CONTROMEMORIA
Nico Pirozzi
È la storia, realmente accaduta, di una famiglia di ebrei fascisti, che come altri seimila ebrei italiani, dichiarati tali dalle leggi razziali del novembre 1938, finirono i loro giorni in un campo di sterminio della Polonia orientale, o vittime di qualche rappresaglia nazista. Una storia della Shoah, la terza per la precisione, quella che racconta Nico Pirozzi, autore di “Traditi” (Edizioni Cento Autori, pag. 160, Euro 15). Una storia che, anche questa volta, ha per sfondo Napoli.
Delle dimissioni e del successivo arresto di Mussolini, i Procaccia lo appresero a metà strada tra Roma e Firenze. Le manifestazioni di giubilo che accompagnarono la caduta del fascismo furono guardate con indifferenza da Amedeo e Iole, che pur non avendo cognizione di quel che sarebbe successo nei mesi a venire, avevano capito che quella vicenda, anche se inconsciamente attesa, non sarebbe coincisa con la cessazione del conflitto. Ne , tantomeno, con la fine delle loro sofferenze.
Firenze, la città che in una calda mattina di metà estate si parò davanti ai loro occhi, era assai diversa da quella che avevano lasciato cinquecento chilometri più a sud. Nessuna delle ferite che stavano uccidendo Napoli aveva, all’apparenza, deturpato l’austero volto della loro città natale. Guerra e bombardamenti, Firenze sembrava averli lasciati fuori l’uscio di casa. A confermarlo furono anche Umberto, il fratello maggiore di Amedeo, ed Elena, la giovane sorella di Iole, la cui abitazione in Borgo San Lorenzo distava solo poche centinaia di metri dalla stazione di Santa Maria Novella.
Quando e perche i Procaccia decisero di spostarsi in Lucchesia, una provincia conosciuta solo da Sergio, il marito di Ivonne [una delle due figlie di Amedeo e Iole Procaccia, ndr], è difficile stabilirlo. Probabilmente, lo fecero dopo l’8 settembre, quando anche a loro fu chiaro che Firenze non era il luogo più sicuro per degli ebrei sfollati da Napoli. Soprattutto adesso che la brutale amicizia tra Hitler e Mussolini si stava trasformando in una trappola mortale per tutti gli ebrei, stranieri e anche italiani. I primi ad apprenderlo in Toscana furono i ventuno ebrei arrestati a Montecatini da Theo Danneker, il capitano delle SS che, tre settimane prima, aveva diretto l’operazione di rastrellamento nel ghetto ebraico di Roma.
L’intento di Amedeo, Aldo [il figlio di Amedeo e Iole, ndr] e Loris [Loris Pacifici, marito di Elda Procaccia, l’altra figlia della coppia, ndr] era, evidentemente, quello di mimetizzarsi tutti insieme tra le centinaia di sfollati che in quei mesi si muovevano lungo la direttrice Lucca- Viareggio. Non lontano dal luogo dove aveva trovato rifugio anche Ivonne e suo figlio Renato. Cerasomma, la tranquilla frazione di Lucca ai piedi dei monti Pisani, sembrava il posto ideale per farlo. Ad avvalorarlo, quasi settantant’anni dopo, è Gioela, classe 1926, che a Cerasomma ci vive dal giorno in cui è nata. «Oggi – afferma – non siamo più di cinquecento abitanti. Negli anni della guerra qui erano sfollate più di tremila persone. Tutto andò bene sin quando, dopo l’8 settembre, cominciarono le incursioni aeree, che avevano come obiettivo la linea ferroviaria che corre accanto alla strada. Abitanti e sfollati fummo costretti a rifugiarci in montagna, dove eravamo al riparo dalle bombe. A rimanere in paese furono veramente in pochi».
