Yeshayahu Leibowitz z”l
a) Enunciati
1) Lo Stato non ha un significato intrinseco, bensì un significato esclusivamente strumentale. Detto enunciato è comune sia alla concezione religiosa (teocentrica) sia a quella umanistica (antropocentrica). Considerare lo Stato un valore è l’essenza della concezione fascista.
Lo Stato è in sé il nemico dell’uomo, costituendo, per sua stessa natura, un ingranaggio di violenza e coercizione. Non essendo altro che un siffatto ingranaggio esso non è atto a realizzare “valori” (in nessuno dei sensi in cui è adoperato il termine “valore”): ciò che ha “valore” è conseguito soltanto da uomini e non dallo “Stato” (ossia dall’ingranaggio del potere), e per conseguirlo gli uomini lottano gli uni contro gli altri nell’ambito dello Stato medesimo. Sui “valori” non v’è fra gli uomini, né può esservi, intesa; per cui lo Stato funge da campo di battaglia di lotte intestine.
Senso e ragion d’essere dello Stato è soltanto la necessità di esso. Tale “necessità” è presente a due livelli: l’esistenza del singolo (“se non per timore delle autorità costituite gli uomini si divorerebbero vivi”1); l’indipendenza della “nazione”. Qualsiasi facoltà e potestà lo Stato abbia al di là dell’appagamento dei bisogni inderogabili è dispotismo, giacché ogni potere (in ogni regime) si trasforma immediatamente da mezzo in fine ed è sfruttato da chi lo detiene (in qualsivoglia immaginabile regime) per una perpetuazione del proprio dominio. L’essenza della democrazia consiste nel limitare l’influenza del potere a un minimo indispensabile per l’appagamento dei bisogni inderogabili; in altri termini, la democrazia è la tutela dell’individuo dal governo del suo proprio paese.
2) Un “popolo” non è un ente naturale dato ma un ente di coscienza. Per cui non vi sono criteri di definizione di “popolo” validi per tutti i gruppi esistenti come “popoli” nella realtà storica (in passato o nel presente). I “popoli” non hanno comuni segni di riconoscimento – ceppo biologico, territorio, lingua, religione, strutture statali, sistema di vita, tradizione e simili; cfr. il “popolo” svedese, il “popolo” tedesco, il “popolo” americano, il “popolo” indiano, il “popolo” greco (classico), il “popolo” arabo, il “popolo” ebraico. Ciascun popolo è definito da determinati elementi della sua realtà e della sua coscienza. Talvolta, da elementi suoi specifici, estranei alla definizione di un altro popolo. Per cui il rapporto funzionale tra “Stato” e “popolo” non è il medesimo presso tutte le nazioni. I termini “popolo normale” e “Stato normale” sono privi di senso; ogni popolo è la norma di sé stesso. E altrettanto dicasi del suo assetto statale.
3) I due piani di bisogni che lo Stato soddisfa (v. sopra, par. 1) sono in pratica uno soltanto: se c’è coscienza nazionale, l’esistenza dei popolo diviene anch’essa un bisogno per il singolo che se ne considera membro. E fondamento e la ragion d’essere dello Stato risultano dunque antropocentrici; lo Stato esiste per l’uomo ed è guidato e diretto in base a bisogni ed interessi e in vista dei loro soddisfacimento. Solo che c’è disaccordo su quale sia il supremo interesse umano: per la concezione umanistica esso è rappresentato dai “diritti dell’uomo” (v. la Dichiarazione d’Indipendenza degli Stati Uniti d’America); per quella fascista (cosciente di sé oppure, talvolta, inconscia) è invece rappresentato dall’ingranaggio di potere che l’uomo crea – lo Stato; e per quella religiosa, esso consiste nel culto di Dio (v. appresso, par. 5).
4) Il popolo ebraico storico – in quanto gruppo che preservò in tutte le sue peregrinazioni nel corso dei secoli la propria continuità e fedeltà a se stesso – non era definito quale gruppo nazionale né razzialmente, né territorialmente, né linguisticamente, né in termini di struttura politica: per tutto il tempo che la sua esistenza non fu di per sé problematica (né per gli ebrei, né per i non-ebrei), a definirne la continuità e la fedeltà a se stesso fu solo la sua ebraicità. La quale s’incarnava, empiricamente, nella Torà e nelle mitzvòt, correlate in edificio sistematico nell’halakhà. Secondo tale definizione il popolo ebraico è un gruppo d’individui per i quali vige l’obbligo dell’osservanza della Torà e delle mitzvòt; l’halakhà stabilisce per chi quest’obbligo viga – o per nascita (e l’obbligo non decade perché un ebreo rifiuta di sottostarvi), o per una spontanea adesione al popolo ebraico mediante assunzione del giogo della Torà e delle mitzvòt.
