adottate dai rappresentanti locali del sovrano. A cominciare dal momento immediatamente successivo alla devoluzione, quando, per non esasperare il clima di tensione nel quale i sudditi dell’ultimo duca – che, come i suoi predecessori, aveva seguito una politica di ampie concessioni verso gli ebrei 4– subirono il passaggio alla immediata soggezione a Roma 5, il governo pontificio optò per una espulsione parziale dal territorio dell’ex ducato, dove vennero conservati tre insediamenti ebraici in luogo dei numerosi del periodo precedente: Pesaro, Urbino e Senigallia, dove vennero istituiti altrettanti ghetti.
Si tratta dunque di un periodo che presenta caratteri suoi propri, che segnano una cesura così rispetto al precedente periodo ducale come rispetto a quello che segue la fine dell’antico regime, non soltanto sul piano politico-istituzionale ma anche a livello economico, tanto che si può parlare di economia del ghetto. Pertanto, può risultare di qualche utilità un primo intervento che si proponga non più che lo scopo di richiamare l’attenzione sugli aspetti più significativi della realtà economica del ghetto di Pesaro e, insieme, di indicare alcuni temi di ricerca che potranno essere approfonditi in seguito attraverso ricerche settoriali.
Quanto alle fonti utilizzate, poiché – come accennato – questo lavoro non si propone che come primo approccio, si è rinunciato ad ogni pretesa di completezza non solo quanto a contenuti e a temi, ma anche quanto a fonti esaminate e si è privilegiato l’utilizzo di una fonte – quella notarile – in quanto meglio consente di cogliere gli aspetti pragmatici della realtà economica.. Date le considerevoli dimensioni della documentazione notarile pesarese e poiché informazioni relative alla popolazione ebraica si trovano nelle registrazioni di pressoché tutti i principali notai, non si è potuto procedere in questa fase se non attraverso un sondaggio 6.
2. L’espressione economia del ghetto implica molteplici aspetti. Un primo tema da considerare è quello connesso agli effetti economici indotti dal regime istituzionale del ghetto, così nei rapporti fra ebrei e cristiani come in quelli interni al nucleo ebraico. A cominciare dagli effetti prodotti sul mercato immobiliare urbano dai provvedimenti istitutivi del ghetto, il processo per il quale si pervenne a individuare l’area urbana da destinare al ghetto 7, quali fattori e interessi orientarono la scelta, quali meccanismi di regolamentazione dei prezzi delle locazioni furono messi in atto dal potere politico allo scopo di evitare eccessi di esosità da parte dei proprietari cristiani; né privo di interesse è il fenomeno speculare costituito dall’estromissione della popolazione cristiana che risiedeva nell’area destinata a ghetto e il suo trasferimento altrove.
Dalle fonti esaminate risulta che approssimativamente dalla metà del ‘600, quando le informazioni relative alle transazioni che hanno ad oggetto l’inquilinato perpetuo in ghetto (o jus gazagà) 8 si fanno più numerose, i proprietari delle abitazioni sono quasi sempre enti ecclesiastici o esponenti del patriziato della città; se tale prevalenza sia un dato già presente al momento della istituzione del ghetto o se sia il risultato del progressivo espandersi della proprietà ecclesiastica e del patriziato, rispettivamente grazie a donazioni e attraverso acquisti, è da verificare.
Come è noto, nel corso del ’600 l’istituto dello jus gazagà si definisce come diritto d’uso da godersi in perpetuo dalla popolazione ebraica del ghetto dietro corresponsione di un canone annuo ai proprietari cristiani delle abitazioni, e, al pari di altri tipi di diritto d’uso contemplati dal sistema giuridico di antico regime, i singoli jussi, vale a dire i diritti d’uso che insistono su ogni immobile o porzione di immobile del ghetto, diventano commerciabili, trasferibili ai più disparati titoli, alienabili temporaneamente con clausola di riscatto, oggetto di donazione, possono essere costituiti in dote o come lasciti testamentari, offerti quale garanzia, suddivisi in quote. Anche a Pesaro, come in altre situazioni italiane, la trasferibilità del diritto di inquilinato perpetuo fa sì che nel corso del tempo le famiglie ebraiche di volta in volta più abbienti – così, sul finire del ‘700, i Beer – accumulino il possesso di più jussi, o direttamente rilevandoli dai proprietari cristiani o acquistandoli da precedenti possessori ebrei; si tratta tuttavia di una tendenza che per quanto sicuramente documentata non è possibile ancora quantificare nel suo evolversi.
Qualche caso, ricavato da atti dell’inizio e della fine del ‘700, può esemplificare i tipi di situazioni più frequenti.
Il 19 maggio 1791, la contessa Luigia di Montevecchio, vedova di Gaetano Belluzzi, aveva ottenuto a cambio da Sanson Vitali D’Ancona, ebreo di Pesaro, 500 scudi romani al 6% annuo, “per supplire alle spese per le prove della Croce di Malta che doveva prendere il nobile signor Francesco Maria Beluzzi uno de’ di lei figli”; per pagamento “di sorte e frutti” il 12 gennaio 1793 la contessa cede a D’Ancona uno jus gazagà del valore di sc. 262 e bajocchi 57 e _, saldando il resto – sc. 237 e b. 42 e _ – in contanti 9.
Nel 1793, con scrittura privata, le sorelle Anna e Laura figlie del fu Rubino Gentilomo, la prima di anni 60 e la seconda di 55, avevano venduto ai fratelli Alessandro e David Bolaffi uno jus per sc. 200 pagato in cedole bancarie romane il 10 novembre 1794; le stesse, il 29 agosto 1794, “in perpetuo rinunziano il jus” che possiedono insieme ab indiviso sulla casa di loro abitazione a favore di Jacob David Beer, che si impegna d’ora in avanti a lasciarvi abitare gratuitamente le sorelle loro vita natural durante 10.
Il 19 gennaio 1795 Ricca Bella, moglie di Tobia Gentilomo, davanti al giudice competente per le cause e i contratti delle donne maritate, “espone essere in necessità suo marito di vendere il jus gazagà che possiede sopra la di lui casa d’abitazione” per 100 scudi a Lelio e Samuel Isach Beer, e a maggior cautela dei compratori rinuncia “a qualunque ragione che potesse in qualunque tempo avere la medesima sopra detto jus gazagà per le di lei doti, la quale è disposta di ciò fare atteso il bisogno in cui ritrovasi detto suo marito, stante la lunga malattia di febbri quartane che ancora lo molestano […] tanto più che parte di detto denaro il di lei marito vuole impiegarlo per redimere certe robe dotali della medesima impegnate in questo sagro Monte della Pietà per sovvenimento tanto di detto suo marito quanto dell’esponente medesima”. Si conviene fra le parti che gli acquirenti “debbano presentemente avere il possesso di una sol camera ed una cantina della casa […] e di lasciare godere ed abitare la medesima casa per il restante di quella a detto Tobia vita natural durante, con condizione che non possino i medesimi Beer entrare in possesso di detto restante di casa se non un anno dopo la di lui morte” 11.
Il 22 maggio 1795 Samuel Vita Mondolfo costituisce un perpetuo ma redimibile censo di sc. 2 e b. 40 romani, al 6% annuo, a favore della Compagnia di Maijm Caijm del ghetto, “per prezzo” di sc. 40 avuti dalla stessa sullo jus della casa di propria abitazione 12.
Il 21 maggio 1795 Nedanel Caim Vita Levi, di Pesaro ma commorante nel ghetto di Ancona, vende a Salvatore Della Ripa, “ebreo negoziante di questo ghetto di Pesaro“, “il jus gazagà d’un appartamento di casa con l’estensione di tutta l’aria superiore del medesimo”, spettante al Levi “di sua porzione toccatagli nella divisione seguita colli signori Isach Vita e Moisé Sabato Vita Levi di lui fratelli, vivente il fu Salomon Levi loro genitore”, per il prezzo di sc. 300 romani 13.
Il 7 settembre 1796 Emanuel Montebaroccio costituisce a sua figlia Riccà, in occasione del matrimonio di lei con Amadio Bolaffi, una dote del valore di sc. 1498 e b. 80 romani, dei quali 600 in contanti, il resto in “ori, gioie, vestimenti e mobili”, incluso uno jus gazagà valutato sc. 200 “dove al presente abita il signor sposo con i suoi genitori” 14.
Il 4 gennaio 1788, si effettua divisione “intorno al jus gazagà” fra Diamante vedova di Bono Levi, Ester vedova di Moisé Samuel Levi e Rachele moglie di Giuseppe Levi sino a quel momento posseduto ab indiviso; la casa viene periziata, e l’assegnazione delle tre quote dello jus effettuata a sorte 15.
Il 7 giugno 1706, nel redigere il proprio testamento, Giuseppe Montefiore dichiara suoi eredi universali “di tutti i suoi beni anche per ragione di jus gazagà per egual portione”, Anselmo e Bona suoi fratelli carnali e Stella, sua sorella consanguinea figlia del comune padre Raffaele e della seconda moglie di questi, Smeralda 16.
Il 17 marzo 1710 Sabato Marini, nel concedere un credito di sc. 300 romani ad Isach Nachman chiede che Giuditta, moglie di Isach, garantisca con i suoi beni dotali, “et obligo anche del jus gazagà della sua casa d’abitazione” 17.
Il 14 gennaio 1699 Diamante Castelleone e suo marito Isach Chelì avevano ceduto a Jacob Gentilomo uno jus gazagà di una casa in Senigallia per sc. 120 ducali con possibilità di riscattarlo; il 7 dicembre 1707 Isach aveva ceduto lo stesso jus a Rafael Vita Aboab per lo stesso prezzo, e infine questi lo aveva a sua volta ceduto a Jacob Della Bella e a Michel Saul Leoncini; nel 1710, alla richiesta dei primi venditori di riscattare lo jus segue una controversia risolta attraverso una composizione amichevole 18.
3. Con la rottura di quello che si può approssimativamente indicare come l’equilibrio contrattualistico di origine medievale e l’emanazione unilaterale del regime delle interdizioni, l’ente comunitario ebraico – l’universitas – di fatto perde quelle prerogative di interlocutore ‘politico’ nei confronti dell’esterno che aveva esercitato in precedenza, e con l’istituzione dei ghetti vede di necessità accrescersi il carico dei compiti di governo interni 19, regolamentati dai Capitoli emanati dai responsabili del governo locale, dunque qui dai legati pontifici.20
Nei ghetti della Legazione di Urbino e Pesaro l’ambito di autogoverno riconosciuto all’ente comunitario è assai ristretto e non sono frequenti le informazioni in proposito trasmesse dalle fonti notarili, come quella relativa ad una controversia insorta nel 1755 fra Isac Beer e Sanson Viterbo a proposito di uno jus gazagà nel corso della quale il primo “avanti della accademia rabinica di questo ghetto di Pesaro e a quella della città d’Ancona aveva suscitato una di lui pretensione contro il suddetto Viterbo” 21.
Di fronte agli organi di governo cristiani, l’universitas è di fatto resa responsabile del microcosmo del ghetto in un senso sociale ben più ampio di quanto non dica la esplicita enunciazione di tale responsabilità per alcune materie specifiche, a cominciare da quella fiscale. L’universitas è infatti investita della funzione di intermediario fiscale fra Stato ed enti territoriali, da un lato, e comunità ebraica dall’altro 22 – ma mancano ricerche sul prelievo fiscale imposto alla popolazione dei ghetti della legazione – e i margini, spesso assai esigui, che residuano per il prelievo fiscale interno, una volta assolti gli obblighi di quello verso l’esterno, costituiscono il vincolo alle iniziative che l’organismo comunitario può intraprendere nell’adempiere alla funzione di ammortizzatore degli squilibri nella distribuzione del reddito e delle tensioni sociali interne, della quale è costretto a farsi carico. Le istituzioni assistenziali ebraiche non nascono con il ghetto, ma nello spazio chiuso del ghetto acquistano rilievo poiché qui si esaspera quello che pure è fenomeno comune alle economie preindustriali, vale a dire la tendenza all’estrema divaricazione fra le situazioni di ricchezza e di povertà.
Non bisogna dimenticare che della composizione sociale del ghetto – ma questo vale anche per la società cristiana – le fonti notarili trasmettono una immagine fortemente distorta: ai poveri non si presentano frequenti occasioni di intervenire alla stesura di un atto notarile, per questo il caso che segue merita attenzione:
“Fin dall’anno 1720 Perla del fu Giuseppe Da Pesaro, ebrea di questa città, andò al servizio di Sansone Viterbo, parimenti ebreo di questa città, in cui anche al presente si trova la medesima, con la mercede di pavoli 30 all’anno di lei salario fin da quel tempo così accordatogli. Nell’anno 1740 furono fatti i conti tra detta Perla e detto Sansone de datis et receptis, e restò detta Perla creditrice del suddetto Sansone di sc. 6 e b. 66 e 1/3 moneta romana. Nel giorno presente poi fatti di nuovo li conti fra la detta Perla ed Anselmo Viterbo figlio di detto Sansone per ordine di detto suo padre de datis et receptis alla mia presenza, si è veduto ella restare in debito del detto Viterbo di sc. 4 b.33 1/3 moneta romana, non compreso in tal somma un conto de’ medicinali pagati dal detto Viterbo allo speziale per conto di detta Perla”. Questa dichiara di essere stata soddisfatta del salario “a tutt’oggi”, e si dichiara debitrice; Anselmo, “d’ordine del detto suo padre e a titolo di mera cortesia li rilascia e condona detti sc. 4 b. 33 1/3 come pure il conto de’ medicinali da esso per la medesima pagati […] et in oltre in segno del fedele servizio che detta Perla sino ad ora ha prestato alla sua casa, a titolo di regalo, il medesimo Anselmo per ordine di detto Sansone contò e sborsò pavoli 10 alla detta Perla […]. Convennero le parti che per l’avenire debbisi al fine di ogn’anno fare li conti e saldarsi da una parte e dall’altra” 23.