E se tra quei pochi vi fossero stati anche degli ebrei, Gioela, come la maggioranza degli abitanti del piccolo borgo, non era certamente al corrente. A saperlo fu, invece, chi portò la soffiata ai poliziotti; o direttamente al Capo della Provincia di Lucca, Mario Piazzesi, esponente di primo piano dello squadrismo toscano. A tradire la loro presenza fu, come per la maggioranza degli ebrei arrestati in lucchesia, il fatto di essere estranei a quella comunità. «Stranieri» nella lingua e nell’origine, che «non parlavano lucchese», tagliati fuori dalla «rete di soccorso, prevalentemente di natura ecclesiastica», che ha garantito a molti ebrei un tetto, un po’ di cibo e, all’occorrenza, anche dei soldi: è questo l’identikit che Valeria Galimi, coautrice di una puntigliosa e documentata ricerca sulla tragedia degli ebrei in Toscana negli anni 1943-1945, traccia delle vittime della deportazione in quest’angolo d’Italia.
Difatti, dei 107 ebrei sottoposti al fermo in seguito all’ordinanza del ministro Buffarini Guidi del 30 novembre 1943, in tutta la provincia di Lucca, solo qualcuno era originario della zona. Gli altri erano, in prevalenza, provenienti dai territori del Reich e della Polonia (come i circa settanta ebrei arrestati il 5 dicembre a Castelnuovo di Garfagnana), dall’Ungheria e dalla ex Jugoslavia (come gli otto ebrei tratti in arresto a Bagni di Lucca, dove si trovavano in regime di “internamento libero” già da alcuni anni), e anche dalla stessa Toscana, come i nove livornesi fermati l’8 dicembre a Marlia, distante meno di un’ora di bicicletta da Cerasomma.
A dare la caccia agli ebrei, a partire dalla seconda metà di novembre, furono soprattutto italiani. La quasi totalità degli arresti in quest’area fu compiuta dal personale della Repubblica Sociale Italiana, rileva Valeria Galimi, «lasciando sullo sfondo la partecipazione dei militi tedeschi, che perlopiù si limitano ad organizzare i prelevamenti e gli spostamenti dai luoghi di raccolta – solitamente le carceri o il campo di Bagni di Lucca – verso le carceri fiorentine, vero e proprio centro di raccolta e di smistamento per il trasferimento nel campo di Fossoli». Insomma, gli italiani si dimostrarono sotto certi versi più efficienti dei tedeschi nel portare a termine le retate antisemite, se è vero che – come sostiene la storica della Shoah, Liliana Picciotto – gran parte degli arresti di ebrei fu compiuto da uomini tremendamente comuni, come lo sono gli agenti di Pubblica Sicurezza e i carabinieri. Quindi, non da «professionisti dell’antisemitismo, ossia da portatori di una forte ideologia antiebraica», bensì da «meri esecutori delle direttive della Repubblica sociale italiana».
E «Uomini comuni», senza apparenti motivazioni o perversioni, come i riservisti del Battaglione 101 della Polizia d’ordinanza tedesca, erano anche i poliziotti italiani che il 6 dicembre bussarono all’uscio di quel solitario e malandato casolare di campagna, poco fuori l’abitato di Cerasomma.
Il furgone con a bordo Amedeo, Aldo, Loris, le tre donne e i due neonati, puntò direttamente su Bagni di Lucca, la località termale della Garfagnana dove il Capo della Provincia, Piazzesi, in linea con le direttive che pervenivano da Salò, aveva provveduto a istituire un campo di concentramento provinciale. A inaugurare la struttura, ubicata all’interno dell’ex albergo Le Terme, in località Bagni Caldi, furono i Procaccia e una settantina di ebrei fermati il giorno prima a Castelnuovo di Garfagnana. Pure loro, come il piccolo gruppo di ebrei napoletani, derubati di tutto, anche del proprio passato.