5) Il significato del programma di vita individuale e collettivo dell’halakhà non è antropocentrico ma teocentrico (v. il capitolo primo dello Shulchàn Arùkh, Òrakh Chayìm: “intrepido come un leone si levi [l’uomo] al mattino per servire il suo Creatore”). Invece dei diritti esso riconosce i doveri dell’uomo verso il proprio Dio. Anche tutto il sistema delle mitzvòt fra uomo e uomo – comprese quelle fra uomo e società, nazione e Stato – è istituito sotto questo aspetto. La realtà umana – sia individuale che collettiva – è discussa in quel programma non in se stessa ma nella prospettiva del culto del Signore, e ciò che sembra costituire dal punto di vista delle posizioni antropocentriche il fine dello Stato e delle sue funzioni (l’uomo coi suoi bisogni e interessi), si rivela da quello religioso un semplice mezzo. Da ciò s’impone un atteggiamento critico di principio nei confronti dello Stato, anche quando la sua esistenza sia riconosciuta come necessaria. Il conflitto fra Stato e religione – nella sua accezione di ebraismo della Torà e delle mitzvòt – è essenziale tanto a quello che a questa. Ogni Stato – anche quello del popolo ebraico nella realtà effettuale, del passato del presente e dei futuro, a esclusione dello Stato messianico- utopico – è in quanto tale necessariamente laico. “Uno Stato secondo la Torà” il popolo ebraico non lo ebbe mai: in epoche diverse ebbe degli Stati in cui gli osservanti della Torà combatterono per la Torà guerre d’ogni tipo – dalla lotta in campo spirituale ed educativo a sanguinose guerre civili. Tanto in epoca biblica che all’epoca del secondo Tempio fondamentale sostanza delle vicende degli Stati del popolo d’Israele fu il conflitto fra religione e ingranaggio politico, anche quando quest’ingranaggio era sorto su ispirazione della Torà. L’eccezionale rilevanza religiosa dei regni d’Israele storici sta nel fatto che funsero da campi di battaglia per lotte in nome della Torà e delle mitzvòt; il che a maggior ragione vale per l’odierno Stato d’Israele, che non è sorto in forza di un impulso religioso ma in forza di un nazionalismo laico esistente in seno al popolo ebraico, e la cui presentazione in termini di simbiosi politico-religiosa risulta perciò assurda.
6) Il binomio “nazionale-religioso”2 è un triangolo con quattro lati, a meno che non si falsifichi il significato di uno dei due termini oppure di entrambi: o “nazionale” viene estromesso dalla sua palese accezione laica, corrente almeno dall’epoca della Rivoluzione francese, e gliene viene attribuita una relativa alla “nazione israelitica” in senso tradizionale – nel qual caso esso è identico a “religioso”, ed è superfluo; o “religioso” viene estromesso dalla sua accezione di contrassegno del mondo dell’halakhà per fungere da contrassegno di un accessorio della vita nazional-politica – nel qual caso è privo di valore.
b) Religione e Stato in Israele
Il problema “Stato e religione” – che è in realtà il problema dell’essenza del futuro del popolo ebraico e dell’ebraismo – è discusso negli ambienti ufficiali dello Stato d’Israele soltanto sotto specie di baruffe amministrative e giuridiche fra i consoci dell’apparato direttivo e giudiziario dello Stato. A rappresentare le due grandi scale di valori, la religiosa e l’umanistica, il cui aperto scontro è il presupposto della possibilità di plasmare il carattere dell’individuo e della società, non stanno due schieramenti in lotta per quei valori. Il principio ispiratore dello schieramento “religioso” non è la Torà, così come l’uomo non lo è di quello “laico”: principio ispiratore di entrambi è lo Stato; la frenesia nazionalistica che li accomuna fa sì che lo Stato, che non è che l’involucro esterno di un valore, si sostituisca a questo contenuto stesso. Si è trovata una base per la direzione dello Stato per mezzo di una coalizione ateo-clericale indipendente dalla sostanza della realtà politica: è concordato che lo Stato sia laico, e che sia però presentato come religioso. Quest’accordo comporta, dal punto di vista religioso, una profanazione del nome di Dio, uno svilimento della Torà e lo sfacelo della religione; dal punto di vista umanistico, un pervertimento della vita sociale; da quello di ogni uomo di nobile sentire, la degenerazione nazionale indotta con la menzogna e l’ipocrisia.