Al di là del suo valore culturale-religioso come principio, la redistribuzione che comanda di assicurare anche ai più poveri il minimo indispensabile per vivere è – nella segregazione del ghetto – una necessità per tutto il gruppo, una esigenza di autoconservazione anche per i ricchi, ai quali è permesso di ignorare l’esistenza dei poveri molto meno di quanto lo sia fra i cristiani, per gli evidenti rischi ai quali eventuali tensioni sociali esporrebbero l’intera comunità. E’ dunque la fascia sociale più agiata che si fa carico dei costi dell’assistenza sociale, in via indiretta con le contribuzioni fiscali all’ente comunitario, e in via diretta fondando e sostenendo associazioni a scopo assistenziale.
Non sono rare le informazioni trasmesse dalle fonti notarili a proposito delle associazioni assistenziali del ghetto di Pesaro; in genere vi si fa riferimento a donazioni, cessioni, lasciti da parte di privati, o ad alienazioni – definitive o temporanee – di jussi da parte degli enti assistenziali per finanziare la propria attività.
Il 25 giugno 1715, Giulia del fu Angelo Volterra dispone nel suo testamento diversi legati pii e per il resto designa quale erede universale la “sinagoga ossia scola italiana” 24.
Il 24 agosto 1787 Debora Moscati vedova di Tranquillo Levi cede alla scola spagnola del ghetto, rappresentata dai suoi sindaci ed amministratori Samuel Del Bene ed Elia Foligno, un suo jus gazagà in cambio di un vitalizio di paoli 12 e b. 6 2/3 25.
Il 17 gennaio 1793 Perla Recanati, vedova di Emanuel Lazzaro Del Vecchio, lascia erede universale la scola spagnola del ghetto di Pesaro in cambio “delle spese di mortorio e della lampada accesa [in sinagoga] per un anno dopo la sua morte” 26.
Il 28 maggio 1779 Elia Foligno e Salomon Mondolfo in qualità di “sindaci della compagnia dell’Elemosina della scuola spagnola del ghetto, detta Zedachà, costituiscono e impongono un censo perpetuo e redimibile di sc. 2 e b. 25 annui, sopra due magazzini che trovansi sotto la stessa scuola spagnola di ragione della medesima ed altri effetti di quella, a beneficio della compagnia di Maijm Caijm di questo ghetto, e per essa a Zaccaria Della Ripa e Sanson D’Ancona”, sindaci di essa, per sc. 50 romani;27 in data 24 luglio 1795 si estingue il censo e Jacob Josef Gentilomo, deputato della compagnia dell’Elemosina, paga sc. 50 per la vera sorte più sc. 20 e b. 5 “per frutti decorsi a tutto corrente aprile” ad Emanuel Vita Montebaroccio, cassiere e deputato della compagnia di Maijm Caijm 28.
Il 23 aprile 1789, Salomon Vita Levi e Moisé Aron Costantini, “ebrei di questo ghetto, sindaci della scuola spagnola” vendono ad Angelo Levi, per 100 scudi romani, due jus gazagà posseduti dalla sinagoga stessa su case abitate da Moisé Sabato Levi e da Isach Camerino 29.
Il 19 settembre 1792, la “compagnia della Carità della scuola itagliana di questo ghetto”, a seguito della risoluzione dei congregati del 30 ottobre 1791, vende a David Vita Recanati lo jus gazagà di una casa confinante con “l’ospedaletto de’ poveri ebrei”, per il prezzo di sc. 100 che riceve in pagamento Sanson Vita D’Ancona depositario della compagnia alla presenza di Abram Levi e di Leon Viterbo, sindaci della stessa 30.
Le notizie del secondo tipo sembrano diventare più frequenti lungo il secondo ‘700 e confermano il progressivo deteriorarsi delle condizioni finanziarie degli istituti assistenziali del ghetto di Pesaro in ragione dell’incremento percentuale dei poveri sul totale della popolazione – già messo in evidenza da studi condotti su altre fonti 31– conseguente la contrazione degli scambi, l’espatrio di alcune delle più cospicue famiglie, le frequenti conversioni di membri di esse.
4. Al di là degli aspetti economico-istituzionali, quanto alle attività economiche dei privati va in primo luogo richiamata l’attenzione sugli effetti che l’estensione della normativa antiebraica ai territori dell’ex ducato produsse sull’insieme delle attività e delle relazioni economiche costruito dalla popolazione ebraica nell’epoca precedente e documentato dal ‘400, da quando cioè datano le fonti notarili rimaste.
A questo proposito occorre richiamare quei caratteri di policentrismo che avevano costituito l’identità del ducato, e che continuarono a costituire l’identità della legazione di Urbino. A livello politico infatti il ducato non conobbe mai un processo di riorganizzazione istituzionale e territoriale paragonabile a quello verificatosi fra ‘400 e ‘500 in altre aree dell’Italia centro-settentrionale – Lombardia, Veneto, Toscana – tale da condurre all’accentramento degli organi di potere e di amministrazione dello Stato, ma rimase sempre caratterizzato da un impianto politico-istituzionale dualistico e policentrico. Dualistico, nel senso che i duchi, pur pragmaticamente avocando a sé sempre più ampi poteri di governo, alterarono tuttavia in misura contenuta l’impianto politico-istituzionale del ducato ereditato dalla tradizione medievale, certamente non tanto da snaturarlo, conservando le istituzioni amministrative e di governo espresse dai corpi territoriali locali, controllandole tuttavia dall’interno e indirizzandone le scelte. Policentrico, poiché nessuno dei corpi politico-territoriali – ciascuno dei quali è costituito da un centro urbano e dal contado soggetto ad esso –, maggiori e minori, che costituiscono il ducato è soggetto ad un altro, ma tutti si collocano l’uno rispetto all’altro su di un medesimo piano di parità, e ciascuno è direttamente soggetto al duca secondo un rapporto bilaterale; tanto che il ducato non ebbe mai una capitale nel senso di dominante, ma solo centri di residenza della corte 32.
Un simile impianto politico-istituzionale trova la sua immagine corrispondente nella organizzazione economico-territoriale del ducato, dove non si è mai sviluppato alcun grande centro urbano con funzioni trainanti in relazione alla produzione e agli scambi dell’intera area, ma dove una molteplicità di centri cittadini di dimensione media e piccola hanno nel corso del tempo costruito e consolidato un proprio ruolo nella produzione e negli scambi in relazione alle campagne circostanti, alle aree vicine e ai mercati regionali e interregionali. Sino alla devoluzione, in ciascuno di questi centri urbani è presente un insediamento ebraico 33; si tratta in genere di nuclei di dimensioni modeste – poiché anche nel caso dei più consistenti la popolazione ebraica non sembra aver superato la soglia del 5% rispetto a quella cristiana 34– le ragioni della cui efficienza risiedono negli effetti sinergici e nel simbiotico intreccio capillare con l’economia locale; fra ‘400 e 1631 una fitta rete di piccoli e persino piccolissimi insediamenti ebraici distribuiti entro lo Stato di Urbino, dove i centri abitati sono modesti quanto a dimensioni, ma frequenti e separati da distanze minime anche in relazione ai mezzi di comunicazione del tempo, aveva costituito una componente strutturale dell’economia territoriale fornendo credito di esercizio – in forma monetaria o come materie prime anticipate – ai piccoli produttori artigiani locali 35.
Come effetto dello sfoltimento imposto al numero di insediamenti ebraici dopo il 1631, il nucleo di Urbino si mostra da subito, in relazione al vuoto circostante di presenze ebraiche, debole quanto a dimensioni minime di efficienza 36. Quanto a Senigallia, le possibilità economiche offerte al suo insediamento ebraico dipendono strettamente dalla tenuta delle fiere franche 37, ma se queste svolgono una funzione primaria finché Senigallia fa parte del ducato – le fiere di Senigallia sono le fiere franche del ducato -, questa stessa funzione inevitabilmente viene meno nel momento in cui la città viene annessa allo Stato pontificio, poiché il porto pontificio adriatico per eccellenza è Ancona.
L’espulsione degli ebrei dai centri minori della legazione ebbe un effetto destrutturante in duplice direzione: da un lato sull’economia territoriale, dall’altro sul livello di efficienza minima dei nuclei ebraici segregati nei ghetti. Questi ultimi dovettero riorganizzare, adattandolo al nuovo contesto, il sistema di relazioni con l’economia territoriale e con gli altri nuclei ebraici; poiché, in ogni caso, è certo che la tenuta di un insediamento ebraico, e tanto più nell’epoca dei ghetti, dipende contemporaneamente dalla capacità di inserirsi con un suo ruolo entro la rete delle relazioni fra insediamenti ebraici e dalla sua funzionalità in relazione all’economia territoriale.
L’insediamento di Pesaro 38 trova funzione e spazio specifici in quanto, all’interno del sistema di scambi interadriatici, rappresenta uno dei punti – frequenti sull’una come sull’altra sponda – di raccordo e di snodo con le economie dell’entroterra. Quello interadriatico è – nel più ampio contesto degli scambi Europa/Levante – un sistema di relazioni che sin dal ‘300 presenta una gerarchia funzionalmente integrata di centri di scambio; esso infatti si incardina su un centro mercantile e finanziario di rilievo intercontinentale, Venezia, e sulla simbiosi Ragusa-Ancona, al tempo stesso complementare e competitiva nei confronti di Venezia 39. In posizione subordinata e con funzione di centri intermedi di redistribuzione e raccolta – quanto a merci in entrata e in uscita – e di collegamento fra le principali correnti degli scambi e le economie dell’entroterra, alcuni porti secondari fra cui Pesaro. E’ in relazione a questo contesto adriatico dove mercati intercontinentali, mercati sovraregionali e mercati subregionali si presentano strettamente integrati che va considerato il nucleo ebraico di Pesaro – poco senso avrebbero pertanto confronti con la realtà di Ancona – 40, ed è l’essere inserito in tale sistema di scambi che consente al nucleo ebraico di Pesaro di ammortizzare in parte gli effetti negativi indotti dalle misure pontificie imposte a seguito della devoluzione.
Tuttavia, se le fonti notarili consentono di ricostruire almeno nelle grandi linee la risposta di mercanti e banchieri all’imposizione di tali disposizioni, più difficile è misurare quali conseguenze l’espulsione da centri economicamente vivaci come Fossombrone, Cagli, Pergola 41 e la segregazione in ghetto a Pesaro, Urbino, Senigallia abbia comportato per i produttori artigiani ebrei o i piccoli commercianti; la stessa scarsità di notizie sui primi lascia supporre che per essi gli spazi economici si siano considerevolmente ristretti. Pure, il ghetto è anche luogo di produzione artigianale, come si ricava da un atto relativo alla composizione di una controversia familiare del 30 ottobre 1711.
Il contrasto era insorto fra Leone, Samuel e Sabato quondam Moisé Levi da una e Regina loro madre; un altro Moisé Levi, loro comune parente, propone una composizione e redige il concordato. Regina è creditrice dei figli per il suo capitale dotale, nella quantità di sc. 300 “quale puole assorbire il capitale de’ mobili et il jus gazagà della casa d’abitazione” che include un magazzeno, dei quali Regina godrà vita natural durante e che dopo la morte di lei verranno suddivisi in tre quote da assegnarsi a sorte ai tre fratelli. Resta stabilito che “avendo detti Leone e Sabbato l’arte di saponari, e dovendo essi lavorare e fabbricare il sapone nel detto magazeno, sia lecito al detto Leone di fabbricare il sapone alla sua caldara per tutto il venturo mese de Dicembre del presente anno e non più oltre e che anche detto Sabato suo fratello possi fabricare il sapone separatamente colla sua caldara in detto magazeno; e terminato che sia il tempo prefisso al detto Leone egli debba partirsi e non più fabbricare il sapone in detto magazeno, ma bensì nella sua propria casa d’habitatione”.42
Per quanto il sistema di scambi interadriatici conosca nel corso del ‘600 una fase recessiva aggravata nella seconda metà del secolo dalla guerra di Candia 43 e dalla rovina di Ragusa 44, non di meno esso, da un punto di vista strutturale, sopravvive benché fortemente indebolito sino all’inizio del ‘700. Saranno la sconfitta inflitta a Venezia da parte dell’Impero ottomano e il tracollo segnato dalla pace di Passarowitz 45, e il contemporaneo rafforzarsi dell’Impero absburgico sul piano economico oltre che su quello politico a determinare lo sgretolarsi di esso. A partire dagli anni ’20 del ‘700, il decollo e poi la crescita progressivamente più rapida di Trieste comporterànno il ridisegnarsi di nuovi equilibri in Adriatico e lo spostarsi sul porto franco imperiale della funzione di principale piazza commerciale, finanziaria e assicurativa nei collegamenti fra Europa centrale e Levante 46. Se il porto di Ancona, che mantiene pur sempre una forte presa negli scambi interadriatici ed è sostenuto dalla politica economica pontificia, potrà lungo tutto il ‘700, a seguito della istituzione del porto franco nel 1732, conoscere una fase di recupero 47, per i porti secondari dislocati lungo la sponda occidentale dell’Adriatico centro-settentrionale, fra cui Pesaro, gli anni ’30 e ’40 del ‘700 segnano l’inizio di una involuzione irreversibile.
