Maria Luisa Moscati Benigni
Synagoghè è la traduzione greca dell’espressione ebraica beth ha-kenèset, casa dell’adunanza, in cui si riunisce appunto la kehillà, la comunità dei fedeli: così come dal latino ecclesia, nel significato di assemblea, deriva il termine chiesa. La sinagoga è il luogo di culto ebraico ove si tiene la preghiera collettiva con formule stabilite. Espressione dell’anima del popolo ebraico, la preghiera ne rappresenta l’unità: in molti testi sacri è scritto “Dio non respinge la preghiera pubblica” oppure “La preghiera comune è sempre esaudita”. Questa esige la presenza del minian, il numero minimo di dieci uomini. Ma la sinagoga è anche la beth ha-midrash, la casa di studio, e in quanto tale cerca di soddisfare tutti i bisogni religiosi e culturali della comunità diventando con ciò un luogo di elevazione intellettuale e morale. Per questo gli ebrei aschenaziti (tedeschi) la chiamavano schul, i sefarditi (spagnoli) schola, e ancor oggi in Italia la via in cui sono situate le sinagoghe, è spesso denominata Via delle Scuole, come è il caso di Pesaro.
Quando e perché sorsero le sinagoghe
La sinagoga non ha origini così remote come l’ebraismo stesso; nel deserto, era stata eretta la Tenda dell’Alleanza in cui erano conservate le tavole della Legge, poi al tempo di re Salomone venne eretto a questo scopo il sacro Tempio di Gerusalemme. Solo il sommo sacerdote poteva accedere, scalzo, al “Sancta santorum” e pronunciare una volta all’anno il Nome di Dio, ma il frastuono dei musici copriva la sua voce in modo che il popolo non potesse udirlo: così se ne è persa l’esatta pronuncia e nessuno la conosce più. Da qualsiasi parte del regno di Giudea gli ebrei si recavano ogni anno in pellegrinaggio al Tempio di Gerusalemme in occasione delle tre maggiori festività, portavano offerte, compivano sacrifici. Era quanto restava del popolo ebreo dopo che gli Assiri, nel 772 a.C., avevano distrutto il regno del Nord e deportati tutti gli abitanti che costituivano dieci delle dodici tribù d’Israele.
Due secoli più tardi una nuova sciagura: invaso il regno di Giudea, distrutto il Tempio (586 a.C) e abolito il culto, i Babilonesi deportano la parte migliore della nazione ebrea lasciando “i più poveri della terra” (2 Re xxv,12).
È a questo punto che, perso il regno, per scongiurare il pericolo dell’estinzione totale del popolo ebreo, Ezechiele vede nella religione l’unica possibilità di sopravvivenza, in quella condizione di schiavi tra una popolazione ostile. Per tre volte riunisce gli anziani in casa sua e concordano che sarà lo studio sistematico della Torà a tenere unito Israele. Di Torà, termine tradotto con Legge, ma più propriamente col significato di “insegnamento” si parlerà in luoghi appositamente scelti, in essi lo studio del Pentateuco e la preghiera prenderanno il posto dei sacrifici. Già Osea aveva detto “invece del toro, offriremo l’omaggio delle nostre labbra” (Osea 14,3) e sorsero così le prime sinagoghe, nient’altro che aule o piccole sale, spesso allestite presso un’abitazione privata. Anche quando, tornati nella loro terra, gli ebrei poterono ricostruire il Tempio, l’uso di sinagoghe dislocate nei centri minori era ormai penetrato nell’animo e nella consuetudine tanto da non poter più essere abolito.
Tutto ciò si ripeterà dopo il 70 d.C. a seguito della nuova distruzione del Tempio di Gerusalemme ad opera di Tito. Ancora una volta gli ebrei presero la via dell’esilio in parte verso l’Europa dell’Est, in parte verso la Spagna ove vivranno a fianco degli arabi esperienze culturalmente feconde. Le splendide sinagoghe spagnole, trasformate in chiese cristiane dopo l’ennesima cacciata degli ebrei, restano a testimonianza dell’alto livello culturale raggiunto: una per tutte Santa Maria la Blanca a Toledo (metà del XIII sec.).
Mentre una piccola parte di essi non lascerà mai quella terra che i romani, in dispregio delle tradizioni storiche ebraiche, chiamarono Palestina (Phalestina cioè terra dei filistei), ben cinquemila furono condotti schiavi a Roma per fare più grande il trionfo di Tito. Questi a poco a poco furono riscattati dalla comunità ebraica romana già fiorente prima dell’era volgare. Molti di questi ebrei, appartenenti alla nuova corrente mistica seguace di Cristo avversata da Roma, allestirono le prime sinagoghe nelle catacombe. Curioso il fatto che nell’arco solio della catacomba scoperta verso la metà del ‘500 sotto Villa Torlonia, figuri lo stesso disegno della splendida volta della sinagoga di Pesaro, costruita per altro proprio in quegli anni.
Nella diaspora la sinagoga sarà anche il centro che regola la vita sociale, contribuisce a tener vivo il rispetto delle tradizioni e sarà soprattutto il sostegno dei più deboli in seno alla comunità.
Caratteristiche architettoniche e strutturali
Non esiste un’architettura sinagogale, almeno dal punto di vista stilistico. Gli edifici destinati a quest’uso infatti assumono gli aspetti più svariati a seconda dei luoghi in cui sorgono, a seconda delle varie epoche e della consistenza numerica ed economica delle varie comunità. Tuttavia ciò che maggiormente influisce sull’aspetto, almeno esteriore, degli edifici sinagogali è la maggiore o minore oppressione cui è sottoposta la comunità.
Nella Roma antica, anche se suscitava non poca perplessità quell’adorare un Dio invisibile, il culto ebraico era ammesso e i resti dell’imponente sinagoga di Ostia lo dimostrano. In Sicilia, ove l’imperatore Federico II aveva concesso loro ampi benefici, eressero splendide sinagoghe; quella maggiore di Palermo viene ampiamente descritta da Obadià di Bertinoro che la visitò nel 1488. Con i suoi colonnati, cupole, legni intarsiati e marmi era la più sontuosa d’Italia. Ma nel 1492, per estensione dell’Editto di Granada, gli ebrei dovettero, dopo quindici secoli di intenso e spesso geniale lavoro, lasciare l’isola senza portare con sé nient’altro che “due tarì e un paro di lenzuola a testa”. Le sinagoghe più belle furono consacrate al culto cristiano.
La fine del Quattrocento e gli inizi del secolo successivo sono segnati dalla grande crisi delle comunità ebraiche italiane per l’opera di demonizzazione dell’ebreo, condotta dai frati Minori dell’Osservanza. Prudenza volle che i luoghi di culto ebraici, eretti tra la metà del Cinquecento e la metà dell’Ottocento, evitassero ogni segno esteriore che potesse permettere di identificarli. Sono spesso mimetizzati con gli edifici circostanti e sono dotati di ingressi, o vie di fuga, su vie diverse, nella speranza di evitare massacri e ruberie durante i tumulti scatenati dalle infervorate prediche dei Minoriti. Questi eventi impediscono, almeno esteriormente, l’affermarsi di un’architettura sinagogale persino in quelle terre, come il Ducato di Urbino, governate da signorie illuminate, ma pur sempre sottoposte al controllo della Chiesa.