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Dell’arresto dei suoceri e degli altri familiari venne a conoscenza, quasi subito, Sergio, che grazie a dei falsi documenti riuscì a incontrare i parenti detenuti. Lo fece in più occasioni, esibendo ai militi dell’86esima Legione di Lucca della Guardia Nazionale Repubblicana, addetti alla vigilanza del campo, sempre la stessa carta d’identità. Ma quelle visite, che a volte erano accompagnate anche da qualche pacco di viveri, destarono il sospetto di qualcuno che, una volta accertato che anche lui era un ebreo, non esitò a denunciarlo. Difatti, il 20 gennaio, un mese e mezzo dopo la cattura dei Procaccia, anche Sergio Molco venne arrestato a Viareggio. A fare irruzione nel rifugio, dove sino a poco prima si trovavano anche la moglie Ivonne e il figlio Renato, furono ancora una volta degli italiani.
Cosa invece successe a Bagni di Lucca, tre giorni dopo l’arresto di Sergio, lo racconta un rapporto del capitano comandante dei carabinieri di Lucca del 29 gennaio 1944 e, anche, una relazione della “Delasem” sulla condizione degli ebrei internati. «Verso le 12 – scrive Israel Maier, la persona che materialmente stese il documento pervenuto alla Delegazione per l’Assistenza degli Emigranti Ebrei – mentre tutti erano radunati per avere la solita minestra, furono inquadrati da due soldati delle SS tedeschi, e senza nessun oggetto di vestiario eccetto quello che avevano indosso furono caricati in due camion e condotti alle carceri di Firenze».
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La consegna dei prigionieri ai tedeschi – che a distanza di quasi settant’anni dagli eventi resta un buco nero nella breve storia della Repubblica Sociale Italiana – e il loro inatteso trasferimento, mandarono definitivamente all’aria anche il progetto di Giorgio Nissim, che aveva pianificato una finta irruzione nel campo (utilizzando un automezzo e uniformi tedesche), per liberare tutti gli ebrei che vi si trovavano internati.
Nel carcere fiorentino delle Murate Amedeo, Iole, Sergio, Elda, Loris, Aldo, Milena e i piccoli Paolo e Luciana, arrivarono nella stessa giornata di domenica. Le celle in cui furono subito dirottati erano umide e fredde. Ma, soprattutto, prive di giacigli e con un numero di coperte insufficiente per poter soddisfare le esigenze di tutti. In quel trambusto, Iole intravide un volto a lei familiare: quello di sua sorella Elena, anche lei incappata in una delle quotidiane retate disposte dal questore e dal Capo della provincia di Firenze, Giuseppe Manna e Raffaele Manganiello, e portate a termine da poliziotti, carabinieri, agenti dell’Ufficio degli affari ebraici, militari tedeschi e, soprattutto, dagli assassini della banda Carità.
In quella nuova e terribile realtà in cui erano precipitati si accorsero anche che arbitri dei loro destini non erano più gli italiani, ma i tedeschi. Un evento che contribuì a far crescere l’angoscia tra i prigionieri. E come se non bastasse c’erano anche quelle tremende storie che qualcuno, tra i reclusi, sosteneva di aver sentito. Storie, che parlavano di ebrei «buttati vivi nelle fiamme», di «esecuzioni con la mitragliatrice di donne e bambini ignudi sull’orlo della fossa comune», e anche di un ufficiale delle SS, che si vantava «di aver lanciato contro un muro, sfracellandoli, bambini di sei mesi, per dare l’esempio ai suoi uomini, stanchi e scossi da una esecuzione particolarmente raccapricciante per il numero dei giustiziati». Poi, arrivò la notizia che presto sarebbero partiti, con l’avvertimento di tenersi pronti a farlo. La destinazione nessuno era in grado di dirla. Qualcuno azzardò la Germania, qualcun altro la Polonia. Della destinazione reale vennero a conoscenza nella giornata di mercoledì, quando tutti gli ebrei furono fatti salire sul convoglio che i tedeschi avevano contrassegnato con il numero cinque, che da Firenze li avrebbe portati a Milano.
Era il 26 gennaio, l’ultimo mercoledì del mese. A Napoli la guerra già cominciava a essere solo un brutto e lontano ricordo.
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