5. Nella larga maggioranza la popolazione del ghetto di Pesaro è costituita da ebrei italiani; la componente italiana, e in particolare di origine centroitaliana, oltre ad essere la più numerosa è altresì l’elemento stabile sul lungo periodo. Inoltre un elemento di continuità è la presenza lungo il ‘600 e il ‘700 di uno stesso gruppo di famiglie fra quelle economicamente e socialmente più rappresentative.
Fra i nomi di famiglia che ricorrono più frequentemente nella documentazione notarile figurano gli Arcangeli, i Camerini, i D’Ancona, i Da Pesaro, i Del Bene, i Della Ripa, i Del Vecchio, i D’Urbino, i Gentilomo, i Fano, i Foligno, i Mondolfo, i Montebaroccio, i Montefiore, i Moscati, i Recanati, i Rieti, i Terni, i Vitali, i Viterbo, i Volterra. Nel caso degli Almagià o dei Bolaffi, pienamente italianizzati, di una remota provenienza da territori islamici solo il nome serba traccia.
Poco numerose le famiglie con nomi di origine tedesca: i Beer, che fra ‘600 e ‘700 costituiscono una presenza molto forte nel ghetto di Pesaro, i Bemporad, e, ovviamente, i Tedeschi; un dato che conferma quanto già noto a proposito delle non frequenti immigrazioni di ebrei tedeschi verso i centri dell’Adriatico occidentale a sud di Venezia. Inoltre, i Beer che si stabiliscono a Pesaro provengono da Ancona, e i Bemporad sembrerebbero essere originari di Firenze ed essere anche loro arrivati a Pesaro da Ancona, mentre i Tedeschi provengono da Roma.
Più difficile ricostruire la provenienza dei Coen e dei Levi; i Coen di Pesaro sembrerebbero parenti della omonima famiglia di provenienza levantina presente ad Ancona fra ‘600 e ‘700, che ha legami di parentela con i Coen di Ferrara 48.
Se è un fatto che l’estensione alla legazione di Urbino e Pesaro delle misure pontificie antiebraiche induce una parte, tuttavia non facilmente quantificabile, della popolazione ebraica del ducato ad emigrare fuori dello Stato pontificio, non di meno ragioni unicamente economiche portano, fra il secondo ‘600 e gli inizi del ‘700, un gruppo di mercanti esiguo quanto a consistenza numerica, ma significativo quanto a ruolo economico, a stabilirsi a Pesaro da Venezia o dai vicini centri della Terraferma. Fra questi emergono un ramo dei Costantini, importante famiglia sefardita veneto-candiota che da Venezia si era sin dal 1650 stabilita con un altro ramo ad Ancona, e i Leoncini, italiani di Padova. Una ditta per il commercio di tessuti viene impiantata a Pesaro nel 1697 da Jacob Della Bella, di Venezia, socio dei Leoncini 49; ancora, nei primi anni ’70 del ‘600 si trasferisce a Pesaro da Venezia, dopo aver ottenuto dal governo pontificio una licenza di banco, Moisés Mazor, di famiglia sefardita come i Costantini e con questi legata da rapporti di parentela 50; sempre da Venezia si stabilisce a Pesaro un ramo della cospicua famiglia sefardita degli Aboab, altri rami della quale sono insediati a Venezia, in area germanica e nei Paesi Bassi; nel 1716 si ha notizia di un “Aron Camiz, ebreo di Venezia, ora dimorante in questa città di Pesaro”, e anche i Camiz sono una famiglia sefardita insediata nelle maggiori piazze mercantili mediterranee, da Venezia a Livorno.
Frequentissime sono le relazioni fra i mercanti del ghetto di Pesaro e gli ebrei residenti a Venezia, dove le principali ditte hanno procuratori o corrispondenti; così, solo a titolo di esempio, il 21 marzo 1678, Gabriel e Isac Mondolfo sono in relazioni commerciali con Isac Baldoso, anche lui esponente di una famiglia sefardita di rilievo e stretto interlocutore dei Costantini 51. Altre famiglie, originarie di Pesaro o immigrate qui da Venezia o dalla Terraferma, insediano propri componenti su piazze diverse e gli uni fungono da corrispondenti commerciali degli altri. Così, Jacob Della Bella continua a risiedere a Venezia mentre il figlio Simon si stabilisce a Pesaro per occuparsi della società con Michel Saul Leoncini52 mentre Marco Leoncini è corrispondente della società da Padova dove continua a risiedere 53; ancora, mentre Isac Levi continua a risiedere a Pesaro con i figli di secondo letto Caim e Moisés, i figli di primo letto Samuel e Marco sono rispettivamente commoranti in Padova e in Venezia, ed entrambe le coppie di fratelli ricorrono ai servizi finanziari dei Levi Del Banco di Venezia 54. Altri si trasferiscono definitivamente da Pesaro a Venezia: il 18 settembre 1715 Amadio di Zaccaria D’Urbino è nominato procuratore da Gentile vedova di Dattilo Fano e dai loro figli Davide, Angelo e Job, ebrei di Pesaro ora tutti abitanti in Venezia, a cedere lo jus dotale di Gentile 55.
Gli esempi potrebbero continuare a lungo, e se è non è difficile risalire alle motivazioni che portano alcuni ebrei di Pesaro a trasferirsi a Venezia o a Padova 56, meno evidenti sono le ragioni che fanno convergere a Pesaro, come ad Ancona negli stessi anni, mercanti appartenenti alle maggiori famiglie sefardite di Venezia in un periodo di complessiva contrazione per le economie adriatiche. In tale comportamento si può vedere la risposta da parte dei mercanti sefarditi, che costituiscono certamente ancora per tutto il ‘600 la componente più mobile e reattiva dei nuclei ebraici presenti negli insediamenti mediterranei e dunque anche adriatici, alle difficoltà che sta sperimentando, più ancora che Venezia, il tradizionale sistema di scambi interadriatici controllato da Venezia/Ragusa/Ancona. Nella fase in cui le economie in ascesa – olandese e inglese – sottraggono a quelle adriatiche crescenti spazi negli scambi Europa/Levante 57, i sefarditi cercano una compensazione sviluppando in senso intensivo il sistema di scambi tradizionale, vale a dire intensificando in maniera capillare la rete degli scambi di impianto preesistente. Se le economie e gli imprenditori adriatici non sono più in grado di elaborare risposte innovative, non va tuttavia sottovalutata la capacità di resistenza che dimostrano nel rendere più efficiente il sistema di scambi tradizionale e nel conseguire una più compiuta integrazione.
In conseguenza della devoluzione anche i centri mercantili adriatici iniziano a far frequentemente riferimento a Roma, prevalentemente come piazza finanziaria 58, laddove Venezia resta piazza di riferimento in senso molto più complesso: mercantile, finanziario, assicurativo 59. All’inizio degli anni ’70 del ‘600, proveniente da Roma, si stabilisce a Pesaro munito di licenza di banco pontificia, dopo una permanenza ad Ancona, Prospero Marini 60, che per le relazioni con Roma si associa il figlio Angelo 61 e il fratello Asdrubale che continuano a risiedere nella capitale, mentre l’altro figlio Sabato, nato a Pesaro o arrivato qui da bambino, vi continuerà l’attività ingrandendola, fino ad avere relazioni con una grande piazza cambiaria europea quale Lione 62, ma conoscendo alterne sorti poiché nel 1716 per evitare il fallimento è costretto ad un concordato con i Levi Del Banco di Venezia per debiti accumulati verso di loro per operazioni sui cambi 63. I Marini sono prevalentemente, anche se non esclusivamente, dediti alle attività di intermediazione finanziaria 64: raccolgono depositi per poi investirli nei grandi banchi romani, commercializzano ‘luoghi di monte’ – vale a dire le quote del debito pubblico dello Stato pontificio –, acquistano rendite commendatizie da esponenti di famiglie nobili, eseguono operazioni sui cambi; oltre ai tradizionali mutui – solitamente al 6% annuo –, praticano il credito di investimento agli imprenditori locali, ad esempio il 27 maggio 1715 Sabato Marini dà a cambio al 5% annuo, per tre anni, a Giacomo Gobbi sc. 300 ducali “per riedificazione di una casa e muraglia ad uso di concia sita lungo il vallato de’ molini” 65.
Ancora, fra fine ‘600 e inizio ‘700, confermando una tendenza che si manifesta anche ad Ancona, si fanno più frequenti i rapporti con Mantova, il cui nucleo ebraico si avvia ad una vistosa espansione economica dopo essere passato sotto il dominio absburgico. Di Mantova sono, ad esempio, David di Abram Vita Fani e Vidal Levi Monferini rispettivamente procuratore e acquirente di una quota dei crediti dei Levi Del Banco a tenore del concordato sottoscritto con Sabato Marini nel 1716.
Non si incontrano invece a Pesaro – stando almeno alla documentazione sinora esaminata – presenze stabili o temporanee di ebrei provenienti dall’opposta sponda adriatica o in genere dal Levante, frequentissime al contrario ad Ancona; è un elemento significativo e perfettamente coerente con la collocazione funzionale propria di Pesaro nel contesto degli scambi interadriatici quale mercato secondario di redistribuzione. Con questo non si vuol dire, ovviamente, che dal ghetto di Pesaro non si commerci direttamente con l’altra sponda, ma che Pesaro all’interno di tale sistema di scambi non è una piazza mercantile sulla quale si incontrano mercanti delle due sponde – funzione che nel medio Adriatico si dividono Ragusa e Ancona –, quanto punto di arrivo e di partenza per il ricevimento e l’inoltro di merci. Il caso che segue è indicativo:
il 24 maggio 1675, “paron Marco figlio di Giorgio da Pastrovicchio, Stato Veneto ne’ confini della Dalmatia, […] vende et aliena a David Coen ebreo di Pesaro migliara venti incirca di tabacco in foglia di Cattaro bono, non marcio, né putito, ma bene conditionato, da portarsi da detto paron Marco e con effetto nella quantità suddetta consegnarsi a detto David Coen in porto di questa città di Pesaro, nel fine del mese di marzo prossimo avvenire 1676, con tarra libre 4%, […] per prezzo di sc. 31 e _ di paoli 10 a scudo il migliaro al peso di Pesaro” e impegno di pagamento in contanti alla consegna 66.
Il non essere Pesaro piazza di transazioni interadriatiche spiega perché qui sia presente una unica universitas –67 mentre se ne trovano due ad Ancona, l’italiana e la levantina -; altra questione è l’esistenza nel ghetto di Pesaro di due sinagoghe, l’italiana e la sefardita (o spagnola), la seconda è infatti una sopravvivenza degli anni in cui Guidubaldo II nel 1556 aveva accolto a Pesaro, concedendo loro ampi privilegi, gli ebrei portoghesi espulsi da Ancona. Di fatto fra tardo ‘600 e ‘700, fra gli amministratori degli organismi che fanno capo alle due scole si incontrano indifferentemente membri delle stesse famiglie.
Altro indizio della posizione secondaria che occupa Pesaro nel sistema di scambi interadriatici è offerto dalla scarsa diffusione del contratto di cambio marittimo;68 qui infatti il prestito concesso ad un capitano di nave per finanziare una spedizione mercantile viene assimilato al contratto di mutuo, e come tale registrato presso i notai. Ad esempio, il 21 febbraio 1674 Prospero Marini “dà a mutuo” ai capitani Bonifacio Gambucci e Lorenzo suo figlio di Pesaro, “sc. 380 moneta corrente di grossi 20 a scudo, in tanti paoli e testoni”, da restituirsi entro un anno, al tasso del 6% annuo 69.
6. Fra ‘500 e ‘700 la tipologia di informazioni relative alle attività economiche degli ebrei trasmesse dalle fonti notarili – a Pesaro come altrove sulla sponda occidentale adriatica – cambia in misura considerevole, infatti se nel ‘500 è elevata la percentuale di atti che registrano transazioni commerciali, operazioni di credito, e in genere fanno riferimento all’oggetto di attività, nel corso del tempo la crescente fiducia riconosciuta dalla comunità mercantile e dalle istituzioni – a cominciare dai tribunali mercantili – a scritture e registrazioni private, il diffondersi presso i mercanti dell’uso di registrare sistematicamente le operazioni effettuate e di tenere una regolare contabilità secondo criteri largamente riconosciuti e adottati dalla comunità mercantile – per i titolari di banchi di prestito questi sono elementi acquisiti sin dall’età medievale –, il generalizzarsi di pratiche e usi mercantili condivisi fanno sì che dalla fine del ‘600 e sempre più nel corso del ‘700 si renda superfluo il ricorso alla registrazione notarile nel caso della larga maggioranza delle ordinarie operazioni e si vadano pertanto rarefacendo le informazioni relative all’oggetto dell’attività delle imprese ebraiche, mentre proporzionalmente aumentano le notizie relative alla vita dell’azienda, e particolarmente a quegli avvenimenti che hanno dato luogo a contestazioni, quali divisioni, sistemazioni di conti fra soci, composizioni, concordati. Uno studio comparato relativo ai contenuti delle attività darebbe pertanto scarsi risultati per la disomogeneità delle informazioni.