Nel 1554, allorché papa Giulio III impose una tassa di dieci ducati d’oro su ogni sinagoga, nei soli stati sottoposti alla Chiesa ne furono censite ben centoquindici, delle quali trentaquattro nelle sole Marche. E a ben guardare sono ancora visibili tracce indicative su vecchie facciate, nel cuore delle antiche giudecche in tanti centri piccoli e grandi delle Marche.
Dopo il 1860, con l’unità d’Italia, gli ebrei, equiparati agli altri cittadini, hanno piena libertà: sorgono ora nuove sinagoghe o si ristrutturano le vecchie. Forse per un comprensibile spirito di rivalsa, dopo secoli di mortificante isolamento, si tende a manifestare l’esultanza per l’ottenuta emancipazione, concretizzando quell’origine orientale, ormai lontana millenni, in ricercati stili esotici, orientaleggianti. È il caso della sinagoga di stile arabo-moresco di Firenze e di quella di stile composito, largamente influenzato da motivi assiri, di Roma, per non parlare dell’imponente Mole Antonelliana di Torino che per i dispendiosi ardimenti architettonici del progettista, cessò di essere sinagoga prima ancora di diventarlo.
Nelle Marche si è evitato tutto questo, forse per un senso del bello più semplice e discreto, forse per il rispetto al passato o più semplicemente per le limitate possibilità economiche delle comunità ebraiche, ormai impoverite di numero e di mezzi.
Si è conservata così nelle sue forme originarie, la splendida sinagoga sefardita di Pesaro, mentre quella levantina di Ancona, costruita ex-novo nella seconda metà dell’Ottocento, è semplice e luminosa.
All’interno, invece, e più propriamente nella sala in cui sono conservati i sifré-Torà (rotoli manoscritti di pergamena con il Pentateuco), gli ebrei cercarono di esprimere la loro venerazione per il Nome del Signore scritto nella Torà, decorando, spesso pesantemente, le pareti, le volte e ponendo la massima cura negli addobbi e negli arredi.
Lo stile dell’epoca e soprattutto il rito cui appartiene la comunità, daranno l’impronta: l’esempio più palese lo abbiamo proprio nelle due sinagoghe di Pesaro, costruite in Via delle Scuole, l’una di fronte all’altra, a distanza di pochissimi anni, eppure così diverse. Quella “italiana”, non più esistente, aveva la volta suddivisa in riquadri affrescati con delicate volute di foglie e di fiori, era caratterizzata dalle eleganti linee rinascimentali; l’altra, sefardita, è sì espressione di un rinascimento, ma non certo quello italiano dell’arte, bensì quello culturale ebraico-spagnolo che, stilisticamente, si traduce in una ridondante sovrabbondanza di decori.
Tuttavia, nonostante certe differenze formali, tutte le sinagoghe hanno in comune gli elementi necessari allo svolgimento dei riti e all’adempimento delle mizvot (precetti). La sala di preghiera è sempre al primo piano o comunque ad un piano rialzato e ciò non tanto per proteggere i fedeli dalle tutt’altro che rare intemperanze del popolino, ma perché la volta della sala giunga sino al tetto onde evitare che qualcuno possa trovarsi materialmente al di sopra del sacro aròn (Arca santa) conservato nella sala sottostante.
L’aròn, che è poi l’armadio in cui sono conservati i Sifrè-Torà, è sempre addossato alla parete volta a mizrach (al sorgere del sole) in modo che i fedeli, guardandolo, abbiano gli occhi volti verso Gerusalemme. È nella costruzione di questo arredo che si è sbizzarrita la fantasia degli ebanisti e si è profuso il denaro dei mecenati, o delle Comunità. Ne esistono degli stili più diversi, dalla splendida credenza quattrocentesca di Urbino (ora a New York) al grande armadio barocco di Pesaro, da quelli cinquecenteschi di Ancona, impreziositi da lamine d’argento sbalzato, a quello coevo, classico, della non più esistente scola italiana di Pesaro, quasi certamente proveniente da Ascoli Piceno.
Il carattere di sacralità che investe questo mobile deriva dal fatto che in esso sono custoditi i Sifré-Torà, a loro volta considerati sacri poiché in essi è scritto il nome del Signore. Davanti all’aròn è sempre acceso il nèr-tamìd (luce perpetua), a ricordare la luce che dalla Torà si irradia.
Nella parete opposta è sistemata la tevà, una sorta di pulpito, rialzato rispetto al resto della sala, sul quale l’officiante apre il Sefer e procede alla lettura del passo biblico del giorno. Anticamente, nelle sinagoghe di rito italiano, la tevà era situata al centro della sala.
Alle pareti non figurano immagini, né statue, in ottemperanza a quanto prescritto dal secondo Comandamento che vieta di raffigurare l’uomo creato ad immagine di Dio. Questo anche per evitare il pericolo di cadere nel grave peccato di idolatria attribuendo ad un’immagine il culto dovuto al Creatore soltanto. A dire il vero sono proibite anche le raffigurazioni di paesaggi, per questo la sinagoga di Pesaro, in cui due tempere ottocentesche fiancheggiano la tevà, costituisce una rara eccezione.
Sulla sala di preghiera si affacciano, schermati da grate, i balconcini del matroneo: la scala e lo stesso portone d’ingresso delle donne erano separati da quello degli uomini, anzi molto spesso si aprivano su vie diverse offrendo così una possibile via di fuga.
Nell’ingresso è sempre sistemata una fontanella per la purificazione delle mani, prima che queste vengano a contatto con un testo sacro durante la lettura delle preghiere. Un pozzo, sempre presente nello scantinato dell’edificio, fornisce l’acqua che alimenta la fontana e il miqwè (bagno rituale).
L’acqua, elemento purificatore che tanta parte ha nella ritualistica ebraica, viene usata anche per impastare i pani azzimi che l’intera comunità dovrà consumare negli otto giorni di Pesach (la Pasqua ebraica). Nell’edificio della sinagoga infatti è sempre presente anche il forno perché la confezione e la cottura degli azzimi deve avvenire sotto stretto controllo del rabbino e soprattutto in un ambiente in cui non sia mai stato fatto uso di lievito.
Alla sinagoga infine è sempre annesso uno spazio scoperto, solitamente un cortile, in cui viene allestita, in occasione della festa autunnale di Sukkòt (Capanne o Tabernacoli), la sukkà, la capanna cioè in cui va consumato almeno un breve pasto ogni giorno, per otto giorni. Ciò va fatto per rendere grazie al Signore per i frutti della terra, ed anche in ricordo dei quarant’anni trascorsi nel deserto, per non dimenticare che gli ebrei, in origine popolo di pastori, usavano vivere in tende sotto le stelle, ed è proprio la luce del cielo aperto che deve trapelare tra le frasche della sukkà. È una lezione di umiltà poiché in essa ricchi o poveri che siano, vivranno ricordando le comuni umili origini.
Ma ciò in cui gli ebrei amavano veramente lo sfarzo era negli addobbi che ornavano il sefer: corone e puntali (detti rimmonimperché un tempo erano a forma di rimmon, melograno) d’argento, “manine” d’avorio o di corallo o d’argento per seguire la lettura senza toccare la scrittura del sefer. Tessuti impreziositi da splendidi ricami, lavoro in cui un tempo le donne ebree eccellevano, vengono usati come tendaggi per l’arca santa e come manti per il Sefer-Torà. Era solitamente una famiglia, che desiderando fare un dono alla propria sinagoga, ricorreva a qualcosa di meno evanescente dell’offerta in denaro, oppure erano i nuovi immigrati che, fuggiti dai loro paesi, portavano gli addobbi delle loro sinagoghe perdute. Tutti questi addobbi, spesso diversissimi tra loro per stile e materiali a seconda dei paesi di provenienza, avrebbero potuto raccontare la storia delle ondate di immigrazione ebraica che si succedettero nelle varie comunità, se non fossero stati per secoli oggetto della cupidigia di quanti, con il pretesto della fede, irrompevano nelle sinagoghe saccheggiandole, e ciò fino al 1943-45.
