Se le ultime parashot di Bereshit, ci lasciano intravedere il buio della Diaspora e della schiavitù in Egitto, le prime parashot di Shemot, fanno intravedere la luce della liberazione da essa.
Infatti, con la parashà che leggeremo questo shabbat, Shemot, inizia il secondo libro della Torà, che prende il nome proprio dalla parola con cui inizia la parashà stessa: Shemot.
Nella parashà si legge tutto il dolore morale e la sofferenza dei figli di Israele, che da persone degne del massimo onore e rispetto del Faraone, soprattutto nei confronti di Giuseppe e della sua famiglia, divengono schiavi del nuovo Faraone che, temendo una sommossa generale, dove anche i figli di Israele avrebbero partecipato, preferisce assoggettarli alla schiavitù.
La schiavitù che dura, secondo un computo della Torà stessa quattrocento trenta anni, non vuole togliere agli ebrei il diritto alla vita materiale, ma vuole annientarli moralmente e psicologicamente, togliendo loro il diritto ad esternare ogni manifestazione di individualità tradizionale.
Il Faraone, come ogni nemico storico del nostro popolo, cerca di coinvolgere i suoi sudditi ad odiare gli ebrei, rendendoli complici a partecipare al suo piano di annientamento del“popolo dei figli di Israele”.
Infatti è così che egli definisce coloro che erano scesi in Egitto con il numero di settanta persone ed è lui che per primo nella storia da’ loro una denominazione di popolo.
L’inizio della schiavitù più dura per gli ebrei, coincide però con la speranza che un momento migliore possa giungere e possa portare loro la salvezza e la libertà; infatti se, come dice un proverbio ebraico: “col ha atchalot kashot – tutti gli inizi sono difficili”, questo narratoci dalla Torà è proprio ciò che i Maestri hanno definito hatchaltà di gheullà – l’inizio della redenzione tanto più è difficile.
I Maestri ci fanno notare che le due parole su cui gioca il destino e la storia del nostro popolo sono“golà – diaspora” e “gheulà – redenzione”; in ebraico i due termini sono scritti nello stesso modo all’infuori che nel secondo termine “gheulà” vi è una alef in più.
Questa diversità viene spiegata dicendo che alla diaspora, per divenire redenzione, basta una letterina piccola piccola, ma con un gran valore.
Essa infatti è l’iniziale di echad – unico; ed il suo valore numerico, oltre ad essere uno, è anche ventisei (le due jod separate da una vav danno come risultato ventisei).
Tutto ciò, spiegano i Maestri serve a capire che se c’è discordanza (come quella che c’era fra i fratelli di Josef), c’è la golà; mentre se regna una condizione di fratellanza ed unità c’è la gheulà.
Gli ebrei furono tutti d’accordo, nonostante la sofferenza, che il Signore D-o unico si sarebbe ricordato di loro e li avrebbe fatti uscire dall’Egitto e liberati dalla schiavitù.
Shabbat shalom