Fra ‘600 e ‘700 l’esercizio del credito non è più il settore di attività trainante all’interno degli insediamenti ebraici adriatici, né quello in qualche modo caratterizzante questi ultimi verso l’esterno; il settore trainante è quello mercantile e per gli ebrei di Pesaro, come per quelli dell’area adriatica in genere, i contenuti dell’attività mercantile possono di volta in volta cambiare in risposta alle sollecitazioni dei mercati, adattandosi alle opportunità che presentano le specifiche situazioni locali. Piuttosto, a parere di chi scrive, il primo elemento che accomuna gli imprenditori ebrei dell’area adriatica fra ‘600 e ‘700, siano essi prevalentemente mercanti o operino nel settore del credito, da Venezia con i suoi domini, a Ragusa con le propaggini balcaniche, ad Ancona, Senigallia, Pesaro, è la struttura dell’impresa.
Quella ebraica è nel suo impianto di base una impresa individuale ma fortemente ancorata ad un retroterra familiare; ma se questo vale così per i sefarditi come per gli italiani – la scarsa presenza di ebrei di origine tedesca a sud di Venezia non consente di individuare in area medio-adriatica un loro specifico modello di impresa – non pochi né marginali sono gli elementi di differenziazione. Benché, come accennato, la comunità mercantile ebraica di Pesaro si arricchisca fra ‘600 e ‘700 di non poche presenze sefardite, non va dimenticato che la sua identità resta quella di una comunità a larga prevalenza italiana.
A differenziare sefarditi e italiani è in primo luogo il diverso rapporto che l’imprenditore stabilisce con il contesto territoriale nel quale opera. I sefarditi provengono da una cultura e da una tradizione mercantile itinerante, vale a dire che il mercante si sposta frequentemente, anche su lunghe distanze e per lunghi periodi, e non è eccezionale che trasferisca la sua base di attività da un luogo ad un altro. Al di là della componente rappresentata dal retaggio culturale, tale propensione ad una accentuata mobilità è favorita dal regime istituzionale del quale i sefarditi godono: levantini o ponentini che siano, nei porti italiani essi beneficiano quasi sempre di un regime privilegiato che consente loro di fruire, oltre che di facilitazioni tariffarie e fiscali, di una considerevole libertà di movimento e di poter mutare luogo di residenza più facilmente di quanto non sia consentito agli italiani. Anche in quei luoghi dove – come nella Pesaro del ‘600 e del ‘700 – non è previsto per loro, diversamente che ad Ancona, un regime di immunità e privilegi, i sefarditi sono soggetti a minori limitazioni rispetto agli italiani se vi si stabiliscono in qualità di commoranti anziché entrando a far parte come residenti a pieno titolo della locale comunità.
Viceversa, la tradizione mercantile italiana – anche ebraica – ormai consolidatasi all’inizio del ‘600 preferisce far viaggiare più le informazioni che la persona del mercante, si dimostra orientata a radicarsi nel territorio, è insomma una cultura di mercanti tendenzialmente stanziali che le limitazioni imposte dal regime dei ghetti – evitando tuttavia di intendere la segregazione in senso troppo letterale, dato che ci si riferisce ad un centro di commercio marittimo – tendono ad irrigidire.
Pertanto, benché l’impresa ebraica sia in questo periodo, così fra i sefarditi come fra gli italiani, una impresa individuale, l’imprenditore sefardita viene reso responsabile già all’interno dell’azienda paterna molto presto, con incarichi e deleghe progressivamente più ampi che lo portano in giovane età attraverso mercati ed empori lontani, e, compiuto il suo addestramento, viene presto emancipato – nel pieno senso giuridico – e messo in condizione di avviare una propria attività; talché si può dire che nel mondo sefardita tante sono le imprese quanti sono i mercanti, e l’espressione impresa individuale va intesa qui nel senso più strettamente letterale. Per converso, la propensione degli ebrei italiani ad una maggiore stabilità dell’impresa, così nello spazio come nel tempo, nel senso di propensione alla continuità dell’azienda, fa sì che in questo caso l’espressione impresa individuale identifichi un tipo di impresa le responsabilità di gestione e controllo sulla quale restano ben più a lungo accentrate nelle mani del pater familias. Ovviamente anche nell’impresa italiana i figli entrano presto in azienda ma restano anche più a lungo nella ditta paterna, soggetti alla patria potestà ben oltre quella soglia del venticinquesimo anno che il diritto comune intermedio e gli statuti stabiliscono per l’ingresso nella maggiore età, e in posizione subordinata rispetto al padre. Se fra i sefarditi i figli vengono incoraggiati ad avviare una attività in proprio non appena se ne dimostrano all’altezza, fra gli italiani il pater familias tende a conservare il controllo dell’impresa e sull’attività dei figli finché gli è possibile. Una tendenza che il regime costrittivo del ghetto, in quanto inevitabilmente favorisce lo sviluppo di meccanismi di controllo sociali interni indotti da esigenze di autoconservazione, finisce per ribadire.
Gli esempi di concessione di emancipazione non sono frequenti nella documentazione notarile di Pesaro, ma riproducono lo schema comune per questo tipo di atti in area adriatica anche ai sefarditi, incluso il condono da parte del padre delle quote di capitale anticipate al figlio a diverso titolo:
il 29 marzo 1792, alla presenza del podestà di Pesaro, David Abram Levi e Bonaiuto suo figlio espongono “ritrovarsi detto Bonaiuto in età d’anni 29 ben pratico e versato in negoziazioni, non meno che istruito, idoneo e informato delle cose famigliari e domestiche, ma non potendo lo stesso Bonaiuto liberamente e indipendentemente esercitare li suoi interessi e ritrovandosi soggetto e sottoposto alla patria podestà e desiderando di poter fare, agire ed operare con libertà ed indipendentemente da esso padre […] lo ha humilmente supplicato a volerlo liberare dalla suddetta patria podestà […e…] da quest’ora in poi resta detto Bonaiuto Levi uomo di sua piena ragione e come padre di famiglia con poter far contratti, obblighi, e qual si sia altro interesse tanto attivo quanto passivo […]”. In questa occasione “Abram rilascia, condona e rimette in virtù della presente emancipazione, tutto ciò che potesse aver cumulato insino al presente giorno e che avesse o potesse avere presso di sé per qualsivoglia titolo […] senza però pregiudizio di succedere ab intestato” 70.
Per i sefarditi il ciclo di vita dell’impresa solitamente coincide con quello della vita attiva del mercante con il quale l’azienda si identifica pienamente e alla morte del quale l’azienda stessa cessa; i figli maschi ereditano in parti uguali – indipendentemente dalla successione di nascita – merci, contanti, crediti e ciascuno ingloba la quota a lui spettante nella propria attività; si tratta infatti di aziende mercantili o di intermediazione finanziaria, dove il capitale è sempre capitale di esercizio, non ci sono immobilizzi in capitale fisso.
Quanto ai comportamenti degli ebrei italiani, la documentazione di Pesaro mostra come fra questi ultimi benché l’azienda non pervenga mai in antico regime ad acquisire una propria personalità giuridica, distinta e separata dalla persona fisica dell’imprenditore, e pertanto la responsabilità di quest’ultimo sia sempre illimitata poiché non c’è distinzione fra capitale mercantile e capitale personale e l’imprenditore risponde anche con tutto il capitale personale, non di meno già dagli ultimi decenni del ‘600 si diffonda l’uso di non cambiare intestazione all’azienda alla morte del titolare, introducendo una distinzione fra la denominazione della ditta, alla quale si tende a conferire stabilità, e la persona dell’imprenditore che nel corso del tempo può cambiare. Fra i non rari esempi: “Sabato Marini, ebreo negoziante di questa città di Pesaro, principale e complimentario della ragion cantante in essa città Prospero Marini”, “Sabato Leoncini, complimentario e rappresentante della ragion cantante in Pesaro Jacob Della Bella e Saul Leoncini”. Certo, dal punto di vista giuridico cambia poco, e tuttavia si tratta di un miglioramento incrementale che garantisce la continuità dell’attività in occasione dei ricambi generazionali ma soprattutto consente di conferire all’impresa una stabile struttura organizzativa e gestionale quando essa assuma forma societaria, rendendo superfluo il ricorso alle procure personali a complimentarii, agenti e corrispondenti. Un solo esempio valga a mostrare come il processo inteso a definire l’intestazione dell’azienda e a precisare in relazione ad essa la posizione di soci principali e complimentari possa essere seguito in fieri:
1673 – Amadeus Zaccaria D’Urbino, hebreus Pisauri, tam eius nomine proprio quam ut socius, complimentarius et administrator rationis et negotii cantantis in hac civitate sub nomine Leonis Beer et sociorum 71;
1675 – Amedeo e Lazzaro D’Urbino, complimentarii, administratores et proprietarii rationis bancariae cantantis in hac civitate sub nomine Leonis Beer et sotiorum 72;
1677 – Amadeo Zaccaria e Lazzaro, fratelli e figli di Josef D’Urbino, uti domini, patroni, et proprietarii rationis bancariae cantantis in Leone Beer et sociis 73.
E tuttavia, il ricorso alla procura anche nella forma più ampia, dove il mandatario è autorizzato a prendere impegni persino per i soci del mandante, è ancora frequente; ad esempio, il 14 settembre 1676, Samuel Tedesco sottoscrive mandato di procura per Prospero Marini di Roma, abitante in Pesaro, “al presente commorante in Venezia, a poter fare qualsivoglia publico instrumento, scrittura privata, biglietti, et ogni altra carta d’obligatione, niuna eccettuata, con la quale non solo possi obligare li effetti tutti della compagnia con Samuel di Jacob Levi, ma anco tutti gl’averi et effetti, così mobili come stabili, presenti e venturi di propria raggione di detto Todesco e della sua ditta e casa niuno eccettuato” 74.
Gli accenni ai fratelli D’Urbino e a Samuel Tedesco contengono un richiamo ad un istituto mercantile comune a sefarditi e a italiani, la società di negozio o compagnia di negozio, espressione che non indica tanto un particolare schema di contratto di società mercantile (negozio = attività mercantile, attività di negoziazione), quanto una vasta tipologia di accordi societari estremamente flessibili nelle clausole e nelle modalità di partecipazione. Fra ‘600 e metà ‘700 è l’elemento che più di ogni altro caratterizza l’organizzazione delle attività economiche ebraiche in area adriatica e costituisce un correttivo alla estrema parcellizzazione della realtà aziendale. Tuttavia anche le società hanno dimensioni modeste e quanto a numero di soci, poiché le parti contraenti sono abitualmente due, anche se più di due possono essere i soci come mostra il caso della Leon Beer e soci, e quanto a capitale apportato che difficilmente supera, complessivamente, i due/tre mila scudi. Inoltre, la flessibilità della società di negozio fa sì che possa rispondere a scopi diversi: per i sefarditi è assimilabile alla reciproca rappresentanza commerciale fra due soci che operano risiedendo su piazze lontane l’una dall’altra, per gli italiani tende ad avvicinarsi all’accomandita. Ancora, la società di negozio è sempre prevista come un accordo di breve durata – in genere tre anni al massimo – rinnovabile, ma mentre fra i sefarditi il ritmo di natalità e mortalità delle società è vorticoso, gli italiani perseguono una maggiore stabilità e frequentemente le società vengono confermate, sino a dar luogo talvolta all’esito più stabile, cioè la formalizzazione in ragion cantante come nel caso di Leoncini e Della Bella o di Leon Beer e soci. E’ consuetudine che questi accordi societari vengano affidati a scritture private, solo quando emergono contrasti fra i soci o imprevisti, vengono registrati presso un notaio, e a questo proposito è significativo che sulle piazze mercantili dove forte è la presenza sefardita l’emergere di ‘contrasti e differenze’ fra soci sia assai frequente, principalmente – a giudizio di chi scrive – a ragione della inadeguatezza di metodi e strumenti contabili utilizzati in relazione alla organizzazione degli scambi; al contrario a Pesaro, e dunque in un contesto ebraico-italiano, l’insorgere di contestazioni fra soci o fra corrispondenti al momento dei rendiconti o nel caso di morte di un socio è raro.
Il 24 maggio 1703, “essendo sin al presente giorno, come l’infrascritte parti asserirono, seguiti diversi interessi e negotii tra Salom qm Isach Mondolfi ebreo di questa città di Pesaro e Gioseffo Ezechiele, Simon, e Vita Sezzi ebrei d’Urbino sì per scritture publiche, come private, biglietti, pagarò, partite di libro, tratte et altro, sono finalmente venuti alla terminatione di questi, e riconosciuto dalle medesime parti tutto sono anche stati apurati e saldati li conti del dare et avere vicendevolmente di maniera tale che tra di loro resta terminato ogni sorte d’interesse fin a questo giorno, toltone solamente quello che potrebbe ridondare dalla lite pendente indecisa tra detti Salom, Gioseffo e Vita da una con Giacob della Bella e Michele Saul Leoncino e loro ragione cantante in Pesaro dall’altra parte a causa della transattione et accordo con questa avuta in Livorno et quietanze per publici instrumenti stipulati in detta città di Livorno e nella città di Forlì in Romagna […] et l’altro preteso credito contro il detto Mondolfi da Christofaro Fantini di Bergamo […].” Talché, “per tutti e singoli negotii, interessi, debiti, crediti sino al presente giorno […] sì per causa di qualunque compagnia come per qualsivoglia altra causa […] e lacerate tutte le carte sì di debito come di credito si fecero quietanza generale et generalissima” 75.
