“In quanto a voi, l’Eterno vi ha presi, vi ha tratti fuori “mikur habarzel/dalla fornace di ferro, dall’Egitto”, perché foste un popolo che gli appartenesse in proprio, come oggi difatti siete” (Deuteronomio 4:20). Il secondo libro della Torà, che inizieremo a leggere questo sabato, ci racconta della liberazione dei figli d’Israele dalla schiavitù in Egitto. Mosè, viene incaricato da Dio di affrontare il Faraone e chiedere che rilasci libero il suo popolo.
Rabbì Moshe Alshich (1508-1593), nel suo commento alla Torà, solleva la semplice questione del perché i figli d’Israele meritassero di sopportare il dolore e la sofferenza di una schiavitù. Generalmente si presume che Dio non porti mai afflizione a meno che la persona non abbia fatto qualcosa per meritarsela. Cosa hanno fatto dunque i figli d’Israele per meritare la terribile sofferenza e il degrado della schiavitù?
Rabbì Moshe Alshich ipotizza che la schiavitù egiziana in realtà non sia da considerare come l’effetto di una causa, ma rappresenti un’eccezione; la sofferenza in Egitto serviva a uno scopo particolare.
Questa idea nasce dal modo in cui Mosè, ripetendo la storia alla nuova generazione che sta per entrare nella Terra promessa, si riferisce all’esperienza dell’esilio egiziano come al passaggio in “Kur habarzel/una fornace di ferro”.
“Kur”, sarebbe lo strumento che serve per raffinare i metalli e se Mosè definì l’Egitto come una “fornace di ferro”, significava che i figli d’Israele necessitavano di quella permanenza per essere purificati, proprio come un metallo viene posto in una fornace per essere ripulito da tutte le sue scorie.
E perché nei figli d’Israele erano presenti scorie di impurità? Da cosa derivavano e perché dovevano essere eliminate?
Queste impurità si erano formate nell’umanità fin dal momento in cui Adamo e Eva nel Giardino dell’Eden disobbedirono al Signore e mangiarono il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Esattamente nel momento in cui il serpente persuase Eva a mangiare il frutto proibito, le iniettò il seme dell’impurità che poi fu trasmessa a tutta l’umanità.
Pertanto, i figli d’Israele che sono destinati a vedere la rivelazione di Dio e ricevere la Torà ai piedi del Monte Sinai, dovevano prima essere purificati da questa impurità.
Per questo subirono la schiavitù egiziana, perché attraverso questa sofferenza furono completamente purificati dal “veleno del serpente”. In questo stato di riacquisita purità, avrebbero potuto stare al cospetto del Creatore e ascoltarne la voce.
La fornace, tutto sommato, è quello strumento che serve per raffinare tutti i metalli e il fatto che Mosè nominò il ferro/BaRZeL, era per alludere con le lettere di questa parola, alle quattro matriarche che hanno fatto nascere le dodici tribù: Bilà, Rachele, Zilpà e Leà.
Quando Dio apparve a Mosè nel roveto ardente e gli comandò di tornare in Egitto e condurre i figli d’Israele alla libertà, Mosè rispose dubbioso. Riteneva che i figli d’Israele non si sarebbero fidati di lui e non avrebbero creduto che lui avesse ricevuto una profezia sulla loro imminente redenzione. Allora Dio diede a Mose un “ot/segno” con il quale avrebbe potuto dimostrare che era davvero inviato dal Signore.
Il prodigio era quello di gettare il bastone che in terra si sarebbe trasformato in un serpente. Poi, afferrando il serpente per la coda, si sarebbe trasformato di nuovo in un bastone.
Questo segno, rappresenta simbolicamente il serpente nel Giardino dell’Eden, l’origine di quell’impurità trasmessa all’umanità. Afferrare il serpente per la coda, e quindi dominarlo, simboleggiava che nei figli d’Israele l’impurità era stata eliminata e che ora, dopo 130 anni di schiavitù, erano purificati.
L’obiettivo del periodo di schiavitù è finalmente raggiunto, il “serpente” è stato sconfitto ed è quindi giunto per i figli d’Israele il momento di lasciare l’Egitto e iniziare a realizzare il proprio destino, Shabbat Shalom!