Pochi hanno il privilegio di ascoltare la voce di H. Chi raggiunge questo livello deve avere una serie di requisiti, senza i quali la profezia non è possibile. Tali requisiti vengono elencati nel trattato di Shabbat (30b): “per insegnarti che la Presenza divina non si posa nella tristezza, né nell’abbattimento, non nello scherzo, né nella leggerezza, non nei discorsi futili, né nelle cose vane, ma nella gioia della mitzwah”. Qual è la mitzwah di cui si parla? E’ lo scopo che il profeta persegue.
Ogni profeta è un inviato di H. verso il popolo ebraico. E’ tenuto a concentrarsi sullo scopo della sua missione, mettendo da parte qualsiasi impedimento che potrebbe distoglierlo dal raggiungimento dello scopo. Un esempio rilevante di questi aspetti possiamo trovarlo nel primo libro dei Re (19,11-12), relativamente al profeta Eliahu: “D. gli disse: esci, fermati sul monte davanti al Signore; ecco il Signore passa e davanti a Lui soffia un vento grande e forte che sconquassa i monti e spezza le rupi, ma non nel vento è il Signore; dopo il vento verrà un terremoto, ma non nel terremoto è il Signore. Dopo il terremoto un fuoco, ma non nel fuoco è il Signore, e dopo il fuoco, una voce sottile, quasi silenzio. Il profeta può affrontare turbini, terremoti e fiamme, prima di giungere al silenzio dal quale emerge la voce divina. La ghemarà riporta come prova un verso tratto dal libro dei Re (2Re 3,15): “Ora conducetemi qua un suonatore d’arpa.
E mentre il sonatore toccava le corde, la mano del Signore si posò su di lui”. Gli strumenti musicali risvegliano la gioia, così come è stato recepito nella nostra tradizione (vedi ad esempio i divieti di ascoltare musica, soprattutto dal vivo, durante il periodo dell’omer, e nelle settimane che intercorrono fra il 17 di Tammuz e il 9 di Av). Uno dei compiti dei Leviim nel Bet ha-miqdash era quello di cantare, accompagnati da strumenti musicali. La Torah non parla esplicitamente di questa loro prerogativa, ma la ghemarà nel trattato di ‘Arakhin (11a) riferisce questo aspetto ad un verso nella parashah di Nasò (Bemidbar 7,9): “ai figli di Kehat non diede nulla, poiché a loro toccava il servizio del Santuario; essi dovevano portare a spalla (bakatef issau)”. Il trasporto degli elementi principali del mishkan, l’arca, il tavolo, l’altare, avveniva a spalla, e non con l’ausilio di carri. I chakhamim ritengono però che il verbo utilizzato (issau) si riferisca al canto, basandosi su un verso dei Salmi (81,3) Intonate una musica (seù zimrah) e sonate il tamburo” ed uno di Isaia (24,14) “Essi (gli scampati al disastro) alzano la voce (isù qolam) e cantano”.
Oltre all’utilizzo del medesimo verbo, non è chiaro però quale sia il suo legame fra i versi. La ghemarà in Sotah (35a) puntualizza che non era l’Aron ad essere trasportato da coloro che lo portavano, ma viceversa, come avvenne quando il popolo ebraico oltrepassò il Giordano. Siamo convinti di portare l’Aron, ma è in realtà è lui a portare noi. Allo stesso modo possiamo pensare che siano le spalle a sostenere la testa, ma se non fosse per la testa non potremmo mantenere la posizione eretta. Quando cantiamo ci troviamo di fronte alla stessa illusione. Certamente siamo noi a cantare, accompagnati dagli strumenti musicali, ma la musica ci sostiene, guida il corpo nel ballo, rendendo l’uomo molto più recettivo. La gioia eleva lo spirito, permette di cogliere l’obiettivo. In questo modo vengono scansati tutti gli impedimenti descritti nella ghemarà, raggiungendo gli opposti di quanto descritto, il timore, la serietà, la concentrazione e l’occupazione in questioni degne di essere affrontate da un punto di vista valoriale. Nei lunghi anni in cui Ya’aqov credeva che Yosef fosse morto, non ebbe il privilegio di profetizzare. Quando gli giunse la notizia che Yosef era in vita, la Presenza divina ritornò immediatamente su di lui e tutto gli tornò chiaro. Tutto questo è possibile quando si riesce a cogliere la gioia della mitzwah.