Morto Amadio quondam Josef Racanati “pretese Isac quondam Pacifico D’Osimo di restare creditore della di lui eredità e di Isac fratello di detto Amadio, per sc. 1300 romani”, laddove il figlio di Amadio, Josef, sostiene che D’Osimo è creditore per soli sc. 960 e b. 27 e _ “per il scritturato a libri da detto Amadio per il negozio che teneva con detto Osimo”. Quale arbitro e amicabile compositore viene scelto Caim Levi, che accetta come prova le scritture contabili redatte da Amadio, pertanto Isac Recanati fratello di Amadio, il figlio di quest’ultimo Josef e gli altri eredi restano debitori di Isac D’Osimo nella somma di sc. 960:27 e _, da pagarsi come segue: sc. 260:27 e _ entro il maggio successivo in contanti, i restanti 700 in rate di sc. 100 l’anno.
Qui ad originare contrasti o incompatibilità che portano allo scioglimento improvviso di società sono altri motivi, come mostrano gli esempi riportati all’ultimo paragrafo.
Tuttavia, le controversie sono frequenti anche nel ghetto di Pesaro, ma più che fra soci insorgono all’interno delle famiglie, poiché la più grave vulnerabilità degli italiani, esasperata dal regime del ghetto, risiede nella coabitazione di aggregati familiari polinucleari e nel possesso ab indiviso di capitale mercantile, jus gazagà, beni mobili di vario genere, capitale dotale apportato dalle donne. Diverse possono essere le cause del contendere, spesso oggetto del contrasto è la divisione di uno jus gazagà 76, ma comune è il disagio del ghetto, nelle famiglie più ricche come fra quelle più modeste del ceto mercantile, tanto che qualcuno tenta di prevenire l’insorgere di contrasti familiari fra i successori con precise disposizioni testamentarie.
Nel 1693 in merito alle controversie vertenti fra i quondam Raffael ed Eliseo Bolaffi da una, e, dall’altra, Gabriel e fratelli, figli del quondam Isach Bolaffi, era stato pronunciato lodo e fatto compromesso a tenore del quale Rafael ed Eliseo erano stati dichiarati debitori degli altri per sc. 300 romani. Inoltre, gli eredi di Eliseo – Israel e Samuel – risultano debitori di Gabriel per sc. 250, in forza di scrittura privata, “talché si sono posti al sicuro in luogo immune per salvare le proprie persone e li loro beni et effetti soggetti oltre ai debiti con gli altri creditori alle ipoteche dotali delle loro mogli”. Lo scioglimento avviene, come di consueto, per giudizio arbitrale e “amicabile composizione” a tenore della quale Gabriel e fratelli dovranno “avere e conseguire” dagli eredi di Eliseo sc. 300 romani, e cioè: sc. 100 a tre mesi dalla stesura dell’accordo, o in contanti “o in tanti capitali di merci da valutarsi il suo prezzo a contanti”, sc. 200 in contanti nel termine di 4 anni, in rate di sc. 60 l’anno le prime tre e di sc. 20 l’ultima” 77.
Samuel e Perla, coniugi D’Urbino, erano vissuti “in comunione” con il loro figlio Vita e Zaffira di Tobia Levi di Ferrara, moglie di quest’ultimo, che aveva portato in casa dei D’Urbino la dote di sc. 600 ducali, pagata da Isepo Zalliel zio di Zaffira; e “essendo il più delle volte simili comunioni sogliono portar discordie, essendo così accaduto nel caso presente”, si accordano per la divisione: Samuel e Perla restituiscono “a loro figlio e nuora ogni effetto sì dotale di questa e qualunque altro” loro appartenga, ed anche gli effetti e crediti che Vita e Zaffira “tengono nel negozio della compagnia cantante tra Vita e il signor Costantini in questa città di Pesaro” 78.
Nel 1715 Abram Mondolfo aveva dato in moglie la figlia Sara ad Emanuel Macerata, di Venezia, con promessa di dote di sc. 1500 ducali, pari alla dote che era stata assegnata al quondam Salamon Mondolfi, primo marito di Sara e fratello di Abram. La dote era stata “pagata e consegnata” al Macerata, ma “dopo aver continuato per qualche anno detti coniugi Macerata la convivenza assieme col detto Abram Mondolfi e nella di lui casa d’abitazione di Pesaro, insorsero alcune differenze e dispareri per i quali risolsero li coniugi d’abbandonare la coabitazione del detto suocero e padre rispettivamente, e quanto alla dote, restò appresso detto Mondolfi la somma di sc. 500 in tanti ori, gioie, argenti et altri effetti d’essa dote, con ducati 750 moneta di Venezia avuti in contanti per la donazione fatta a contemplazione di detto secondo matrimonio da Salomon Macerata ebreo mantovano zio del detto Emanuelle col peso et obbligo del Mondolfi di pagare dette somme per l’interusurii e frutti accordati nella somma di sc. 75 annui moneta corrente suddetta, sin tanto che avesse le suddette somme ritenute e non restituite. […] Rittornati poscia dopo il lasso di poco tempo li coniugi ad abitare e convivere con detto Abram nella detta sua casa, ma suscitati di nuovo fra loro altri dispareri e discordie, risolsero d’absentarsi da questa città e portarsi ad abitare in quella di Venezia, dove ancor di presente si trovano […]”. La richiesta da parte dei due coniugi di restituzione della dote dà luogo ad una lunga controversia 79.
“Discordie e differenze” emergono fra Isac e Jacob “fratelli germani D’Urbino ed eredi tanto del comune padre Rabino Amadio Zaccaria D’Urbino quanto del loro fratello Graziadio “, per risolvere le quali vengono designati arbitri Isac di Giuseppe Recanati e Isac d’Abram Aboab, che pronunciano lodo in data 19 giugno e 5 luglio 1731 ”rispetto alla divisione delle case et altro [cioè] mobili, suppellettili, masserizie di casa, merci del negozio ed ogn’altra cosa ereditaria paterna e fraterna”, libri inclusi 80.
Il 5 luglio 1734 Abram Costantini dichiara sotto giuramento “che tutte le robbe consistenti in gioie, ori, argenti, utensili di casa, abiti, biancheria, altri mobili proprij di detto Abram e levati dalla di lui casa da Emanuele Costantini suo figlio e Laura sua moglie e nuora respettivamente sono stati da essi Emanuele e Laura coniugi portati via senza che sia preceduta alcuna notizia o consenso del medesimo Abram e presentemente vengono da detti coniugi ritenute contro la volontà e consenso di esso Abram, mentre egli ha solamente inteso et intende dopo aver saputo tale trafugazione di potere a suo beneplacito et arbitrio ripetere li suddetti mobili e non permettere che detti coniugi se ne impadronischino […]” 81.
Morto Vita Elia del fu Josef Recanati lasciando Camilla e Perla figlie di primo letto avute da Malcà del fu Leone Ajò di Ancona, e Bonaventura Del Bene sua seconda moglie, “e prevedendo prima di morire che facilmente doppo la sua morte potessero accadere litigij tra dette sue figlie e detta Bonaventura seconda sua moglie col poter pretendere le prime dalla di lui tenue eredità la restitutione della dote della suddetta Malcà loro madre e la seconda la ricupera parimente della sua dote, sul fondamento che dette figlie fossero anteriori nel credito e detta Bonaventura posteriore a quelle per l’essistenza de’ di lei effetti mobili portati sin dal suo sposalizio con esso Elia, dichiarò e volse che tutto il suo capitale ereditario si dovesse ripartire in tre parti uguali, una delle quali si assegnasse ad essa Bonaventura e le restanti due a ciascuna di dette sue figlie.” L’ammontare dell’eredità non raggiunge gli 800 scudi e le quote sono pari ciascuna a sc. 237 e b. 31 in mobili e beni; essendo minori le due giovani – Perla la maggiore delle due ha circa 16 anni – viene loro assegnato un curatore nella persona dello zio paterno Isac Recanati che assieme all’altro suo fratello Moisé si incarica della divisione dell’eredità e di consegnare a Bonaventura la quota a lei spettante 82.
7. Un indicatore economico, a più livelli, relativo alle imprese a base familiare del ghetto è rappresentato dalle costituzioni di dote che rappresentano la larga maggioranza delle registrazioni notarili riguardanti gli ebrei di Pesaro nel secondo ‘700. Al di là delle esteriori somiglianze giuridico-formali, poiché così per gli ebrei come per i cristiani la stipulazione dell’accordo dotale si inquadra nel medesimo schema contrattuale previsto dal diritto comune intermedio, la costituzione di dote per la classe mercantile ebraica risponde ad una funzione non confrontabile con quella che svolge fra i ceti abbienti della società cristiana. Per le famiglie mercantili ebraiche infatti la dote, che si compone abitualmente di tre porzioni, una prima espressa in contanti, una seconda in ori e gioie, una terza in abiti, corredo domestico ed eventualmente suppellettili, equivale – quanto alla quota espressa in contanti – ad un effettivo apporto di capitale mercantile nell’azienda della famiglia della quale la donna entra a far parte, al punto che la moglie viene a presentarsi in una posizione molto simile a quella di socio accomandante e il marito, o più esattamente la famiglia di lui, a quella di socio accomandatario.
Di fatto l’accordo di matrimonio ha la funzione di suggellare una alleanza fra famiglie mercantili, e il capitale dotale, costituito dalla dote vera e propria assegnata alla donna dalla famiglia di origine più la sopradote (tosefeth) assegnatale dal marito e pari ad una percentuale della dote determinata dalla consuetudine locale e pertanto variabile da luogo a luogo – l’uso del ghetto di Pesaro fissa l’ammontare del tosefeth nella proporzione del 12% -, viene ricevuto con responsabilità solidale dal marito e dal padre di lui, o se quest’ultimo non è più in vita dai fratelli o da un altro uomo della famiglia, che ne assumono il controllo.
Proprio perché la porzione di dote costituita in contanti viene incorporata nel capitale aziendale della famiglia della quale la donna entra a far parte, la restituzione alla donna di questa stessa quota di dote nell’eventualità della morte del marito, pur prevista e disciplinata dal diritto comune e dagli accordi matrimoniali, assai di rado viene effettuata quando dal matrimonio siano nati figli. Così fra i sefarditi come fra gli italiani, a Venezia come ad Ancona come a Pesaro; e poiché è frequente che il capitale dei coniugi rimanga incorporato in quello della famiglia del marito o venga accorpato ab indiviso a quello dei fratelli di lui o dei figli una volta diventati adulti, quasi sempre la richiesta di restituzione di dote da parte di una vedova sfocia in una controversia con i fratelli e i parenti del marito o con i propri figli. Le divergenze vengono solitamente risolte per amicabile compositione, a tenore delle quali la vedova rientra di solito in possesso di beni mobili e suppellettili di sua proprietà, ma quasi mai ottiene di disporre della quota in denaro, in cambio della quale gli uomini della famiglia che detengono il controllo del capitale aziendale si impegnano a garantirle alloggio, vitto e a provvedere a tute le sue esigenze in ragione del suo status sociale ed economico.
Nel 1733, morto Michel Saul Leoncini, la vedova Sara aveva chiesto ai figli Leone, Jacob e Samuel la restituzione del capitale dotale consistente in dote, pari a sc. 3894 e b. 23 ducali e sopradote pari a sc. 924 e b. 18. “Essendo altresì che il detto Leone s’allontanasse dalla casa paterna e si portasse a convivere separatamente dagli altri suoi fratelli, co’ quali continuasse la medesima Sara ad abitare e convivere conforme tuttavia abita e convive, ricevendo anche da essi i necessari alimenti e tutt’altro necessario per il di lei sostentamento, e che presumesse con jattanza d’impedire alla medesima il poter disporre liberamente sì degli effetti suoi dotali che del suddetto tosefed di maniera che presumesse ancora d’astringerla co’ rimedij della legge a prestare idonea sicurtà di conservare detti beni per conseguirne a suo luogo e tempo qualche portione che de jure gl’avessero potute competere. In questo stato di cose, si sono interposti communi amici affine di sedare tali istanze e differenze insorte e porre in pace e libero dominio detta Sara, hanno stabilito col comune consenso delle parti, convenuto, concluso che la medesima Sara anche a motivo del maritaggio di Gentile, figlia di detto Leone seguito con Giacob Del Bene in conto della portione di detta dote e di detto tosefet ed in conto della legittima e tutt’altro che puole ed in qualunque tempo al medesimo Leone potesse competere anche per qualsivoglia ragione di successione, debba ad esso Leone o suoi dare et effettivamente sborsare scudi 425 moneta romana nel seguente modo, cioè paoli 83 al mese cominciato il primo giorno del corrente mese d’ottobre e finire come segue fino all’intiero pagamento dell’accennata somma di sc. 425” 83.