Ma il tesoro maggiore era costituito dal gran numero di libri, spesso preziosi manoscritti e incunaboli; le comunità grandi e piccole delle Marche ne possedevano in grande quantità sia per la rinascita della cultura ebraica nelle jeshivot (scuole superiori) annesse alle sinagoghe, sia per l’intensa attività tipografica svolta a Fano e a Pesaro da Ghershon Soncino sin dai primi anni del ‘500. Anche questo inestimabile patrimonio è andato distrutto nei roghi ordinati all’inizio da vari papi, rimessi in auge da Giulio III nel 1553, sino a quelli sistematicamente condotti dalla gioventù nazista dal maggio del 1933.
Storicamente il programma di annientamento fisico del popolo ebreo è sempre stato preceduto dai roghi dei libri e dalla distruzione della sinagoga: libro e sinagoga, entrambi simbolo del pensiero e della cultura ebraica. È il caso delle due splendide sinagoghe cinquecentesche di Ancona fatte demolire, quella ispano-levantina nel 1860 dalle truppe papaline e quella italiana nel 1932 dalle autorità fasciste. In entrambi i casi, non la sola comunità ebraica, ma l’intera città di Ancona persero due splendidi monumenti.
Sulle tracce delle sinagoghe antiche non più esistenti
Nel 1554 papa Giulio III imponeva una tassa di dieci ducati d’oro per ogni sinagoga presente negli Stati pontifici o comunque sottoposti alla Chiesa sia pure indirettamente come il Ducato di Urbino. In tale occasione ne furono censite centoquindici delle quali nove a Roma e venticinque nel resto del Lazio, undici a Bologna, ventidue nelle Romagne e ben trentaquattro nelle sole Marche.
La regione infatti trovandosi alla confluenza delle due maggiori vie consolari, la Salaria e la Flaminia, che da Roma giungevano all’Adriatico e più propriamente al porto di Ancona considerato la porta d’Oriente, vide sin dalle epoche più remote una numerosa affluenza ebraica commercialmente vivace. Erano quindi all’inizio provenienti “de Urbe” cioè ebrei di rito “italiano”, cui si aggiunsero, nella prospera comunità di Ancona, i “levantini” e gruppi di ebrei tedeschi “aschenaziti” sfuggiti ai feroci massacri all’epoca della grande peste. Le differenze tra i vari riti erano molto sentite per cui sorsero diverse sinagoghe e vari piccoli oratori a seconda del rito. A mano a mano che dalle città costiere gli ebrei si trasferivano, spesso chiamati con regolari condotte mediche o feneratizie, nelle città e paesi dell’interno, si andavano allestendo anche lì nuove sinagoghe. Queste non sempre erano in edifici separati, ma spesso semplici oratori allestiti in un’abitazione privata. Tuttavia quest’uso permetteva di sfuggire ad un attento controllo e soprattutto alla nuova tassazione per cui, con una nuova Bolla, papa Giulio III ordina che le sinagoghe vengano costruite in edifici isolati cioè totalmente “circondati dall’aria”. Ciò permette di identificare con precisione gli antichi edifici sinagogali anche secoli dopo che questi hanno cessato di essere tali.
(L’edificio che più di ogni altro conserva il caratteristico isolamento voluto dalla Bolla di papa Giulio III, è ancora ben ravvisabile in Apecchio anche se dal 1633 non ospita più la sinagoga. La presenza di un antica sinagoga, segnalata in documenti esaminati da Monsignor Berliocchi, è stata localizzata proprio grazie ad un vicolo non percorribile, stretto poco più di trenta centimetri, quanto basta perché l’aria circoli torno torno separando la sinagoga e le case abitate dagli ebrei, da quelle dei cristiani. Questo vicolo è ancora visibile aprendo una piccola porta in via dell’Abbondanza, e si prolunga sino a sbucare sul Pianello. Qui si affacciava la parete lunga della sinagoga, con tre alte finestre a ogiva, come si può vedere da una vecchia foto fatta durante i lavori di demolizione della parte prospiciente il Pianello. Intatto invece è rimasto il fianco dell’edificio su contrada Porta Nuova, qui c’è ancora il forno, mentre è evidente che le finestre, un tempo altissime, sono state parzialmente tamponate, e inoltre al termine del cordolo marcapiano, ci sono ancora le pietre angolari che delimitavano l’antico edificio. Qui l’amministrazione comunale ha di recente posto una lapide per ricordare l’antica presenza della comunità ebraica. Foto M.Landi)
Sino al 1633, anno dell’istituzione del ghetto, funzionavano a Pesaro tre sinagoghe, oltre a numerosi oratori. Quella più antica, di rito italiano, era in piazza Giudea, in via delle Zucchette dietro la chiesa di San Francesco, ma venne abbandonata perché fuori del recinto del ghetto. L’altra, sempre di rito italiano è ben visibile nella veduta a volo d’uccello del Mortier, ripresa dal Blaeu. Venne edificata verso la metà del Cinquecento in quella che fu poi denominata via delle Scuole, con una doppia possibilità di accesso su via delle Botteghe. In questa via che conserva ancora le caratteristiche case di un tempo, si apriva l’ingresso delle donne. L’ingresso degli uomini era invece su via delle Scuole, ove ora si apre un cancello, ed occupava l’area dell’attuale cortile, sul muro sono ancora visibili le finestre protette dalle antiche inferiate che davano luce all’ ingresso. In una rara foto dell’interno si può vedere l’aròn, un tempietto di stile classico forse portato a Pesaro dalla comunità di Ascoli Piceno. Ora si trova in parte nel tempio di via Guastalla a Milano, mentre colonne e cupola, insieme alla tevà, nella jeshivà Zanz di Natania in Israele. L’edificio, già da decenni in precarie condizioni, e reso inagibile dal terremoto del ‘30, fu venduto il 26 aprile del 1938 unitamente alle basse casette semidiroccate giù giù sino all’antico edificio su via degli Industrianti.
È ancora possibile vedere in Urbino l’edificio che ospitava la sinagoga antica.
Al numero 12 di via dei Merciari (oggi via Veterani), si apre “l’androne dei giudei”. Era l’ingresso riservato alle donne che potevano così accedere al matroneo, ma permetteva anche di scendere al miqwè (bagno rituale) e al forno. L’ingresso degli uomini invece, che si apre al numero 11 del retrostante vicolo degli Ebrei, immette nell’elegante loggia trecentesca, quasi sconosciuta agli stessi urbinati protetta com’è dal muro del cortile su cui si affaccia. Qui la comunità ebraica urbinate si riunì per quasi tre secoli, dalla metà del trecento al 1633. In quell’anno infatti venne istituito il ghetto essendo il Ducato passato allo Stato della Chiesa dopo la morte dell’ultimo duca Francesco Maria II della Rovere.