Sul programma di separazione della religione dallo Stato già s’era detto a suo tempo: “l’istanza di separazione della religione dall’odierno Stato laico scaturisce dalla vitale esigenza religiosa di impedire la trasformazione della religione in mezzo di appagamento di bisogni politico-sociali, di impedirne la trasformazione in ufficio pubblico di un’autorità laica, in funzione della burocrazia e dell’amministrazione statale, che “mantengano” la religione stessa e le sue istituzioni non per motivi religiosi ma per interessi dì potere”3. In quella sede si descrivevano parimenti le storture, i guasti e la corruzione derivanti dall’esistenza di una “religione gestita da un potere non-religioso”, e lo sfacelo in tal modo arrecato all’educazione religiosa dei giovani e dell’intera collettività.
Le cose scritte più di dieci anni fa (nel corso di un dibattito sulla separazione di religione e Stato svoltosi sulle pagine della rivista “Be-tèrem” nel 1959-60), si sono nel frattempo avverate in misura paurosa. Nello Stato e nella nazione la religione d’Israele non esiste quale fattore spirituale e quale forza sociale autonoma, bensì come una delle tante branche dell’ingranaggio dell’autorità laica. Proprio mentre negli ambienti ebraici osservanti della Torà c’è sempre più comprensione per l’istanza di separazione di religione e Stato quale istanza religiosa, l’establishment religioso (Rabbinato e partiti religiosi) continua ad afferrarsi ai lembi del mantello del potere laico, e a dissimulare in cambio del diritto di essere riconosciuto consocio di detto potere le umiliazioni e le mortificazioni quotidianamente inflitte alla religione d’Israele dal governo, dall’amministrazione e dalla giustizia del regime in balia del quale essa si trova nello Stato d’Israele, che la sfrutta a proprio vantaggio e profitto – la “mantiene” come si mantiene un’amante. In quest’atmosfera di menzogna e adulazione si distorcono e snaturano tutti i concetti. La religione non compare nella realtà socio-politica israeliana come istanza di trasformazione dei valori e di uniformazione della vita pubblica e privata a una scala di valori autonoma e ampiamente comprensiva, bensì sta bene attenta a comparire proprio come parte inseparabile del regime laico, a operare proprio in suo nome e in forza dei poteri che questo le conferisce. Essa avanza esclusivamente richieste relative a determinati dettagli nella struttura complessiva della legge e del sistema di vita laici dello Stato e della società, richieste avulse dal contesto di un programma di vita secondo la Torà e che suonano strambe, illogiche e ingiustificate sullo sfondo della totalità della vita laica. Alla maggioranza della nazione queste richieste risultano incomprensibili, e non possono che risultare tali, avanzate come sono nell’ambito delle leggi e dei decreti di un regime laico, per cui non fanno che suscitare derisione e stizza. Col suo modo di presentarsi nella realtà socio-politica israeliana la religione si dà una connotazione di piccoli dispetti, d’intralci e sabotaggi al corso della vita “normale”, ovverosia laica, e non di programma di vita alternativo. Per cui è tanto odiata quanto disprezzata.
La religione non ha in realtà nessun potere nello Stato e nella società, e nessuna apprezzabile influenza sul processo di elaborazione della loro fisionomia, ma si crea con tutto ciò nella coscienza di vasti settori nazionali l’impressione di essere oggetto di una “costrizione religiosa”. Le “leggi religiose” dello Stato vengono promulgate da un’autorità laica nella forma che ad essa più conviene (per ragioni d’interessi di potere), ed oltre ad essere prive di qualsiasi significato religioso, nella maggioranza dei casi il loro contenuto – religioso dal punto di vista formale – è in contrasto con le esplicite disposizioni dell’halakhà. In realtà esse rappresentano una coercizione laico-statale esercitata sulla religione, e vengono al tempo stesso usate da gente di tendenza anti-religiosa come armi atte a suscitare stizza, e talvolta anche furore, contro la religione medesima; ed è indubbio che sono proprio questi gli intenti degli ambienti governativi laici ostili alla separazione di religione e Stato (soprattutto nel Partito laburista4).
