Un manifestante anti Netanyahu italiano spiega cosa è cambiato
Camillo Bosco – La ragione – 9 novembre 2024
Esiste l’Israele che vediamo dall’Italia, costruito col filtro dei media, e quello che viene vissuto giorno dopo giorno dai suoi abitanti. Uno di questi è Jonathan Sierra, nato a Torino ma residente da 45 anni a Gerusalemme. È un ìtalki, un italo-israeliano, particolarmente attivo ne La Protesta ovvero l’opposizione civile che organizza ampie manifestazioni contro il governo di Benjamin Netanyahu. «Nel 1979 feci la scelta identitaria – ebraica e sionista – di salire su una nave per trasferirmi a Gerusalemme, città piccola, intensa e lacerata, ma al centro del mondo e di culture diverse, che presto divenne per me sinonimo di casa. Qui ho amato e ho visto nascere i miei figli, vivendo anche esperienze molto dolorose e seppellendo più di una persona» ci racconta. Se, secondo Jonathan, a Tel Aviv il fenomeno de La Protesta è guidato e vissuto da una sinistra laica ed elitista, a Gerusalemme è animato invece da un popolo multiforme, sia laico che religioso: «Talvolta questo porta al paradosso di sentire, sul palco che ho aiutato ad allestire, dei concetti con cui magari non sono d’accordo. Un compromesso che accetto volentieri per vedere un’opposizione di piazza ben più vivace di quella nella Knesset (il Parlamento israeliano, ndr.)».
Il 7 ottobre 2023 si è inserito in quella dinamica come un vero e proprio trauma: «Quanto quel pogrom e l’attuale guerra stiano davvero cambiando Israele lo capiremo solo fra qualche anno. I cittadini più giovani di me, nati qui, pensavano che massacri del genere fossero roba passata» ci confida Jonathan. Una triste illusione che ha dovuto infrangere con un brusco memento: «Ragazzi, sveglia! Benvenuti nella storia del popolo d’Israele! Cosa vi credevate?». La crudeltà di Hamas ha dunque generato un effetto opposto a quello che forse si aspettavano da Gaza. «Il nostro Paese è piccolo. Tutti hanno almeno un caduto o una vittima in famiglia. Senti il nome di una vittima al notiziario e presto scopri che è il nipote o il collega o l’amico di qualcuno che conosci. Da quel momento anche tu ti ricolleghi a lui e sei ancora più empatico con quella sofferenza».
In questo senso di unità nazionale il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant appare ancora più scandaloso. «Gallant spingeva per un accordo per liberare gli ostaggi anche scarcerando terroristi e sospendendo le operazioni a Gaza. Tutto per lenire la crisi di fiducia tra il popolo e il governo: molti percepiscono i rapiti come persone abbandonate nelle mani del nemico ed è un intollerabile tradimento del patto fra chi difende Israele e chi ne coordina la difesa dai palazzi del potere. Soprattutto però si oppone strenuamente all’esenzione dall’arruolamento degli ultraortodossi, oggi automaticamente militesenti».
Nonostante questo e la dipendenza di Netanyahu dalla destra estrema, Jonathan non definisce quest’ultimo un dittatore. Piuttosto un megalomane senza scrupoli che si è annidato con spregiudicatezza nel cuore della democrazia israeliana, approfittando anche di una opposizione anemica che non riesce a costruire un’alternativa al cosiddetto ‘bibismo’. «Entrambi gli schieramenti non hanno mai voluto risolvere davvero i problemi che ci trasciniamo da anni: la questione palestinese, Gaza, Hezbollah. Da una parte Bibi pensava semplicemente di andare avanti all’infinito con la repressione, dall’altra la sinistra woke israeliana ha sottovalutato il radicamento islamista tra i palestinesi».
La speranza di Jonathan è che proprio la società civile, che dopo il 7 ottobre ha saputo auto-organizzarsi sopperendo alle mancanze dello Stato verso gli sfollati o nel supporto ai soldati richiamati d’urgenza, possa trovarsi un’alternativa al ‘bibismo’. «Sono emerse capacità e solidarietà straordinarie, di una società che si è dimostrata molto più matura della sua guida politica. È da qui perciò che penso emergerà in pochi anni la nuova leadership del Paese» conclude.