Anche la sinagoga fu trasferita nel quartiere del ghetto appena istituito e, primo fra tutti gli arredi, l’aròn, il più antico al mondo di cui si abbia notizia. Era una splendida credenza della seconda metà del Quattrocento che rimarrà nella sinagoga di via Stretta per ancora tre secoli per poi salpare oltre oceano: ora è esposta al Jewish Museum di New York.
(Il prospetto sul cortile della sinagoga antica di Urbino, dalle pure linee trecentesche, è caratterizzato dalla loggia con archi a tutto sesto, sottolineati da una centina di mattoni in foglio. Pilastri portanti ed archi presentano il tipico alternarsi di cotto e conci in pietra, proprio del Trecento. Al primo piano, al posto delle due attuali finestre, sono ancora ben leggibili nelle cuciture dei mattoni tre alte arcate che davano luce alla scuola annessa alla sinagoga, mentre al secondo si aprivano le tre lunette del matroneo, accessibile da via dei Merciari, oggi via Veterani. Foto David Moscati. 1983)
La sinagoga sefardita di Pesaro
L’edificio, situato al numero 25 di Via delle Scuole, non ospita più la sinagoga ormai da decenni, infatti le ultime funzioni religiose vi furono celebrate per i soldati delle truppe alleate. In seguito, nel 1970, l’aròn venne trasferito nel nuovo tempio di Livorno: il trasferimento si rese necessario per sottrarlo ad eventuali danni in un edificio ormai fatiscente e soprattutto perché non avrebbe più potuto assolvere la sua funzione di arca santa là dove non esisteva più una comunità. Con il trasferimento dell’aròn l’edificio cessa la sua primitiva funzione di sinagoga, ma non è mai stato adibito ad uso abitativo o comunque diverso.
Possiamo far risalire la costruzione della sinagoga ai primi decenni della seconda metà del ‘500, infatti, in mancanza di documenti, per una datazione sicura è necessario rifarsi alle vicende storiche della comunità che l’ha edificata. Questa teoria dell’architetto Pinkerfeld, fondatore della sinagografia moderna, è confortata da molti elementi come l’arrivo in città di numerosi ebrei sefarditi sfuggiti al rogo di Ancona del 1556, tra questi il poeta Didaco Pirro Lusitano e il fratello Amato, il celebre medico di papa Giulio III. A seguito del rogo si ha la prima ed unica ribellione ebraica organizzata: il porto di Ancona viene boicottato a favore di quello di Pesaro dando così il via ad un periodo particolarmente florido per i commerci della città. Il duca Guidubaldo II, cui non sfugge l’enorme importanza dell’evento per l’economia del ducato, appoggia e favorisce l’afflusso dei nuovi ebrei. Ritorna a Pesaro, ove è nato, anche rabbi Moshè Bàsola reduce da un lungo soggiorno a Safed in Palestina e avvia un centro di studi cabalistici, come già in Ancona. Ciò attira in città un ricco banchiere, filantropo e mecenate, Mordekhaj Volterra, giunto da Livorno ma originario anch’egli dal Portogallo e, per la sua munificenza, il suo nome resterà legato a quello della nuova sinagoga che di lì a poco sorgerà proprio accanto a quella di rito italiano già esistente.
Non esistono documenti in proposito, ma forse sarebbe bene non ignorare la presenza, proprio in quegli anni, dell’architetto Filippo Terzi, nativo di Pesaro ma vissuto a lungo in Spagna e Portogallo come architetto dei sovrani. È impegnato nella progettazione della parte terminale della bella torre campanaria di Santa Maria Novella nella vicina Orciano, ma non è pensabile che tanti portoghesi si trovino contemporaneamente a Pesaro e non abbiano alcun contatto tra loro. E la sinagoga è anche esteriormente il lavoro di qualcuno, proprio perché non ebreo, che vuole mostrarla e non nasconderla mimetizzandola tra altre costruzioni, come era accaduto sino ad allora.
Non ci sarà più nella storia degli ebrei di Pesaro un altro momento altrettanto favorevole per la costruzione di una sinagoga così imponente e la gratitudine ai Della Rovere è espressa dal fitto intreccio di serti di quercia, come se un inno di ringraziamento restasse impigliato attorno ai lacunari del maestoso soffitto.
Esternamente dunque l’edificio è subito individuabile, nel gomito interno di via delle Scuole, per le alte vetrate, requisito irrinunciabile che permette di sfruttare al massimo la luce per la lettura dei sacri testi, ma qui le finestre sono sormontate da altre più piccole quadrate di puro stile rinascimentale.
All’interno riflette lo spirito dell’epoca, segnata da una rinascita degli studi mistici e cabalistici, fioriti a Safed e diffusi nelle terre della diaspora raggiunte dai sefarditi. Il rabbino Bàsola già prima di ritornare nella natia Pesaro aveva fondato una scuola annessa alla nuova sinagoga spagnola-levantina di Ancona, con le stesse caratteristiche di quelle di Safed in Palestina, di Carpentras e Cavaillon in Francia, di Smirne, tutte coeve e sefardite. Sono tutte di tipo bipolare, a tre livelli e la separazione tra la parte riservata ai fedeli e quella occupata dall’officiante è sottolineata da archi, colonne e scale. In tutte è comune la posizione dell’ingresso alla sala posto sotto la tevà, in modo che, chi entra, sia subito volto verso Gerusalemme. In tutte dominano l’azzurro e il giallo, la volta rappresenta idealmente la “Puerta del Cielo” (opera della metà del ‘500 del cabalista Avraham Cohen Herrera). I rosoni chiusi nei lacunari ottagonali scendono tra gli archi delle finestre e della tevà, mentre gli archi stessi si insinuano nella volta con un gioco di linee e di fiori tanto da non poter distinguere le parti che sorreggono da quelle sorrette.
Alla tevà si accede salendo una doppia scala di quindici gradini, ai lati dei ballatoi troviamo due paesaggi a tempera ottocenteschi: quello di sinistra rappresenta una veduta ideale del tempio di Gerusalemme, quello di destra, quasi illeggibile, raffigura il deserto con la Tenda dell’Alleanza nell’accampamento ai piedi del monte Sinai.
Lungo la parete di sinistra si aprono, disposti su due ordini, le finestre del matroneo separate da coppie di lesene sormontate da capitelli compositi. Un tempo erano schermate da grate in legno intagliato con minutissime stelle di David, ora queste sono collocate nella sinagoga di Talpioth, vicino Gerusalemme.
Alla parete volta a mizrach era addossato l’aròn, fiancheggiato da colonne e sormontato da una grande corona di legno pur essa dorata.
L’aròn datato e firmato nel 1708 dall’ebanista di Cupramontana Angelo Scoccianti è, come pure il balconcino della tevà, in legno intagliato e dorato e fa parte di tutta una serie di rifacimenti barocchi di gran lunga successivi alla costruzione dell’edificio
Al piano terreno trovano posto il miqwè, bagno rituale formato da una vasca profonda in cui si scende per un’immersione totale, la stanza del forno e il pozzo. In fondo all’ampio corridoio di ingresso, accanto alla rituale fontana per il lavaggio delle mani, si apre la vetrata che usciva sul cortile, altro elemento questo sempre presente ed indispensabile per celebrare a cielo aperto, la festa di Sukkoth.
Annesso alla sinagoga era l’antico fabbricato che si prolunga su via Sara Levi Nathan, in esso, oltre agli uffici amministrativi, si trovavano le varie scuole compresa la famosa jeshivà di studi superiori di mistica ebraica che nel ‘500 aveva attirato a Pesaro tanti eminenti studiosi.