L’esempio più lampante di questa situazione è rappresentato dalla questione del sabato – l’istituto che è al centro della religione d’Israele e della realtà religiosa ebraica. Nella situazione attuale, con la religione integrata, si fa per dire, nello Stato e da esso sostenuta, il sabato è di fatto profanato dallo Stato stesso a destra e a manca. La legge di Stato sul sabato è in realtà una legge abrogativa del medesimo. Tale legge riconosce a chicchessia il diritto di profanarlo, ad esempio viaggiando; e più d’una volta per tutelare quel diritto contro chi intendeva conculcarlo è stato messo in moto l’apparato giudiziario e di pubblica sicurezza – l’apparato di un potere di cui l’ebraismo religioso ufficiale è consocio di fatto e delle cui azioni è corresponsabile. Il divieto che l’autorità laica impone in determinati luoghi (proprio lì e non altrove) ai trasporti pubblici di sabato, non è che una mercede elargita all’ebraismo religioso per bendargli gli occhi. Quel divieto è inoltre privo di qualsiasi significato religioso: nelle prescrizioni sabbatiche non compare nessuna strana disposizione che autorizzi gli ebrei a viaggiare di sabato, e che proibisca però tali viaggi agli autobus. L’ipocrisia di questo accomodamento, sul quale l’ebraismo religioso non transige, disonora la religione e rende ridicola la posizione religiosa.
E altrettanto dicasi delle ferrovie israeliane, a proposito delle quali esiste fra “religiosi” e “laici” l’esplicito accordo che per simulare un’osservanza sabbatica i treni non effettuino pubblicamente viaggi di sabato, ma che proprio di sabato si compiano tutti i lavori necessari alla strada ferrata (riattivazione di linee, riparazione di locomotive e vagoni). Recentemente è persino capitato che l’allestimento di un ponte ferroviario è stato eseguito a bella posta di sabato, “per non intralciare la circolazione nei giorni feriali”. La santissima trinità dei membri di governo dei Partito nazional-religioso se l’è sbrigata (a cose fatte) con una protesta, ma continuando, ovviamente, a ricoprire cariche nel governo responsabile dell’accaduto, ossia a condividere – tanto legalmente che eticamente – la responsabilità dell’infame profanazione del sabato.
Va sottolineato che nessuna legge emanata da un potere laico – quale che ne sia il contenuto – può assumere un significato religioso, non traendo origine dall’autorità della Torà. Una legge promulgata dalla Kenèsset – che non è un’assemblea riunita in nome del Cielo -, ed esecutiva in grazia di un governo che non riconosce l’autorità dell’halakhà è per sua stessa natura una legge laica. E altrettanto dicasi di ogni ente amministrativo delegato dal potere laico: “l’inviato è come quegli stesso che invia”6. Il rabbinato, delegato dall’autorità laica ai sensi della legge laica, stipendiato da quell’autorità e operante nell’ambito delle competenze che essa gli attribuisce, non è un’istituzione rappresentante la Torà ma una delle tante branche dell’amministrazione laica, e le sue deliberazioni e sentenze non hanno alcun significato religioso. Figuriamoci un po’ che significato religioso e che valore storico avrebbe assunto nell’ebraismo il profeta Elia, se fosse stato ministro delle religioni o rabbino-capo di lzèbel!7 (detto senz’alcuna intenzione di identificare Golda con lzèbel e il dott. Warhaftig o i rabbini Unterman e Nissim col profeta Elia).
Tuttavia riguardo al sabato, che è (punto su cui bisogna battere in continuazione) centrale e basilare per la fisionomia di uno Stato e una società ebraici che rispecchino la realtà religiosa, l’ebraismo religioso ha subito – integrandosi nell’ingranaggio del potere laico e sostenendosi su di esso – una vergognosa disfatta in campo non solo ideologico ed etico, ma anche sociale, per quanto concerne la situazione oggettiva e le condizioni di vita degli ebrei osservanti della Torà. Grazie alla copertura concessa al governo, all’amministrazione e alla giustizia del regime laico dall’establishment religioso ebraico, che ne è attivamente compartecipe – e pertanto anche responsabile –, quel regime crea nel paese un sistema sociale ed economico che è d’intralcio agli ebrei osservanti della Torà, nega loro la possibilità di lavoro in certi tipi di professioni e servizi, preclude loro fonti di sostentamento relegandoli in un cantuccio della realtà socio-economica. Centinaia di fabbriche in tutti i settori produttivi funzionano di sabato con autorizzazione ufficiale e sono precluse ad ebrei osservanti della Torà, che divengono cosi oggetto di un tentativo di far loro perdere la pace dell’anima e la fedeltà alle proprie convinzioni religiose; e altrettanto dicasi delle miniere, dei servizi di trasporto (treni, porti, linee di navigazione marittima, aeroporti, linee di navigazione aerea), dei servizi di comunicazione di massa (radio e televisione). Salvo rari casi di necessità vitale (nei quali sarebbe possibile trovare nell’halakhà un appiglio per una dispensa) le autorizzazioni a lavorare di sabato vengono rilasciate “per motivi economici” – ovverosia di lucro. Analogamente ai “mestieri ebraici” che il potere non-ebraico assegnava nel medioevo agli ebrei allontanandoli da altre fonti di sostentamento, si stanno istituendo nello Stato d’Israele dei “mestieri per osservanti del sabato” – commercio, professioni liberali, impiego in determinati servizi (non in tutti); in altri termini: si va creando un ghetto social-professionale per ebrei religiosi. È persino accaduto che un immigrato dall’Unione Sovietica, elettrotecnico di professione, che per lunghi anni era riuscito con abnegazione a lavorare nel suo campo in quel paese e sotto quel regime, sia stato condannato nello Stato d’Israele alla disoccupazione per il suo rifiuto di profanare il sabato.