Qualora poi si tratti di una seconda vedovanza, il problema diventa intricatissimo, come nel caso di Perla Del Vecchio, “vedova in ultimo matrimonio di Eliseo Bolaffi”, creditrice oltre che della dote consegnata al secondo marito anche di una quota della prima dote che i figli di primo letto non le hanno restituito84. O ancora in quello di Gentile, “vedova in secondo matrimonio del quondam Isac Moscati, in terzo del quondam Emanuel Arcangeli”, coinvolta in una lunga controversia con il figlio di secondo letto, Sabato Moscati per la restituzione della dote 85.
Diversamente, qualora in seguito a divisioni fra genitori e figli o fra fratelli si chieda lo scorporo del capitale dei coniugi che ovviamente include quello dotale della moglie – tosefeth compreso -, al termine delle pressoché inevitabili controversie i coniugi riescono ad ottenere anche la restituzione della quota in denaro della dote, poiché in questi casi si effettua una vera e propria divisione aziendale, che invece non ha luogo nel caso di richiesta di restituzione di dote da parte di una vedova con figli, valga l’esempio riportato sopra di Abram Mondolfo ed Emanuel Macerata.
Non infrequenti sono poi situazioni di questo tipo: nel 1693, Jacob Vivante di Ancona abitante a Pesaro ha in consegna “tutti i beni mobili e masserizie” dei fratelli Marco e Levi Leoncini di Padova, debitori di Moisé Mazor; dovendosi assentare da Pesaro rimette l’incarico e consegna le chiavi a Isac D’Osimo, ma poiché su quei beni rivendica diritti anche Smeralda Bemporad moglie di Gabriel Leoncini, fratello di Marco e Levi, ne scaturisce una lunga e intricata controversia 86.
Talvolta i capitali dotali vengono destinati a costituire un capitale di riserva, investito a rendimento fisso; è questa una tendenza ben documentata in situazioni diverse e dalle diverse motivazioni. Un tipo di comportamento è quello delle famiglie immigrate da Venezia – i Costantini, i Mazor – che da Pesaro come da Ancona come a Venezia mettono in atto regolarmente e consapevolmente la scelta di investire i capitali dotali nell’acquisto di quote del debito pubblico veneziano; sono aziende familiari molto solide e l’ammontare delle doti è elevato. Così, fra i numerosi esempi che si potrebbero fare, il 16 aprile 1674, Moisés Mazor, come procuratore della moglie Simchà, rilascia mandato di procura a Domenico Maffei di Venezia per riscuotere le rate maturate dei capitali dotali di Simchà depositati nella Zecca di Venezia 87; il 6 ottobre1702, Abram Costantini, come marito di Rachele del quondam Emanuel Mondolfo di Pesaro e legittimo amministratore dei beni di lei, revoca la procura fatta a Isac Levi Morrera ebreo di Venezia e gli sostituisce Francesco Motti mercante veneziano “a riscuotere i frutti o aggi della Zecca di Venezia dal banco del deposito del dazio del vino, ridotti dalli 5% alli 4% lì esistenti a nome di detta Rachele” 88.
E’ interessante notare che in una precisa congiuntura, durante l’ultima guerra turco-veneziana, da parte di alcuni investitori la fiducia nei titoli di stato di Venezia vacilli e si decida di convertire l’investimento a rendimento fisso in capitale di rischio 89:
Il 5 giugno 1716, Sara Mazor vedova di Moisé di Elcanà Costantini costituisce suo procuratore il suocero Elcanà “a poter vendere et alienare li capitali che essa si trova havere in Venezia, assegnateli per le sue doti, loro augumento e quanto anco d’estradote se li competeva contro l’eredità di detto quondam Moisé suo marito e contro Elcanà di lui padre, il prezzo de’ quali da ritraersi tanto esso Elcanà quanto Samuele di lei figlio e di questo nipote, con il parere e consenso d’essa Sara, hanno stabilito di convertire in negozio formale da eriggersi in questa città e suo ghetto per ritrarne così maggiore utile e comodo, tanto più che, come si asserisce, presentemente da essa Serenissima Repubblica né pure vengono pagati l’intieri annui loro frutti; et essendo essa Sara a questo condiscesa, benché sinistro possi anco accadere l’essito nella predetta negociacione, perché essi Elcanà e Samuele hanno ad essa accordato che il negozio erigendo e merci che di mano in mano nel principio, mezo e fine a l’istesso si porranno restino sempre sotto l’ippoteca e speciale obligo a di lei favore come provenienti in primo capo da detti suoi capitali che saranno scossi e venduti, come anco di promettere di assicurare tutto il capitale che dalle vendite suddette ritraerassi, e le predette dote, estradate et augumento, obligando per questo anco tutti li loro beni e conditione ancora di havere nell’impiego sudetto il di lei congruo alimento e sostentamento, in luogo dell’annue rendite che si ritraono e che si ritraerebbero stando detti capitali nel stato che al presente si trovano”. Nel negozio – cioè la società – Samuel sarà “preposto alla negociacione, benché in ettà minore”, ed Elcanà sarà il principale; quanto alle somme che si ritireranno dal Deposito dei Governatori all’Entrata di Venezia, Elcanà si impegna “queste convertire et errogare nella compra di tante merci, et erriggere dentro il ghetto di questa città il negozio come sopra, con la ragione che da essi sarà stabilita” 90.
Tuttavia, ancora il 23 aprile 1754, Consola del quondam Elcanà Costantini e vedova di Leone Costantini, nel redigere il proprio testamento designa quali eredi universali
Moisé ed Elcanà, figli suoi e di detto Leone in equali porzioni, con questo però, che non possono mai né per tempo alcuno vendere, alienare, impegnare, né in qualsivoglia altro modo distrarre il capitale di ducati tre milla e sessanta che ella si ritrova avere nella Zecca di Alvina [sic = nel deposito del dazio del vino] in Venezia di sua ragione dotale, volendo che questo capitale resti soggetto ad un particolare fideicomesso in favore de’ figli che saranno per nascere da detti eredi istituiti per egual porzione”, e con la condizione che non si possano da parte degli eredi neppure alienare o impegnare i frutti dello stesso capitale “ma essi debbano riscuotersi di rata in rata” 91.
Nel caso del gruppo di sefarditi di provenienza veneziana i riferimenti agli jus gazagà sono rari, e quei pochi confermano la preferenza accordata all’investimento nel debito pubblico:
il 9 agosto 1694, Rachele, vedova di Moisé Costantini costituisce procuratore Menachem figlio di Moisé e suo ad alienare uno jus gazagà a lei spettante su una casa sita nel Ghetto Nuovo di Venezia e ad investirne il ricavato a nome della costituente nel deposito del vino di Venezia al 5%, “o al tasso che viene pagato” 92.
Per i Leoncini, veneti di Terraferma, il possesso di jussi sembra avere un ruolo importante nella distribuzione dei loro investimenti: ad esempio, il 20 settembre 1720 “Marco Leoncini, ebreo di Padova, abitante al presente in Pesaro”, che possiede ab indiviso “con suo fratello Gabriel ed altri Leoncini di Padova più e diverse case [cioè jussi] nel ghetto di detta città”, nomina procuratore lo stesso Gabriel a seguire la divisione dei beni familiari 93.
Quanto al nucleo ebraico da tempo insediato a Pesaro, l’investimento in jussi è largamente diffuso e, come accennato, frequenti sono i casi di jussi assegnati in dote; in astratto il possesso di jussi può essere considerato come l’accantonamento di una quota di capitale di riserva che origina una rendita fissa, ma qui si ha l’impressione – che tuttavia dovrebbe essere confermata dall’esame di una documentazione più vasta – che all’acquisto di jussi ci si rivolga, e in proporzioni crescenti con il procedere del ‘700, come ad un effettivo settore di investimento, e se questa tendenza trovasse conferma sarebbe un indizio del restringersi delle possibilità di investimento nell’attività mercantile.
Come accennato, l’entità della porzione di capitale dotale contribuita in contanti, rappresenta la quota di capitale di esercizio apportata dalla donna all’azienda familiare del marito, ma al tempo stesso consente di percepire l’ordine di grandezza del capitale di quest’ultima, e pertanto offre un sicuro parametro per misurare il peso economico di un insediamento ebraico a base mercantile. Inoltre, la provenienza dei coniugi è un indicatore del grado di inserimento della componente locale nel contesto mercantile ebraico sovralocale.
Nella seconda metà del ‘700 – per quel che risulta dal sondaggio sinora effettuato – i casi di doti molto elevate sono rari, e si riscontrano all’interno di una stessa cerchia di famiglie fra loro imparentate, così da lasciare intuire una consapevole strategia nelle alleanze. Inoltre la percentuale della quota contribuita in contanti sull’ammontare totale della dote è elevato. Valgano gli esempi di Giuditta Coen vedova di Josef Caim Levi e di Prospero Sabato D’Ancona che il 5 novembre 1764 sottoscrivono il contratto matrimoniale rispettivamente per la figlia Sara e per il figlio Sanson Vita; la dote pagata ammonta a 3500 scudi romani, dei quali 3000 in contanti e gli altri 500 in gioie, vestimenti, biancheria 94. Poiché, come accennato, tutti i figli maschi ereditano il capitale paterno in eguali proporzioni mentre le femmine vengono liquidate con la dote ed ereditano solo in assenza di fratelli, l’entità dell’assegnazione dotale assume significato ben diverso nel caso che la beneficiaria abbia o meno fratelli maschi. Nel caso di Sara di Caim Levi i fratelli sono due: Abram e Raffael Sanson, minori alla data della stipula del contratto nuziale della sorella e per i quali figura come curatrice la madre Giuditta. Il 3 novembre 1772 viene stipulato il contratto nuziale del maggiore dei due fratelli, Abram, fra questi e Josef del quondam Sanson Morpurgo “della città di Ancona” per la figlia di lui Sara. L’assegnazione dotale assomma a 4515 scudi romani, dei quali sc. 3670 e b. 66 e _ in contanti, sc. 529 e b. 33 e _ in “biancheria, abbigliamento e altro”, sc. 315 per spese nuziali 95. Secondo il diritto statutario, più attentamente seguito a questo proposito ad Ancona che non a Pesaro, al momento della stipula del contratto la sposa è assistita da due mundualdi abitualmente scelti fra i più prossimi parenti, ed è significativo che nel caso di Sara Morpurgo questi siano “Davide e Isach fratelli Coen del ghetto di Ancona di lei consanguinei”, e questo fa pensare – poiché Giuditta, madre di Abram è una Coen – che fra le due famiglie esistessero già legami di parentela.
Di poco più frequenti i casi di assegnazioni dotali che si collocano nella fascia fra i 2000 e i 1000 scudi: il 19 giugno 1788 viene sottoscritto il contratto fra Regina di Samuel Gentilomo di Spalato e David Abram di Jacob Josef Gentilomo “di questo ghetto di Pesaro”, con dote di 1700 scudi romani di cui 900 in contanti, 400 in gioie e ori, 400 in mobilia 96. Lo stesso anno, il 20 ottobre, si redige il contratto per Diamante di Jacob Josef Gentilomo, sorella di Abram, che sposa Isac Fano con dote di 1000 scudi romani di cui 550 in contanti e 450 in gioie, ori, vestimenti 97.
Il 15 ottobre 1794 a Regina di Alessandro Bolaffi che sposa Sabato Vita Beer viene assegnata una dote di scudi romani 1284 e b. 75, di cui: 600 in contanti, 200 in “oro e gemme”, 200 in mobili e vestimenti, 200 in “un jus gazagà di una casa comprato per detta somma da detto Alessandro”, e 84:75 in “donativi”98. Due anni dopo, il 7 settembre 1796, viene stipulato il contratto fra Riccà di Emanuel Montebaroccio e Amadio Bolaffi, con dote di scudi romani 1398, di cui 600 in contanti, 565 in vestimenti, mobili ecc., 283 in regali 99. Come si vede, in questa fascia si va riducendo la proporzione della quota in contanti sull’ammontare totale.
Più numerose le assegnazioni nella fascia dai 500 alla soglia dei 1000 scudi, a titolo di esempio:
1787,13 aprile – Rosa Levi quondam Elia “da Novillara, Stato di Modena” e Donato Beer; sc. 691 (625 in contanti, il resto in abiti) 100;
1787, 12 luglio – Debora Moscati e Tranquillo Levi; sc. 500 (150 contanti, 150 per uno jus gazagà sulla casa di abitazione dei Levi, 150 ori e vestimenti, 50 per spese di nozze) 101;
1789, 27 aprile – Bonaventura di Josef Recanati e Angelo Levi “da Novellara abitante ora in questa città”; sc. 750 (300 contanti, 200 gioie e ori, 200 vestimenti, 50 donativi)102;
1791, 3 ottobre – Bonaventura di Elia Moscati, vedova di Salomon Beer e Pellegrino Del Vecchio; sc. 600 (300 contanti, 300 gioie e ori) 103;
1791, 24 ottobre – Riccà quondam Samuel Corcos da Senigallia e Samuel Moisé Levi; sc. 800 (400 contanti, 200 gioie e argenti, 200 vestimenti) 104;
1794, 9 gennaio – Ester quondam Elia Netunno e Lelio Benedetto Beer; sc. 500 (200 contanti, 150 gioie e ori, 150 mobili) 105;
1794, 21 ottobre – Sara di Caim Levi e Graziadio Vita Del Vecchio; sc. 700 (300 contanti, 200 gioie e ori, 200 vestimenti) 106;
1796, 12 agosto – Bonaventura quondam Isac Montebaroccio e Israel Camerini; sc. 500 (200 contanti, 150 gioie e ori, 150 abiti) 107.