(Complesso monumentale della tevà della sinagoga sefardita di Pesaro con il triplice arco sorretto da due coppie di colonne in finto marmo rosato, effetto ottenuto con la tecnica dell’encausto, sormontate da capitelli pseudo-ionici e serti di fiori. Vi si accede salendo 15 scalini essendo ad un livello notevolmente superiore rispetto alla sala che possiamo definire un modello di tipo D (bipolare, su tre livelli diversi) secondo la classificazione sinagografica dell’architetto J. Pinkerfeld.
Sotto la tevà è situata la porta di ingresso, caratteristica comune a tutte le sinagoghe di questo tipo edificate intorno alla metà del Cinquecento. Il balconcino della tevà in legno intagliato e dorato è ora nella sinagoga levantina di Ancona. Foto J. Pinkerfeld,1939)
(L’Aròn, o Arca santa, della sinagoga sefardita di Pesaro, è fiancheggiato da coppie di colonne che sorreggono una grande corona di legno dorato, a sottolineare la maestà del Sefer Torà(libro della Legge) contenuto nell’arca. L’opera realizzata in legno intagliato e dorato porta la firma dell’artista Angelo Scoccianti, nativo di Cupramontana ma con bottega a Roma. È datata 1708 come pure il balconcino della tevà opera dello stesso ebanista.
Essendo ormai estinta la comunità ebraica di Pesaro, l’aròn è stato trasferito a Livorno nel 1970 e situato nella nuova sinagoga costruita, in piazza Benamozegh, su progetto dell’architetto romano Angelo Di Castro. Foto Alberto Jona Falco, Milano).
(I due dipinti a tempera, posti sui ballatoi della tevà di Pesaro, ormai quasi illeggibili, risalgono all’Ottocento. Quello a sinistra di chi guarda la tevà, è solo un’ingenua raffigurazione del sacro Tempio di Gerusalemme, la cupola, che nella realtà è quella della moschea di Omar, sporge al di sopra delle mura, a sinistra una palma e la sorgente di un inesistente ruscello.
Il dipinto è realizzato all’interno di un’architettura estremamente elaborata: si può notare una profonda strombatura fiancheggiata da una fuga di lesene, sormontate da capitelli ionici, che sostengono un arco a tutto sesto. Sulla balaustra corre la scritta “Immagine del sacro Tempio – che sia ricostruito ai nostri giorni”. È probabile che data la complessità della composizione architettonica, le due nicchie racchiudessero in origine le Tavole della Legge con la trascrizione in caratteri ebraici dei Comandamenti, uso molto frequente nelle sinagoghe. È interessante notare che qualsiasi tipo di raffigurazione, paesaggio compreso, è proibita all’interno di una sinagoga, pertanto questa è una caratteristica della sola Pesaro.
Sinagoghe ancora attive nelle Marche
La sinagoga italiana di Senigallia
È situata al numero 20 di via dei Commercianti, nel cuore dell’antico ghetto.
Infatti la sinagoga più antica era ubicata nell’odierna via Arsilli. e quindi dovette essere trasferita all’interno del recinto del ghetto stesso. Questo venne istituito nel 1634 allorché, morto l’ultimo duca di Urbino Francesco Maria II Della Rovere, il Ducato ,e quindi anche Senigallia, passò allo Stato della Chiesa.
Parte delle vecchie case vennero demolite a partire dal 1892, al loro posto c’è oggi piazza Simoncelli.
La sinagoga è, come la comunità ebraica di Senigallia, di rito italiano anche se, per il carattere cosmopolita impresso dalla fiera, ha visto l’afflusso di ebrei aschenaziti e levantini, ai quali si aggiungono, dopo i luttuosi fatti di Ancona della metà del ‘500, numerosi sefarditi provenienti dal Portogallo.
L’edificio, ad angolo, ha l’ingresso su un braccio di via dei Commercianti e sviluppa il lato lungo sull’altro braccio della stessa via stabilendo un asse visuale con il Palazzo municipale. Qui, al primo piano, si affacciano cinque alte finestre, quattro della sinagoga e una del retrostante matroneo, sormontate da quelle, oggi cieche, che erano un tempo le finestre della sinagoga. Infatti l’edificio, rimasto danneggiato dal terremoto del 1930, dovette essere abbassato pertanto la sala di preghiera, che occupava il.secondo piano, è oggi al primo.
Vi si accede salendo un ampio scalone che, come pure il vasto ingresso, denuncia la prosperità economica e la consistenza numerica della comunità che l’ha edificata. Gli ebrei sono oltre 600, ma in tempo di fiera il loro numero si accresce ed affluiscono in città, con le loro mercanzie, anche da paesi lontani come la Germania e l’Ungheria. Il periodo di massima espansione della famosa fiera coincide con quello di maggior presenza ebraica e nella sinagoga pertanto si alternano i riti più disparati.
Al primo piano oggi sono dislocati un ufficio, il matroneo e la sala di preghiera. Qui sono stati sistemati tutti i mobili che costituivano l’arredamento del primo piano, per cui al centro della sala sono allineati tavoli e panche, mentre altre corrono lungo le pareti addossate agli alti schienali di legno. La sala acquista così l’aspetto di una jeshivà di tipo aschenazita del tutto inconsueto in una sinagoga italiana.
A giudicare dalla bellezza del balconcino dell’antica tevà, l’arredo doveva essere particolarmente prezioso, e in particolare l’aròn, ma tutto è andato distrutto nel 1799 allorché, partiti i Francesi, un’orda di sanfedisti, unitamente al popolino locale debitamente fomentato, invade le vie del ghetto, uccide tredici ebrei ferendone centinaia e saccheggia case e sinagoga. I superstiti trovano rifugio in Ancona o si disperdono nelle campagne, ma le case sono saccheggiate e incendiate, dalla sinagoga sono trafugati argenti, libri e tessuti, il resto è dato alle fiamme.
Ma nel 1801 papa Pio VII obbliga gli ebrei a ritornare a Senigallia e a ricostruire il ghetto: solo ricostituendo la comunità infatti potrà esigere il pagamento del debito di dodicimila scudi che questa ha accumulato nei confronti della camera apostolica per tasse non pagate in quegli anni terribili e naturalmente relativi interessi maturati. È così che a malincuore ritorneranno, dovranno ricostruire le case devastate, i nuovi portoni del ghetto e rendere di nuovo fruibile la sinagoga. L’aròn e la tevà vengono ricostruiti secondo il nuovo stile Impero, sull’aròn viene issata una cupola in legno di noce forse scampata alla distruzione di pochi anni prima.
Intatta invece, è rimasta la monumentale porta che, unitamente all’ampio scalone, testimonia la grandiosità di un tempo.
(Una vecchia cartolina della tevà della sinagoga di Senigalliacome si presentava prima che i danni provocati dal terremoto del 1930 rendessero necessario l’abbassamento di un piano dell’edificio e quindi anche della sala di preghiera.
Il podio, cui si accedeva attraverso una doppia scala addossata alle pareti laterali, era sorretto da sei colonne con capitelli corinzi e delimitato da una balaustra di legno finemente intagliato e dorato. Era addossato alla parete opposta all’aròn, pertanto anche la sinagoga di Senigallia è di tipo bipolare.