Dinanzi a tali fatti non possiamo esimerci dal chiedere che sia maggiore – se la dose di spudoratezza dei laici che si lamentano della “costrizione religiosa” nello Stato d’Israele, o la dose di bassezza e viltà dei dirigenti religiosi che continuano a partecipare a questo governo.
Attualmente l’idea di “portare la Torà al potere” nello Stato è irreale, e perfino insensata. Non si tratta dei problema dello Stato d’Israele ma di quello della configurazione spirituale e culturale del popolo ebraico, e in ogni caso di un problema a scadenza secolare. Il compito prescritto attualmente all’ebraismo religioso non è restituire alla Torà la sua posizione di predominio in seno al popolo d’Israele, frantumatasi nel corso delle ultime generazioni, bensì restituirle – come primo stadio di un rinnovamento dell’ebraismo della Torà – la sua dignità, involatasi per il vergognoso atteggiamento dell’ebraismo religioso nello Stato d’Israele. Primo presupposto di ciò è la separazione della religione dallo Stato, o in altri termini: il salvataggio della medesima dall’integrazione in un ingranaggio amministrativo laico e dall’asservimento al potere laico, e la sua trasformazione in fattore attivo autonomo. Frutto immediato della separazione sarà un netto miglioramento sul piano dell’organizzazione interna dell’ebraismo religioso e della regolamentazione dei suoi rapporti con l’apparato governativo laico dello Stato.
Non è necessario oggi alcun ulteriore commento a ciò che si disse a suo tempo sulla condizione e sul rinvigorimento delle istituzioni religiose dopo la separazione di religione e Stato. Oggi quelle cose sembrano persino più imposte dalla logica e dalla realtà che non quindici anni fa.
Sul problema dei diritto matrimoniale, presentato oggi come il problema centrale dei rapporti fra religione e Stato, si erano scritte già dodici anni or sono cose che risultano addirittura più valide adesso che non allora: 1) che la “consacrazione nuziale secondo il precetto di Mosè e Israele”8, quando sia un obbligo imposto dal potere laico a coppie di ebrei che la disdegnano, non solo perde il suo significato di santità ma si profana e svilisce trasformandosi per gran parte della società israeliana in una farsa, e con essa si svilisce la religione d’Israele; 2) che l’attuale legge sui matrimoni e divorzi, che tale obbligo contempla, lungi dal salvaguardare la purità famigliare in Israele si trasforma in legge per l’incremento dei mamzerìm9, imposta com’è ad ebrei che non accettano il severo divieto religioso di commettere adulterio: essa rende una donna coniugata suo malgrado in senso halachico, cioè suscettibile di mettere al mondo dei figli mamzerìm; 3) che l’istituzione del matrimonio civile di Stato per le coppie che rifiutano la cerimonia di “consacrazione nuziale secondo il precetto di Mosé e Israele” ridurrà al minimo il sospetto di mamzerùt, in quanto la semplice registrazione di “matrimonio” presso un ufficio pubblico non avrà valore balachico: la donna resterà “nubile” – e la trasgressione del divieto di rapporto sessuale con una nubile non implica mamzerùt.