La più alta concentrazione si ha nella fascia dai 500 scudi in giù, dove accanto al contrarsi della quota dotale contribuita in contanti, si registrano una più elevata frequenza di jus gazagà e la contabilizzazione di beni e servizi extramercantili. Anche qui, con valore soltanto esemplificativo:
1790, 4 ottobre – Stella di Josef Salon e Salomon Vita Del Vecchio; sc. 300 (“parte in denari effettivi e parte in robbe”) 108;
1790, 7 ottobre – Anna quondam Elia Recanati e Sanson Leoncini; sc. 339:60 (50 contanti, 289:60 panni e altro) 109;
1791, 24 marzo – Ester quondam Leone Beer e Samuel Isac Da Pesaro; sc. 250 (100 contanti, 100 gioie e ori, 50 “in tante cibarie”) 110;
1791, 23 settembre – Ester quondam Ismael Rieti e Salomon Montebaroccio; sc. 200 (solo gioie, ori e abiti) 111;
1791, 24 ottobre – Anna quondam Moisé Beer e Isac Recanati; sc. 418 (93 contanti, 174 ori, gioie e panni, 100 uno jus gazagà, 50 “scomputo della dozena di due anni, alloggio ed appannaggio dato a detto signor Isac a norma del patto apposto nei thenaim [= l’accordo matrimoniale redatto in ebraico che precede la stipula presso il notaio]) 112;
1793, 3 gennaio – Sara quondam Angelo Vivanti da Senigallia e Jacob Cividal; sc. 400 (100 contanti, 300 gioie e panni) 113;
1793, 3 maggio – Buona di Elia Foligno e Angelo Del Vecchio da Lugo; sc. 350 (200 contanti, 112 ori e gioie, 48 donativi) 114;
1794, 11 giugno – Benvenuta di Camillo Vitali da Senigallia e Elia Sabato Arcangeli; sc. 300 (50 contanti, 250 ori e panni)115;
1794, 17 giugno – Rachele Almagià e Abram Benedetto Costantini; sc. 600 (200 contanti, 400 ori, panni, vestimenti) 116;
1794, 22 agosto – Dolce quondam Amadio Mondolfo e Abram Bono; sc. 320 (220 contanti, 100 ori, vestimenti) 117;
1795, 26 ottobre – Perla di Caim Levi e Abram Levi; sc. 300 (200 contanti, 100 ori, 200 per una porzione di jus gazagà) 118;
!796, 30 marzo – Rachele quondam Leon Beer e Nedaniel Bolaffi; sc. 460 (170 contanti, 236 gioie, ori e vestimenti, 54 regali) 119.
8. L’ espatrio, vale a dire il trasferimento fuori dello Stato pontificio, di ebrei di Pesaro verso altri centri dell’area adriatica – Venezia ma anche Padova o Ferrara – non ha un significato particolarmente negativo poiché fino agli inizi del ‘700 si dimostra quale aspetto di un fenomeno fisiologico, i normali spostamenti di gruppi più o meno consistenti di popolazione all’interno di un’area economicamente integrata, aspetto controbilanciato da quello speculare rappresentato dalla immigrazione di altri gruppi in senso inverso; inoltre, poiché ad immigrare da Venezia o dai centri di Terraferma sono famiglie mercantili cospicue, il saldo in termini economici non sembra squilibrato. Al contrario, il trasferimento verso sedi extra-adriatiche suggerisce una ricerca di cambiamento, il desiderio di uscire da un ghetto che sta per alcuni diventando troppo angusto verso possibilità ritenute migliori. Una di queste destinazioni è Firenze; ad esempio, già nel 1704, il 14 maggio, Josef del quondam Rafael Montefiore di Pesaro, come procuratore di Gioia del quondam Elia Camerini vedova di Josef Montefiore [la ripetizione dei nomi personali all’interno delle stesse famiglie è ricorrente], di Rachele del quondam Moisé Rafael Montefiore moglie di Elia Montefiore, di Jsach altro figlio del suddetto quondam Josef, di Lea del quondam Moisé Montefiore, come anche del suddetto Elia marito di Rachel, tutti abitanti in Firenze, e con il consenso di Ester figlia del quondam Moisé Rafael Montefiore, vende uno jus gazagà su una grande casa di proprietà dei fratelli Ondedei, abitata in parte da Isac Camerini e in parte da Sabato Marini, jus che i Montefiore posseggono ab indiviso, a Moisé figlio di Elcanà Costantini ebreo di Venezia “continuo habitatore di questa città di Pesaro”, per complessivi sc. 330 romani 120. :
Ma quando il disagio del ghetto raggiunge soglie estreme anche la ricerca del cambiamento si rivolge verso estreme direzioni e la conversione offre non semplicemente la via d’uscita da questo ghetto, ma dal ghetto. Lungi dal costituire un fenomeno unicamente culturale e sociale, quello delle conversioni produce ricadute economiche devastanti su un insediamento già in difficoltà quale si presenta questo di Pesaro con il procedere del ‘700, anche se non è possibile quantificare, sia pur approssimativamente, il fenomeno delle conversioni prima di aver condotto un esame più esteso sulle fonti. Non si può mettere in dubbio tuttavia, che in un’epoca che non conosce persecuzioni o recrudescenze di esplicita intolleranza antiebraica – le insorgenze del 1797/9 hanno motivazioni particolari –, un’epoca nel corso della quale la società esterna al ghetto diventa, per i ricchi e gli abbienti, progressivamente più aperta e meno costrittiva, mentre non si alleggerisce il clima oppressivo del ghetto, risultante dalle costrizioni imposte dall’esterno e dal conformismo imposto dall’interno, sugli appartenenti alle fasce più elevate della società ebraica il mondo che si trova al di là dei portoni del ghetto eserciti un richiamo e una attrattiva assai forti. Tanto più che le occasioni di contatto e quindi di confronto con la società cristiana si vanno moltiplicando e non possono che risultare frustranti; il desiderio di imitare il modo di vita dei cristiani, di ottenere gratificazioni e riconoscimenti sociali proporzionali allo status economico costituisce uno stimolo potente alla conversione, che agisce soprattutto sui giovani delle più agiate famiglie mercantili.
Ad ogni modo, sia che le conversioni si verifichino proporzionalmente più fra la popolazione dei ceti subalterni, per l’aspirazione a fuggire dalla povertà, o fra quella dei ceti medio-alti, sono queste ultime che producono gli effetti più gravi in quanto comportano un drenaggio di risorse umane qualificate e di risorse economiche. La comunità perde elementi del gruppo dirigente, perde ricchezza in termini materiali ed immateriali, perché chi si converte porta fuori del ghetto le proprie ricchezze e le proprie conoscenze, si destabilizzano le imprese appartenenti alle famiglie i membri delle quali si sono convertiti e pertanto si assottiglia e si indebolisce il nucleo mercantile; si impoverisce l’ente comunitario poiché vengono meno alcuni dei contribuenti più forti e meno entrate fiscali significano meno risorse finanziarie da destinare alle opere di assistenza, e dunque ne consegue l’aggravarsi della condizione di precarietà dei poveri del ghetto.
Nel luglio 1695, per atti del notaio Agostino Mingucci di Pesaro, Iseppe Della Volta, ebreo mantovano, aveva costituito alla figlia Leona, in occasione del matrimonio di lei con Raffael Vita figlio di Isach Aboab ebreo di Pesaro una dote di scudi 1400 moneta romana, di cui 800 in contanti e 600 in preziosi e abiti; per il tosefed, calcolato al 15% per un valore di sc. 210, si erano come di consueto impegnati in solido Isach Aboab e il figlio Raffael Vita. Successivamente, passati i due sposi alla religione cattolica, con i nomi di Francesco Maria Ferretti e di Lucia, insorge una controversia fra costoro e Iasch Aboab al momento in cui essi si separano dalla famiglia di quest’ultimo per la consegna del capitale dotale e del tosefeth spettanti a Leona/Lucia, controversia che si chiude allorché il 3 giugno e il 31 ottobre 1711 in due rate Isach restituisce la dote ai due coniugi e il 13 marzo 1715 restituisce il tosefeth 121.
Il 17 maggio 1697 era stata contratta in Pesaro compagnia di negozio “di pannine ed altre merci” fra Jacob Della Bella ebreo veneziano e Michele Saul Leoncini ebreo padovano sotto la ragion cantante “Jacob Della Bella e Michele Saul Leoncini”, a complimentario della quale era stato “destinato” il Leoncini; inoltre, dal 22 novembre 1709 “era stato assegnato al negozio predetto assistente a quello, da Jacob, uno dei suoi figli, Simon Della Bella, con l’assegnazione di annui ducati 250 moneta di Venezia”. La scrittura privata di compagnia era stata redatta in data 31 giugno 1699; la società era stata prorogata in data 11 luglio 1702, era continuata sino al 1709, ed era stata ancora rinnovata in data 21 novembre 1709 e poi ancora fino al maggio 1714 “dopo il qual tempo poi detto negozio caminasse o sia caminato per stralzo a tenore del convenuto in essa scrittura”. “Passò poi dall’ebraismo alla religione cattolica Benedetto per prima et ora Antonio Cristino Martinelli, uno dei figli di Jacob Della Bella, dal quale fu introdotto giudizio contro detto suo padre davanti all’Avogador di Venezia, dimandando le portioni de’ beni che anco in vita del medesimo Jacob per detta mutata religione ad esso competevano e mediante l’interpositione e mediatione de’ buoni amici restò concordato che Jacob dovesse cedere et assegnare ad Antonio Cristino la terza parte di tutto il capitale che aveva e teneva nel suddetto negozio. […] Attesa la qual concordia, cessione et assegnatione, Antonio Cristino, doppo essersi portato da Venezia a Pesaro, hebbe apertura di riconoscere lo stato del capitale tutto che detto suo padre haveva e teneva nel suddetto negozio, riconosciuto minore di quello disse esserli stato promesso dal detto suo padre e non confacente al suo interesse e pretensione che haveva contro lo stesso suo padre, rimpatriato in Venezia obbligò questo al supplemento e per tal effetto seguì tra di loro nuova concordia in virtù della quale esso Jacob cedette et assegnò ad Antonio Cristino tutto il capitale di merci con tutti li crediti e debiti del sudetto eretto negozio, niente eccettuato.” Il 5 maggio 1716 la società è già stata sciolta: Michel Saul Leoncini, “ebreo di Pesaro et olim complimentarius rationis cantantis Bella e Leoncini” nomina procuratore ad causas un legale di Forlì 122.
“Dell’anno 1733, il dì primo gennaio, Jacob e Samuel Leoncini, ebrei del ghetto di Pesaro, stabilirono negozio di compagnia e società con Abram Aboab, per l’incaminamento e fondo del quale negozio ognuno de’ contraenti vi pose il capitale di sc. 1750 moneta romana, che in tutto ascende alla somma di sc. 3500, e convennero che l’incaminamento sudetto dovesse aver principio il detto giorno del primo genaro 1733 e durare per tre anni continui, con doversi fare la disdetta per sei mesi avanti da quella parte che non volesse continuare in detta società e che la ragione e ditta del suddetto negocio dovesse correre sotto nome Leoncini e Aboab. […] E sia che il detto Abram Aboab, volendo rispondere a divina chiamata, risolvesse di abbracciare la religione cattolica, conforme effettuò sin dal mese di febbraio prossimo passato, sendo tenuto al sagro fonte col nome d’Antonio Maria Olivarij, il che ha fatto cessare la società sudetta, rendendosi incompatibile coi detti Leoncini di poterla continuare” 123.
1 Per una sintesi della legislazione antiebraica emanata nello Stato pontificio è sempre valido A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, Torino 1963, pp. 244 ss.; M. L. Moscati Benigni, Urbino 1633: nasce il ghetto, in S. Anselmi e V. Bonazzoli (a cura), La presenza ebraica nelle Marche. Secoli XIII-XX, quad. 14 di “Proposte e ricerche”, Ancona 1993, pp. 121-138.
2 Cfr. Milano, op. cit., pp. 244 ss. Le più gravi misure sono costituite dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che nel 1555 decreta la segregazione degli ebrei nei ghetti e una serie di pesanti restrizioni giuridiche ed economiche, e l’espulsione degli ebrei dal territorio della Marca pontificia con la sola esclusione di Ancona decretata da Pio V nel 1569 e definitivamente confermata da Clemente VIII nel 1593. Si ricorda che tali norme, all’epoca della loro emanazione, vennero applicate nei territori dello Stato pontificio direttamente soggetti a Roma, non pertanto nel Ducato di Urbino, soggetto solo mediatamente a Roma.
3 In particolare per Pesaro, R. P. Uguccioni, La comunità ebraica di Pesaro dopo la restaurazione, in “Pesaro città e contà”, 3, 1993, pp. 21-38; Idem, Note sulla comunità ebraica di Pesaro nel secolo XIX, ivi, 7, 1996, pp. 77-88.
4 Accenni in R. Segre, Gli ebrei a Pesaro sotto la signoria dei Della Rovere, in Aa.vv., Pesaro nell’età dei Della Rovere, Venezia, Marsilio, 1998, pp. 133-165.