Oggi la splendida balaustra, unico arredo originale rimasto dopo le devastazioni subite nel 1799, è posta davanti all’aròn. )
(La sala della sinagoga di Senigallia (7 metri per 12 circa) non presenta particolari caratteristiche architettoniche, ha tuttavia un aspetto tutto particolare poichè il suo arredo fa pensare ad una scola di tipo orientale. Infatti in seguito dei danni subiti nel terremoto del 1930, l’edificio è stato abbassato di un piano e i tavoli della scuola annessa sono stati portati nella sala di preghiera. L’aròn, che risale ai primi dell’Ottocento, è laccato di bianco con fregi dorati in stile Impero. È fiancheggiato da due finestre, altre quattro corrono sul lato lungo mentre su quello di fronte si apre l’antica porta d’ingresso in legno di noce massiccio. Pannelli in legno ricoprono la parte bassa delle pareti per tutta la lunghezza e fungono da schienali alle panche addossate alle pareti stesse. Altre panche al centro della sala sono disposte parallele alle prime, tutte sono di un bel legno di noce biondo.
La sinagoga di Urbino
Situata all’angolo di via Scalette del Teatro con via Stretta, proprio sotto i famosi torricini del Palazzo Ducale, la sinagoga è facilmente individuabile per l’alta finestra ad arco che sembra accogliere fino all’ultimo, la luce del tramonto. Esternamente non presenta altre caratteristiche, tanto che la facciata su via Stretta ha l’aspetto di un qualsiasi palazzetto di civile abitazione.
La scelta del luogo risale al dicembre del 1633 e venne quindi edificata, al posto di due piccoli edifici preesistenti, già l’anno seguente. In quell’anno tutti gli ebrei che vivevano nelle città e paesi dell’ex ducato di Urbino furono costretti a trasferirsi nei ghetti istituiti a Pesaro, Senigallia e Urbino ed anche la vecchia sinagoga di via Veterani dovette essere abbandonata in quanto fuori dell’area prescelta per la costruzione del ghetto. Gli arredi, come anche l’antico aròn ora esposto al Jewish Museum di New York, furono trasferiti nella nuova sinagoga.
Inizialmente questa era a pianta rettangolare con tre alte vetrate verso Ovest e la tevà al centro della sala, come risulta da uno dei tanti disegni eseguiti nel 1704 dal rabbino Yosef Del Vecchio per decorare un prezioso libretto di preghiere.
Nella metà dell’Ottocento, con l’apertura dei ghetti e l’avvenuta emancipazione, vennero iniziati anche in Urbino lavori di ristrutturazione dell’edificio e la sala cambiò radicalmente aspetto. Sulla parete volta ad Est, cui è tradizionalmente addossato l’aròn, venne edificato l’abside, del tutto estraneo all’architettura ebraica, e, particolare abbastanza curioso, la volta è pressoché identica a quella del duomo di Urbino. .
Nella mutata fisionomia dell’ambiente non trovava più posto l’antico aròn, sia per le sue dimensioni e sia per lo stile, così ne venne commissionato uno di stile neoclassico come è il resto della sala. Allo stesso posto invece è rimasto il matroneo cui si accede salendo, dall’ingresso delle donne, quattro rampe di scale.
Nello stesso ingresso è situata anche la fontanella per il lavaggio delle mani.
Il portoncino di destra invece conduce alla sala del forno provvista anche di un pozzo. La sinagoga così rinnovata venne inaugurata nel 1859.
Del tutto estraneo all’architettura ebraica è l’abside, che invece figura nella sinagoga di Urbino la quale, dopo il totale rifacimento effettuato nella metà dell’Ottocento, è di stile neoclassico. Presenta lo stesso numero di rosoni, sia pure in scala ridotta, dell’abside del duomo di Urbino; come pure identici e dello stesso colore bianco e verdino, sono gli stucchi che decorano l’alta fascia che corre al di sopra del cornicione su cui poggia l’intera volta.
Quattordici colonne ioniche sorreggono il tutto.
La nuova Arca santa, opera dell’ebanista Francesco Pucci di Cagli; ha l’aspetto di un tempietto a pianta circolare di radica di noce biondo. Sei colonne corinzie di legno dorato sorreggono la cupola ornata di pinnacoli dorati. Dello stesso ebanista sono la tevà, le panche e i quattro balconcini del matroneo, un vero merletto tanto è raffinato l’intaglio. Dal soffitto scendono tre grandi lumiere porta candele in ottone, di tipo olandese.
Il lato Ovest della sinagoga di Urbino sporge al di sopra delle mura della città tra la porta di Valbona e il Palazzo Ducale, è pertanto sempre presente nelle tante vedute di pittori e incisori famosi. Sarebbe possibile ricostruire, attraverso un percorso iconografico, i vari cambiamenti subiti dall’edificio dal 1634, anno della costruzione, ad oggi.
L’aspetto attuale è lo stesso che possiamo vedere nella stampa “Urbino” di I. Salcedo del 1860. Alla facciata interamente in cotto, danno slancio tre lesene che scandiscono lo spazio in modo da creare due superfici di fondo: da queste emergono due archi. a tutto sesto, orlati da una sottile centina pure in cotto. Questi danno luce uno alla sala di preghiera, mentre l’altro con la finestra di dimensioni ridotte, al matroneo. Nel progetto originale la facciata, poi rimasta incompleta, doveva essere sormontata dal timpano. Nel muretto, a destra dell’edificio, si può ancora notare l’arco, oggi chiuso, che immetteva nel cortile della sinagoga ove veniva allestita la capanna per la festa di Sukkot.
Le sinagoghe di Ancona
In via Astagno, nel cuore dell’antico ghetto, in un unico edificio, al numero 14, sono alloggiate le due sinagoghe di Ancona, quella levantina e quella italiana.
La costruzione, che risale al 1876, non dovendo più sottostare alle limitazioni imposte dalle antiche Bolle papali, è stretta tra le altre abitazioni dalle quali si distingue soltanto per le alte vetrate. La facciata infatti presenta cinque alte finestre ad arco; le tre centrali, che occupano tutta l’altezza del primo piano, danno luce unitamente alle tre rettangolari posta al di sopra del pesante cornicione, alla sala del tempio ispano-levantino.
L’architetto Vito Volterra segnala una prima sinagoga levantina nell’antico Palazzo della Farina, sotto le possenti arcate ove pare esistesse anche una moschea dei mercanti saraceni.
In seguito con l’arrivo in Ancona di rabbi Mosè Bàsola, reduce da Safed in Palestina e fautore di una rinascita della cultura religiosa, si avverte l’esigenza di una nuova sinagoga.
Inoltre proprio nel 1547 papa Paolo III con Bolla del 21 febbraio, istituisce speciali franchigie per l’uso del porto a favore degli ebrei “massime levantini” e ciò fa aumentare la popolazione ebraica, e i commerci, al punto che non bastano più i vecchi fondachi. Lo stesso ambasciatore della Repubblica veneta annota con apprensione che il porto di Ancona costituisce una minaccia per quello di Venezia.
Infine giungono in città, sempre prima della metà del ‘500, anche numerosi ebrei sefarditi i cui riti danno ampio spazio al canto e a ciò è legato un nuovo tipo di architettura sinagogale. Rabbi Bàsola si fa interprete delle nuove esigenze religiose e grazie al momento particolarmente favorevole dal punto di vista economico, intorno al 1550 dirige la costruzione di una nuova scola ispano-levantina (qui i due riti si fondono) sul modello di quella di Safed, e su questo stesso modello pochi anni dopo erigerà quella della natia Pesaro.