Argomento affine a quello di cui sopra è la questione “chi è ebreo”? – questione che poteva sorgere solo sulla base dell’inserimento della religione nella sfera di competenza di uno Stato laico. Siamo stati testimoni di come interessi di potere-e-coalizione effimeri e transetinti portino ora a un tentativo di sradicare l’accezione storico-tradizionale dei concetto di appartenenza al popolo ebraico, ora a una neutralizzazione del medesimo, vale a dire: di come la religione diventi carta da gioco di interessi politici. Se non per l’asservimento della religione a un’autorità statale laica il problema non sussisterebbe: se la laicità-di-fatto dello Stato d’Israele fosse stata riconosciuta anche sul piano formale e legale, il problema non si sarebbe affatto presentato, dal momento che uno Stato laico non decide dell'”ebraicità” o “non-ebraicità” dei suoi cittadini, non riconoscendo altro che “cittadini” e “non-cittadini”, e il concetto di “ebreo” sarebbe rimasto ancorato alla sua denotazione storico- tradizionale.
Oggi, quindici anni dopo, è giunta l’ora di sottoporre lo slogan dell'”unità nazionale” a un’analisi di fondo senza farne una “vacca sacra”, e di discutere del rischio di una “scissione nazionale” preconizzato dai religiosi e ribadito anche dai laici, i quali appunto per timore di essa condannano la separazione di religione e Stato. In tutta la storia umana, nelle vicende di ogni nazione, di ogni società e cultura, non vi è alcunché di valido (nella totalità dei sensi in cui il concetto è adoperato) che sia stato conseguito in grazia dell'”unità nazionale”: ciò che è valido è stato conseguito sempre e solo mediante scismi e lotte intestine sfocianti addirittura in sanguinose guerre civili. “L’unità nazionale” non sussiste che sullo sfondo del comune obiettivo di razziare e far pingue bottino; i valori reali – all’opposto di quello fascista dello Stato in sé – dividono la nazione. La più grande figura della storia inglese è Oliver Cromwell, di quella americana Abraham Lincoln; entrambi uomini di guerre civili. La storia dei popolo ebraico è disseminata di lotte intestine e di scismi proprio a sfondo religioso; per la religione parti del popolo si distaccarono, o furono espulse. Anche oggi, a quanto pare, dovremo risolvere il dilemma: cos’è da preferirsi, un contenuto di valore o una struttura di potere?
Dietro la cortina fumogena di una pseudo-ebraicità dello Stato d’Israele si verifica un processo di eliminazione della fisionomia storica del popolo ebraico, ossia di trasformazione di quest’ultimo in un altro popolo: a definire un membro del quale non sarà più l’ebraicità ma la carta d’identità vidimata da un funzionario del Ministero degli Interni dello Stato d’Israele. Non essendovi un copyright sull’uso della denominazione di “ebreo”, può darsi che anche questo popolo si chiamerà “ebraico” (benché sia tutto sommato probabile che preferisca chiamarsi israeliano o “ivrì”10). Ma è comunque chiaro che esso non sarà la prosecuzione del popolo ebraico storico, così come l’odierno popolo greco non è la prosecuzione del popolo greco dell’antichità. Dal momento che parte degli ebrei (una minoranza) seguiteranno a perpetuare la continuità storica, può darsi che giungeremo nostro malgrado a una scissione in due popoli, distinti non solo per non contrarre fra loro vincolo matrimoniale.
Fra i sintomi dell’approssimarsi della scissione è l’ondata di odio per l’ebraismo e per la collettività degli osservanti della Torà, in continua ascesa fra i gruppi laici, odio emotivo più che razionale, e quindi profondissimo. Esso è diffuso da un lato fra i giovani che hanno ricevuto un’educazione laico-nazionalistica, dall’altro in seno all’intellighenzia e fra gli universitari. L’ostinazione dell’ebraismo religioso nel sopravvivere irrita i laici, perché d’intralcio all’elaborazione della nazione “israeliana” non-ebraica; al che si aggiunge talvolta – inconsciamente – il fattore psicologico della colpa rinfacciata. L’ira sfociante in odio viene espressa pubblicamente, in pubblici dibattiti, alla Kenèset e sui giornali, e finanche in testi e motivazioni di sentenze di tribunali israeliani. Fra quanto d’inaccettabile viene sostenuto nell’ambito di tale controversia, è la tesi in nome del progresso, dell’etica, dell’umanesimo e dei diritti dell’uomo calpestati dall’halakhà arcaica, barbara e schiavizzante. La menzogna – consapevole o inconscia – insita in essa risulta evidente quando a enunciarla sono i fautori della “nazione” e dello “Stato” quali valori posti al di sopra dell’uomo. L’etica e l’umanesimo consistono solo nel considerare come valore supremo l’individuo umano, riconoscendogli il diritto di essere padrone di sé, della propria vita e dei propri atti – nella misura in cui egli non viola questi stessi diritti del prossimo. Chi sostiene che un’entità trascendente, la “nazione o lo “Stato”, abbia diritto di costringere l’uomo a prestare servizio militare e a farsi uccidere in suo nome, come osa parlare per conto dell’etica e dell’umanesimo? Quanta falsità – quanta frode o quanto auto-inganno – vi è nella riprovazione morale per l’halakhà che in ambito matrimoniale pone dei limiti alla libertà individuale, quando vi si associa un riconoscimento del diritto dello “Stato” di chiamare quello stesso individuo alle armi in guerra, di renderne vedova la moglie e orfani i figli! Nella sfera socio-politica un uomo non può essere persona morale e umanista che se anarchico, pacifista e cosmopolita. Un partigiano della nazione e della patria non è persona morale e non è un umanista, in quanto subordina l’uomo – l’uomo concreto – a un’autorità astratta. In ciò egli è simile a chi subordina l’uomo alla religione, ma mentre il religioso vincola e riduce la libertà e i diritti dell’uomo col riconoscerne l’obbligo verso la Torà, il partigiano della nazione e della patria ne riconosce l’obbligo verso i valori fascisti di sovranità e potere.