5 Per la devoluzione del ducato cfr. A. Turchini, Il Ducato d’Urbino, Pesaro e i Della Rovere, in Aa.vv., Pesaro nell’età dei Della Rovere, cit., pp. 3-56.
6 Tutta la documentazione citata nel corso del lavoro è desunta da protocolli di notai pesaresi conservati presso l’Archivio di Stato di Pesaro, pertanto, per non appesantire le note, si rinvia al solo nome del notaio e agli estremi dell’atto. Ringrazio il personale dell’Archivio di Stato di Pesaro per la disponibilità e cortesia dimostrate nel corso della ricerca.
7 S. Manenti, Tre ipotesi per il ghetto nel1631, in “Pesaro città e contà”, 2, 1991, pp. 106-107.
8 Sull’inquilinato perpetuo in ghetto come istituto giuridico, V. Colorni, Gli Ebrei nel sistema di diritto comune fino alla prima emancipazione, Milano, Giuffrè, 1956, pp. 60 ss; per Ancona, G. Laras, Intorno al “ jus cazacà” nella storia del ghetto di Ancona, in “Quaderni storici delle Marche”, 7 (1968), pp. 27-55.
9 M. Gili, 1793, c. 8v. D’ora in avanti, se non diversamente specificato, gli ebrei citati si intendono essere di Pesaro.
10 G. B. Paolucci, 1794, c. 138 e c. 85v.
11 Paolucci, 1795, c. 193.
12 Paolucci, 1795, c. 207.
13 Paolucci, 1795, c. 242v.
14 Paolucci, 1796, c. 97.
15 Paolucci, 1788, c. 247.
16 D. Marcheggiani, 1706, c. 241.
17 Marcheggiani, 1706, c. 423.
18 Marcheggiani, 1710, c. 827v.
19 Classici in proposito i lavori di L. Finkelstein, Jewish Self-Government in the Middle-Ages, New York 1914; V. Colorni, Autonomie ebraiche in Italia dal Medioevo al Rinascimento, in RMI, XXX, 1966, ora in Idem, Judaica minora. Saggi sulla storia dell’ebraismo italiano dall’antichità all’età moderna, Milano 1983, pp. 491-505.
20 A questo proposito vanno ricordati, per Pesaro, il Regolamento Astalli del 1696, e, per Senigallia, il Regolamento Salvati del 1720 (9), capitoli redatti dalle singole comunità e sottoposti per l’approvazione al legato apostolico – donde la denominazione -, aventi ad oggetto la ripartizione degli oneri comunitativi e fiscali, la formazione delle liste dei contribuenti, e altre norme “per il buon governo” delle comunità stesse, ai quali viene riconosciuta “la stessa forza e fermezza, come fossero leggi municipali e statuti locali”; per il primo, Uguccioni, studi citati, per il secondo, A. Castracani, Gli ebrei a Senigallia tra Sette e Ottocento, in Anselmi e Bonazzoli (a cura), op. cit., pp. 155-187.
21 G. Perotti, 1755, 5 nov., c. 160v.
22 K. R. Stow, Taxation,Community and State: The Jews and the Fiscal Foundation of the Early Modern Papal State, Stuttgart 1982.
23 Perotti, 1753, 20 dic., c. 190v.
24 Marcheggiani, 1715, c. 582.
25 Paolucci, 1787, c.197.
26 Paolucci, 1793, c. 134.
27 Paolucci, 1779, c. 70v.
28 Paolucci, 1795, c. 206.
29 Paolucci, 1789, c. 69v.
30 Gili, 1792, c. 840.
31 Cfr. i citati studi di Uguccioni e, per Senigallia, di Castracani.
32 In proposito, L. Celli, Silvestro Gozzolini da Osimo economista e finanziere del secolo XVI, Torino-Roma 1892; Idem, Storia della sollevazione di Urbino contro il Duca Guidobaldo II, Torino-Roma 1892.
33 Cfr. M. L. Moscati Benigni, Itinerari ebraici. Marche, Venezia 1996.
34 R. Bachi e S. Della Pergola hanno dedicato numerosi studi alla storia demografica degli ebrei in Italia, tuttavia per l’epoca precedente i ghetti le stime sono incerte.
35 E’ quanto risulta dalla documentazione notarile; sia inoltre consentito rinviare a V. Bonazzoli, Banchi ebraici, Monti di Pietà, Monti frumentari in area umbro-marchigiana: un insieme di temi aperti, in D. Montanari (a cura), Monti di Pietà e presenza ebraica in Italia (secoli XV-XVIII), Roma 1999, pp. 181-214; Eadem, Credito di esercizio e produzione manifatturiera nel Pesarese a metà ‘500, in “Proposte e ricerche”, 29 (1992), pp. 74-88.
36 Cfr. Moscati Benigni, Urbino 1633 cit.
37 Per le fiere di Senigallia, R. Marcucci, La fiera di Senigallia. Contributo alla storia economica del bacino adriatico, Ascoli Piceno 1914; S. Anselmi, Una città adriatica. Insediamenti, forme urbane, economia, società nella storia di Senigallia, Jesi 1978. Per la realtà ebraica senigalliese, W. Angelini, Gli Ebrei a Senigallia nel Settecento: significato di una presenza, in S. Anselmi (a cura), Nelle Marche centrali. Territorio, economia, società tra Medioevo e Novecento: l’area esino-misena, Jesi 1979, pp. 810-841, e il citato studio di Castracani.
38 Per la demografia del ghetto di Pesaro – la popolazione del ghetto al momento della sua istituzione sembrerebbe da valutarsi intorno alle 700 unità –, cfr. C. Mengarelli, La popolazione di Pesaro dal 1628 al 1839, in “Socialia”, 1934.
39 La letteratura in relazione a questi temi è vastissima, qui ci si limita a ricordare, per il loro particolare rilievo in relazione alle aree fra Ancona e Pesaro, i numerosi studi di S. Anselmi.
40 In proposito sia consentito rinviare a V. Bonazzoli, Adriatico e Mediterraneo orientale. Una dinastia mercantile ebraica del secondo ‘600: i Costantini, Trieste 1998.
41 Cfr. R. Savelli, La comunità di Fossombrone fra XV secolo e devoluzione dello Stato urbinate a Roma, in Anselmi e Bonazzoli (a cura), op. cit., pp. 85-104; S. Orazi, Gli ebrei a Cagli dal XIV al XVIII secolo, in “Rivista di Storia della Chiesa in Italia”, XLIX (1995), 2; quanto a Pergola, numerosi sono i riferimenti nel Notarile di Ancona a mercanti ebrei del luogo che si riforniscono ad Ancona di merci di importazione.
42 Marcheggiani, 1711, c. 355.
43 Cfr. G. Cozzi, La guerra di Candia (1645-1669), in G. Cozzi, M. Knapton, G. Scarabello, La Repubblica di Venezia nell’età moderna: Dal 1517 alla fine della Repubblica, Torino 1992, pp. 117-127.
44 Cfr. A. Di Vittorio (a cura), Ragusa e il Mediterraneo. Ruolo e funzioni di una Repubblica marinara tra Medioevo ed Età Moderna, Bari, 1993.
45 Cfr. G. Scarabello, Dalla guerra di successione spagnola alla perdita della Morea e alla guerra di successione austriaca (1770-1748). Il consolidamento della neutralità veneziana, in Cozzi, Knapton, Scarabello, op. cit., pp. 553-563.
46 Cfr. L. De Antonellis Martinis, Portofranco e comunità etnico-religiose nella Trieste settecentesca, Milano 1968; Aa.vv., Il mondo ebraico. Gli ebrei tra Italia nord-orientale e Impero absburgico dal Medioevo all’Età contemporanea, Pordenone 1991.
47 Cfr. A. Caracciolo, Le port franc d’Ancone. Croissance et impasse d’un milieu marchand au XVIII siècle, Paris 1965.
48 M. Gili, 1767, 20 gen., c. 268. Per i Coen di Ferrara, W. Angelini, Gli Ebrei di Ferrara nel Settecento, Urbino 1975.
49 Marcheggiani, 1715, c. 33v.
50 G. Serandrea, 1674, c. 37, c. 38, c. 38v.
51 Serandrea, 1678, c. 77.
52 Marcheggiani, 1702, giu. 26, c. 209; ivi, 1703, dic. 30, c. 1.
53 Marcheggiani, 1699, nov. 30, c. 515.
54 Marcheggiani, 1714, c. 661, c. 663v, c. 709, c. 715..
55 Marcheggiani, 1715, c. 776.
56 Per lo sviluppo delle economie dei centri della Terraferma fra ‘600 e ‘700, in rapporto al “declino” di Venezia si rinvia agli studi di G. Borelli, S Ciriacono, D. Sella, G. Zalin.
57 A proposito di queste tematiche, dibattutissime dalla storiografia economica, ci si limita a rinviare alla classica tesi di I. Wallerstein, Il sistema mondiale dell’economia moderna. II Il mercantilismo e il consolidamento dell’economia-mondo europea, Bologna 1982 [1980].
58 Cfr. F. Piola Caselli, Crisi economica e finanza pubblica nello Stato pontificio tra XVI e XVII secolo, in A. Di Vittorio (a cura), La finanza pubblica in età di crisi, Bari 1995, pp. 141-179; Idem, La diffusione dei ‘luoghi di monte’ della Camera Apostolica alla fine del XVI secolo. Capitali investiti e rendimenti, in Credito e sviluppo economico in Italia dal medioevo all’età contemporanea, Verona 1988, pp. 191-216.
59 Troppo numerosi per poterli citare qui sono gli studi dedicati a questi aspetti da A. Tenenti e da U. Tucci, ci si limita a ricordare, a cura di entrambi, il vol. 12 della Storia di Venezia. Il mare, Roma 1991.
60 Serandrea, 1674, c. 15.
61 Serandrea, 1678, mar. 7, c. 70v.
62 Marcheggiani, 1716, mar. 15, c. 222.
63 Marcheggiani, 1716, set. 3, c. 571.
64 Qui non più che un cenno all’attività di questa famiglia che merita uno studio più particolareggiato.
65 Marcheggiani, 1715, c. 511.
66 Serandrea, 1675, c. 138.
67 La documentazione notarile fa sempre riferimento alla “Università degli ebrei di Pesaro”, cfr. solo a titolo di esempio fra le frequenti registrazioni, Marcheggiani, 1710, mar. 4, c. 129.
68 Cfr. G. Coen, Il tratto di cambio marittimo nella piazza di Ancona nel Settecento attraverso gli atti notarili, in “Quaderni storici delle Marche”, 4 (1967), pp. 66-77.
69 Serandrea, 1674, c. 15.
70 Gili, 1792, c. 266.
71 Serandrea, 1673, giu. 15, c. 355.
72 Serandrea, 1675, 12 lug., c. 154v; 8 ago., c. 160v.
73 Serandrea, 1677, 2 giu., c. 241v.
74 Serandrea, 1676, c. 7.
75 Marcheggiani, 1703, c. 152v.
76 Solo a titolo di esempio: Marcheggiani, 1715, c. 475.
77 Marcheggiani, 1711, giu. 22., c. 67.
78 Marcheggiani, 1713, lug. 13, c. 534v.
79 B. Costantini, 1732, ott. 29, c. 332v.
80 Costantini, 1732, ago. 26, c. 284v.
81 Costantini, 1734, c. 279v.
82 Marcheggiani, 1716, 2 gen., c. 12v; 23 gen., c. 69v.
83 Costantini, 1736, ott. 18, c. 273.
84 Marcheggiani, 1708, gen. 2, c. 15.
85 Marcheggiani, 1710, giu. 13, c. 461.
86 Marcheggiani, 1693, set. 25, c. 236.
87 Serandrea, 1674, c. 37.
88 Marcheggiani, 1702, c. 313v.
89 In tema di finanza pubblica e debito pubblico della Repubblica di Venezia si vedano i numerosi studi di U. Tucci e di L. Pezzolo.
90 Marcheggiani, 1716, c. 406.
91 Perotti, 1754, c. 253v.
92 Marcheggiani, 1694, c. 108.
93 Marcheggiani, 1720, c. 231.
94 Gili, 1764, c. 282.
95 Gili, 1772, c. 419.
96 Paolucci, 1788, c. 331.
97 Paolucci, 1788, c. 385.
98 Paolucci, 1794, c. 111.
99 Paolucci, 1796, c. 97.
100 Paolucci, 1787, c. 136.
101 Paolucci, 1787, c. 155v.
102 Paolucci, 1789, c. 74v.
103 Paolucci, 1791, c. 387v.
104 Gili, 1791, c. 669.
105 Paolucci, 1794, c. 1.
106 Gili, 1794, c. 388v.
107 Paolucci, 1796, c. 76.
108 Paolucci, c. 243v.
109 Paolucci, 1790, c. 246v.
110 Paolucci, 1791, c. 301.
111 Paolucci, c. 361v.
112 Paolucci, 1791, c. 400.
113 Paolucci, 1793, c. 127v.
114 Paolucci, 1793, c. 164.
115 Paolucci, 1794, c. 40v.
116 Paolucci, 1794, c. 45.
117 Paolucci, c, 82.
118 Gili, 1795, c. 451v.
119 Paolucci, 1796, c. 23.
120 Marcheggiani, 1704, c. 158.
121 Marcheggiani, 1715, c. 229v.
122 Marcheggiani, 1716, c. 323.
123 Costantini, 1736, c. 223v.