La splendida sinagoga costruita sul porto, cui era annessa la famosa Jeshiwà Shalom (accademia Pace), verrà fatta demolire dal generale pontificio Lamorcière nel 1860, proprio alla vigilia dell’unità d’Italia.
Quella attuale quindi è la terza sinagoga levantina di Ancona, fu inaugurata il 14 settembre del 1876 grazie anche al contributo del rabbino David Abraham Vivanti che di quella antica aveva fatto eseguire disegni e rilievi prima della demolizione ed aveva fatto sì che l’imponente aròn fosse recuperato e posto nella nuova.
Nello stesso edificio, sotto il primo piano e posta in modo che l’aròn si trovi esattamente al di sotto di quello levantino, c’è anche la sinagoga di rito italiano.
È curioso il fatto che anche questa sia la terza costruita in Ancona. La comunità in origine era infatti, già prima del Mille, costituita da ebrei italiani. Nel medioevo la sinagoga si trovava in via del Gozzo, molto vicina alla chiesa della confraternita dei Santi Rocco e Sebastiano. La confraternita, infastidita dai canti ebraici che provenivano dal vicino oratorio, ottiene dal Consiglio cittadino lo spostamento della sinagoga in un’altra sala, purché sostenga le spese per il trasferimento e la sistemazione. Viene preso in affitto un edificio di proprietà dei conti Ferretti, nell’attuale corso Stimata all’altezza di via Bagno (proprio lì si apriva l’ingresso del miqwè), che verrà poi trasformato nella bella sinagoga inaugurata nel 1597 e funzionante sino al 1932. In quell’anno le autorità fasciste, approfittando del progetto del nuovo corso, per altro ancora in fase di progettazione e quindi ancora suscettibile di una lieve variante, decretano la distruzione dello storico monumento.
Le gravi difficoltà causate in quegli anni dalle leggi razziali, impediscono la costruzione di un nuovo edificio e gli arredi cinquecenteschi vengono trasferiti nella sala sottostante la sinagoga levantina in cui si trovano ancora oggi.
Nello stesso edificio è situato anche un miqwè (bagno rituale) di tipo a contatto, in cui le due vasche parallele permettono di miscelare l’acqua. Un terrazzo, accessibile dalla scala che conduce al matroneo, offre lo spazio scoperto per allestire la sukkà.
(La sala (18 metri per 10) della tempio levantino di Ancona era all’inizio di tipo bipolare poi negli anni trenta sono avvenute trasformazioni per quanto riguarda l’arredo. Nella parete di fondo, su un piano rialzato si trovano ora sia la tevà che l’aròn. Questo, in legno e stucco, appare monumentale e dà l’idea della grandiosità della sinagoga precedente da cui proviene. Le dieci colonne, cinque su ogni lato, che lo fiancheggiano sono in legno dipinto a finto marmo con la tecnica dell’encausto, il colore rosso pompeiano risalta sul verde del fondale, hanno profonde scanalature e sono sormontate da capitelli corinzi dorati. L’intera struttura è sormontata da una grande corona, pure dorata, sotto la quale corre la scritta in lettere ebraiche “Per coloro che seguono la Torà“.
Le ante che chiudono l’arca sono d’argento sbalzato, risalgono probabilmente ai tempi di rabbi Bàsola, in quanto di gusto spagnolo, non comuni nelle sinagoghe del Rinascimento italiano. In una delle arcate di destra, è stato inserito negli anni quaranta il balconcino della tevà di Pesaro).
Il tempio italiano di Ancona, allestito nel 1932 nella sala sottostante a quello levantino, conserva i preziosi arredi di quello antico. Oggi è di tipo bipolare: il baldacchino della tevà, che precedentemente era addossato all’aròn, si trova ora tra le due porte di ingresso e le panche sono disposte lungo le pareti, parallele ad altre due doppie, situate al centro della sala. Entrando si ha di fronte l’aròn impreziosito da ante in argento scolpito, in basso, a motivi floreali e con le Tavole della Legge nella parte superiore: uno splendido lavoro di cesello.
Lo fiancheggiano due colonne tortili decorate con larghe foglie dorate, mentre altre colonne, in fuga sui lati, creano un effetto di profondità. Il complesso è formato di legni e di stucchi completamente dorati mentre i capitelli compositi richiamano, con le ampie volute, il Sefer Torà, quando è a metà della lettura.
Un timpano di ispirazione classica sovrasta l’aròn, su tutto campeggia una grande menorà, il candelabro a sette bracci.
Cimiteri ebraici nelle Marche
Beth ha–chajìm, casa della vita o casa dei viventi, così è chiamato il cimitero ebraico: chi non è più, continua a vivere nel ricordo costante dei suoi cari o nelle sue opere e nei suoi studi. Il terreno è solitamente in un pendio volto verso Est, le tombe guardano verso Gerusalemme. Dove le leggi lo permettono, la salma viene calata nella fossa avvolta in un semplice lenzuolo per accelerare il ritorno alla terra in ossequio al detto “Vieni dalla polvere e alla polvere tornerai; la polvere torna alla terra da cui è venuta e l’anima verso Dio che l’ha creata”. Per questo è rigorosamente proibita la cremazione ed anche la riesumazione. Inoltre il cadavere, essendo ormai privo dell’anima, è considerato impuro per cui non può essere portato in sinagoga e le preghiere sono recitate direttamente al cimitero. Il luogo è sempre stato scelto lontano dai centri abitati anche quando i cristiani, prima del trattato di Saint Cloud, usavano seppellire i morti all’interno delle chiese.
Solitamente fin dal medio evo, nello stabilire i patti di una condotta sia feneratizia che medica (la medicina e il prestito erano le due sole professioni permesse agli ebrei), veniva espressamente chiesta nell’atto stesso, e concessa, l’autorizzazione ad aprire una sinagoga e ad acquistare un terreno per le sepolture.
In ogni città o paese delle Marche in cui visse una comunità ebraica, e sono oltre sessanta, è ancora presente nella memoria popolare un “campo degli ebrei”, e spesso l’indicazione, corredata da date, emerge dagli atti notarili, ma poi più difficile diventa l’identificazione dei luoghi. Ciò è dovuto al fatto che nelle terre dello Stato della Chiesa, con decreto dell’8 ottobre 1625, papa Urbano VIII aveva proibito agli ebrei di apporre lapidi sulle sepoltute, anche con il nome soltanto, a meno che non fossero tombe di eminenti rabbini o di personaggi particolarmente importanti che dovevano però essere separati dagli altri.. Il decreto prevedeva anche la distruzione delle iscrizioni già esistenti affinché con il tempo si perdesse perfino la memoria dei luoghi. Questa feroce interdizione venne ribadita nel 1775 da Pio VI e a Roma restò in funzione sino al 1846.
Quando nel 1569 gli ebrei furono cacciati da tutte le città delle Marche a sud di Ancona, i terreni in cui erano i cimiteri dovettero essere venduti come tutte le altre proprietà. Poiché la religione vieta la riesumazione, i capi delle varie comunità ebraiche tentarono disperatamente di garantire il rispetto delle sepolture precisando nei numerosi atti di vendita che il terreno poteva essere usato per il solo taglio dell’erba. Con il passare degli anni però i vecchi patti furono disattesi, le terre vennero lavorate e le città, allargandosi oltre le antiche mura, sorsero un po’ ovunque sui vecchi cimiteri dimenticati. È andato così disperso un patrimonio storico oltre che umano, un libro dalle pagine di pietra che avrebbo raccontato una lunga storia.