Per quanto concerne poi l’opposizione ai divieti matrimoniali della Torà (sospetto di donna già coniugata, donna il cui coniuge è scomparso senza aver sciolto il vincolo nuziale, divorziata per un cohèn, donna soggetta all’obbligo dei levirato11, mamzerìm), va osservato, che ad essa si associa in genere un riconoscimento di altri divieti matrimoniali – chissà perché di quelli accettati anche nel mondo non-ebraico, come nozze tra fratello e sorella, nozze con donna coniugata, poligamia e simili, benché anch’essi rappresentino una riduzione della libertà individuale nella sfera della vita più intima, senz’alcuna motivazione razionale o etica. Il che significa che ciò che è accettato dai non-ebrei si confà anche allo Stato d’Israele, e che inopportuno è solo ciò che ha suo esclusivo fondamento nell’ebraismo.
È assai dubbio se sia dato preservare a lungo l’unità di una nazione scissa sotto tutti questi aspetti.
Nondimeno, il cammino della storia in una certa direzione non è imposto dalla realtà, e superfluo dire che non è imposto dalla logica: a determinarlo sono in ogni epoca le decisioni e le risoluzioni degli uomini. Noi non sappiamo quindi se in futuro tale scissione sarà davvero il nostro inevitabile destino. Nostro compito attuale è occuparci del presente – dei problemi della nostra generazione – e sforzarci di aprire uno spiraglio ad altre possibilità, a noi più grate. La separazione della religione dallo Stato comporterà sia la creazione di una più salubre atmosfera, sia una preparazione dei terreno in vista di siffatte possibilità.
C) Postilla (1975)
A quanto pare fra tutte le questioni connesse con la separazione di religione e Stato il problema dell’istituzione del “matrimonio civile” – e ovviamente anche di un divorzio civile riconosciuto dalla legislazione statale – è quello che più agita le cerchie religiose. A parte il timore di un incremento dei casi di mamzerùt e di nozze religiosamente interdette in seguito a una regolamentazione legale laica dei rapporti coniugali, c’è chi considera l’imposizione dell’osservanza delle mitzvòt agli ebrei un dovere religioso, sia dal punto di vista halakhico, sia da quello della convinzione che “gli ebrei siano tutti garanti gli uni per gli altri”12 . È necessario quindi fornire ulteriori delucidazioni in merito alla posizione qui assunta.