Nelle Marche pertanto restano oggi soltanto là ove furono istituiti i ghetti, ove cioè la presenza ebraica si protrasse anche dopo l’apertura dei ghetti stessi e si tornò ad apporre le lapidi come nei tempi più lontani.
A Pesaro il cimitero antico era appena fuori Porta Fano e nella zona furono trovati nel 1895 frammenti di vecchie lapidi, la più antica risale al 1415. Successivamente, forse proprio nella seconda metà del ‘500 in concomitanza con l’improvviso aumento della popolazione ebraica, venne aperto un nuovo cimitero sul colle San Bartolo ove è tutt’ora. In una stampa del Mortier, datata 1663 ma di gran lunga precedente in quanto ripresa dal Blaeu, il vecchio cimitero era indicato già come “campo vecchio dei giudei” e vecchio doveva pur esserlo dal momento che una prima segnalazione sulla presenza di una comunità ebraica risale al 1214.
Nella città di Ancona dai verbali del Consiglio comunale del 7 novembre 1428 si apprende che in località Cardeto viene concesso a Sabbatuccio Venturello un terreno fuori porta San Pietro da destinare a cimitero. Appena quarant’anni dopo viene concesso altro terreno come ampliamento del primo ed ancora nel 1711 la comunità ebraica acquista dal convento di San Francesco alle Scale la “Possessione del Giardino”, situata nella stessa località.
Non si ha notizia di dove fosse un precedente cimitero, ma doveva pur esserci dal momento che la comunità dorica era certamente presente già prima del Mille.
Nell’aprile del 1863, allorché il Genio occupa un terreno annesso al cimitero del Cardeto, il municipio mette a disposizione della comunità ebraica un’area del nuovo cimitero delle Tavernelle.
Un primo riferimento al cimitero ebraico di Senigallia emerge da un atto di acquisto, a tale scopo, di un terreno in “campo vecchio del Portone” nel 1512. Era infatti presso Santa Maria del Portone e nel 1567 verrà chiesta al Duca di Urbino l’autorizzazione di un nuovo ampliamento, nell’atto del 29 dicembre di quell’anno si precisa che il nuovo appezzamento è delmitato “dalla strada, da un fosso e dal fiume Nevola”.
Allorché nel 1869 il Comune di Senigallia destina la selva dell’ex convento delle Grazie ad uso cimiteriale, viene riservato un settore separato per la costruzione di un nuovo cimitero ebraico. La prima sepoltura ebraica risale al 1878, anche se il vecchio cimitero del Portone continuerà ad essere usato dai più ortodossi fino al 1893. Qui è rimasto a ricordo solo qualche cippo in un angolo del parco dedicato ad Anna Frank, mentre sul resto dell’area si è estesa la città. Durante i lavori di sterro sono stati recuperati alcuni cippi del Sei e Settecento e numerose lapidi dell’800, oggi è possibile vederle disposte con cura nel vialetto che conduce al cimitero ebraico, sul lato destro della chiesa delle Grazie, appena due chilometri fuori città.
In Urbino l’antica capitale del Ducato, una prima presenza ebraica documentata risale alla metà del ‘300. All’epoca figurano numerosi atti di acquisto di terreni da parte della famiglia di maestro Daniele, nella zona denominata ancor oggi “monte degli Ebrei” nella frazione di Gadana ove da sempre risulta esservi stato il luogo di sepoltura.. L’antico cimitero era situato poco lontano da quello attuale, ma trovandosi in una zona franosa le tombe restavano spesso coinvolte negli smottamenti e pertanto dovette essere spostato.. Quello attuale risale al 1874, è in collina volto verso Sud-Est e le antiche lapidi recuperate da quello più antico, sono state allineate lungo il muro a levante all’interno del muro di cinta..
(Adagiato sulle pendici del colle San Bartolo, completamente recinto da mura e chiuso da una grande cancellata, il cimitero ebraico di Pesaro risale quasi certamente alla metà del Cinquecento. Ovunque infatti si è riscontrato che l’epoca della creazione di nuovi cimiteri corrisponde al momento di massimo afflusso. Di lì a pochi anni, con la devoluzione del Ducato alla Santa Sede, anche a Pesaro sarà proibito apporre lapidi sulle tombe. Tuttavia, tra la fitta vegetazione che ha ormai invaso le gradinate create per superare il dislivello del colle, spuntano ovunque cippi e lapidi dagli stili più svariati. Più ci si spinge in alto più le iscrizioni, coperte di licheni, si fanno più interessanti ed antiche.
Precedentemente le sepolture venivano effettuate in “campo vecchio dei giudei”, fuori Porta Fano e una lapide rinvenuta duranti lavori di sterro, è datata 1415.)
(Il “campo degli ebrei” sulla sommità del monte Cardeto, o “delle Cavorchie”, è uno dei luoghi più suggestivi di Ancona. È a picco sul mare, tanto che, col passare dei secoli, molti cippi sono precipitati dall’alto dirupo costantemente sottoposto all’erosione marina. L’ampio prato è dolcemente inclinato verso Gerusalemme, così come vuole la tradizione e al primo sorgere del sole i cippi ancora in piedi, tutti con le scritte volte ad Est, si stagliano candidi sul verde del prato.
È difficile dire se il primo documento del 1428 indica realmente il primo utilizzo del terreno per questo scopo, o se ne esistesse uno più antico dato che la comunità ebraica dorica ha sicuramente origini ben più remote.
Quando nel 1863 viene ceduto al Genio militare un terreno annesso al cimitero del Cardeto, il Municipio mette a disposizione della comunità un’area nel nuovo cimitero di Tavernelle, in uso ancor oggi.)
(Una lunga fila di cippi e di lapidi, di stile ed epoche diversissime tra loro: questo è il primo impatto con il cimitero ebraico di Senigallia. In realtà questo museo lapidario disposto su due file nell’ingresso del cimitero delle Grazie è una raccolta di antiche lapidi provenienti da quello cinquecentesco di Santa Maria del Portone.
Nell’antico campo infatti si è estesa, come altrove, la città, ma un tratto è stato lasciato a parco, dedicato ad Anna Frank e in un angolo alcune lapidi ricordano l’antico cimitero. Dal 1878 un settore del cimitero comunale realizzato nella selva dell’ex convento delle Grazie, ospita il cimitero ebraico, con ingresso separato, proprio sulla destra della chiesa del convento.)
(Cinto da pini e attraversato da un doppio filare di cipressi che si stagliano contro il cielo, il cimitero ebraico di Urbino è un piccolo fazzoletto verde. Adagiato sul fianco del “monte degli Ebrei” guarda verso Est, verso Gerusalemme. Risale al 1874 poichè quello più antico, già nei documenti della metà del ‘300, era in un terreno franoso, poco lontano, e le tombe erano spesso danneggiate dagli smottamenti.
Le antiche lapidi sono ora allineate lungo il lato a levante.
Vi sono semplici steli funerarie, qualche cippo, un sarcofago della metà dell’800. Forse le più suggestive, sono quelle del Cav. Placido Coen e sua moglie Allegra: spire di marmo bianco che tanto ricordano le volute del Sefer Torà sormontate da due grandi foglie d’acanto che cingono bacche di papavero, simbolo del sonno eterno. Risalgono ai primi del Novecento.)