L’halakhà non riconosce che matrimoni sulla base di una “consacrazione nuziale secondo il precetto di Mosè e Israele”; l’istituto del “matrimonio civile” è sconosciuto. Nella letteratura dell’halakhà viene discussa la questione della rilevanza halakhica di una stabile vita coniugale senza consacrazione nuziale, e della rilevanza di una registrazione di matrimonio fra ebrei presso degli uffici pubblici, ai sensi delle leggi matrimoniali laiche dei paesi non-ebraici. I pareri dei giureconsulti halachici sono a questo proposito discordi: alcuni – a quanto sembra la maggioranza – non considerano quelli di cui sopra dei matrimoni in senso ebraico, altri più rigorosi temono che tutto ciò comporti almeno un dubbio di consacrazione nuziale, tale da rendere necessario il divorzio13. Tali discussioni si svolgevano tutte sulla base di una realtà in cui la consacrazione nuziale (secondo l’halakhà) costituiva presso ogni gruppo ebraico il diffuso e concordato modello accettato dalla stragrande maggioranza dei suoi membri, sicché v’era modo di far valere per una coppia convivente coniugalmente senza consacrazione nuziale la presunzione dei proposito di essere coniugata nel senso ebraico del termine. Nell’halakhà non è mai stato discusso il problema di uno Stato ebraico che riconoscesse una forma legale di matrimonio senza consacrazione nuziale, e quello di un vasto settore di coppie di ebrei che esplicitamente rifiutassero di sottostare alla mitzvà della consacrazione nuziale a fini matrimoniali. La logica impone che in simili casi non si possa assolutamente attribuire a tale vita coniugale un significato matrimoniale nell’accezione religiosa. È probabile che per l’halakhà tale “matrimonio civile” non sia affatto un matrimonio, ma solo un suggello legale apposto da un’autorità laica a un rapporto sessuale con una donna nubile, e una regolamentazione dei rapporti legali intercorrenti fra i membri della coppia. Il che è privo di significato sul piano religioso, dal momento che un bambino nato da rapporto sessuale con una donna nubile non è mamzèr. La profanazione del sabato è qualcosa d’infinitamente più grave del divieto di rapporto sessuale con una nubile, e ciò malgrado l’ebraismo “religioso” ufficiale non s’astiene dal partecipare a un governo che rilascia autorizzazioni a lavorare di sabato a porti, aeroporti, mezzi di trasporto motorizzati in quasi tutto il territorio nazionale, e a più di quattrocento aziende industriali nel paese: che ne è qui di quell'”essere garanti” di cui si discorre?
La “legge sui matrimoni e divorzi” emanata nello Stato d’Israele dall’autorità laica sotto mentite spoglie religiose è una legge per l’incremento dei mamzerìm, e rappresenta una grave violazione dei divieto di “porre ostacoli dinanzi al cieco”14. Grandissima parte dell’odierno popolo ebraico, nello Stato d’Israele e nella diaspora, non riconosce la validità del “non commettere adulterio” e non considera affatto riprovevole né l’adulterio stesso, né la licenziosità, né il libertinaggio, in quanto tutti i divieti sessuali sono divieti religiosi, privi di fondamento etico o sociale, e non vengono quindi accettati da uomini che si siano ribellati al giogo della Torà e delle mitzvòt. Ne consegue che imponendo ad una collettività laica il matrimonio secondo la Torà – in cui la donna diviene consacrata al proprio marito – s’inducono grandi masse d’individui a trasgredire il divieto di fornicazione con una donna coniugata comportante la pena del karèt15, e si causa la nascita di mamzerìm. Le quali spaventose aberrazioni sono invece tutte evitate se i laici si sposano secondo “un rito civile” che non ha validità di consacrazione nuziale (matrimonio religioso), e in virtù del quale la donna non diviene consacrata secondo la Torà al proprio marito, ma rimane una nubile con cui è stato compiuto l’atto sessuale.
Per quanto concerne poi l’imposizione delle mitzvòt, come dimenticare il fatto decisivo che nell’halakhà si parla di costrizione esercitata dalla Torà ed in nome dell’autorità e del potere da essa derivanti, laddove qui nello Stato d’Israele la costrizione è esercitata da un governo laico e deriva dal potere e dall’autorità di tale governo, che non riconosce l’autorità della Torà! Nulla profana il nome di Dio e svilisce la Torà quanto il fatto che la consacrazione nuziale secondo la Torà sia imposta da un governo che non riconosce la Torà e i cui esponenti trasgrediscono pubblicamente i divieti comportanti la pena del carèt contemplati dalle norme sessuali della Torà (donna nel periodo mestruale, adulterio ecc.). È qui chiaro a chiunque che la “legge sui matrimoni e divorzi” – presentata come religiosa – lungi dall’essere tale è una legge imposta alla collettività nazionale per interessi di potere-e-coalizione. La cerimonia di consacrazione nuziale secondo la Torà si trasforma quindi, imposta com’è a tale collettività, in una beffa derisoria, e con essa si svilisce la religione d’Israele nel suo complesso.
“Haddèrekh”, n. 4, maggio 1971
Tratto da “Ebraismo, popolo ebraico e stato d’Israele”, a cura di Ariel Rathaus, Carucci Editore – DAC, 1980 (esaurito). Trasposizione elettronica a cura di Morashà 2003.