Abbiamo selezionato le riflessioni più rappresentative dei desideri e i tormenti di chi scrive, ma anche di chi legge, dalla raccolta di saggi edita da Sur.
Eleonora Marangoni
Basterebbe anche solo il titolo, Troppe cose a cui pensare, per appassionarsi alla raccolta di testi di Saul Bellow appena pubblicati da Sur. Uscita negli Usa con il titolo There Is Simply Too Much to Think Aboute curata e tradotta in italiano da Luca Briasco per la collana Big Sur, questa antologia di non fiction è una miniera pressoché inesauribile di spunti sullo scrivere e sull’esistere che fonde insieme saggi, recensioni, ritratti di colleghi (da Hemingway a Philip Roth passando per Valéry, Joyce, Proust e Fitzgerald), interventi pubblici e riflessioni intime di Bellow sull’essere americano, ebreo, professore, scrittore (non necessariamente in quest’ordine, come lui stesso ci tiene a sottolineare a più riprese: «Mi sono sempre considerato un cittadino del Midwest, e non un ebreo. Vengo spesso descritto come uno scrittore ebreo; ma allora, e allo stesso titolo, si potrebbe parlare di astronomi saponai, di violinisti eschimesi o di esperti di Gainsborough zulù. Mi pare evidente che ci sia qualcosa di strano, in tutto ciò. Sono ebreo, e ho scritto qualche libro»).
I testi coprono un arco temporale che dal 1951 arriva fino al 2000: quasi cinquant’anni quindi, che nella vita di un uomo sono tanti e in quella di un autore non rappresentano una vita sola, ma almeno due o tre. Cinquant’anni in cui “le cose a cui pensare” si succedono e si moltiplicano, cambiano e in fondo restano sempre le stesse, cariche di ombre e intuizioni, di cambi di rotta e di domande più o meno insolvibili. Cinquant’anni che rappresentano tutto il tempo che serve a un uomo per capire di essere uno scrittore, diventarlo e cercare giorno dopo giorno il modo, la voglia e il coraggio di continuare ad esserlo, malgrado tutto e fino in fondo. A parlare qui è la voce inconfondibile di un maestro che scende dal podio (o che forse non ha mai voluto salirci, nonostante il Pulitzer e il Nobel) e al contempo quella di un uomo con tutte le sue domande e fragilità. Stare ad ascoltarla ci permette di esaudire uno dei desideri più profondi dei lettori, lo stesso che faceva dire a Holden Caulfield che gli unici libri che lo interessavano erano quelli che ti danno voglia di chiamare al telefono quelli che li hanno scritti: Troppe cose a cui pensare è una lunga, avvincente consolante e genuina chiaccherata con Saul Bellow, che dura 355 pagine e va avanti per mezzo secolo.
Forse un buon modo di parlare di questo libro senza tradirne gli intenti può essere rimanere in ascolto – come si fa davanti alle grandi storie – sospendendo l’incredulità e, di tutta questa miriade di “cose a cui pensare”, sceglierne qualcuna rappresentativa di desideri o tormenti che da sempre riguardano chi scrive, legge o semplicemente chi esiste. Guardarle da vicino, insieme a lui, girarsele tra le mani e nella testa per tutto il tempo che serve. E poi – con un po’ di fortuna – non pensarci più.
1) Scrittori si nasce
Prima di scrivere un romanzo, uno deve pensarsi come un romanziere. Se non si considera tale, non sarà mai in grado di diventarlo. Deve confrontarsi con il mondo da una posizione particolare. Vive dentro una sorta di velo leggero, che fluttua sopra la sua mente quando tutto va bene, e vi sprofonda dentro quando la situazione precipita. È difficile dire da dove venga, quel velo, o cosa sia di preciso, ma è il segno della sua autonomia.
Dopo essersi autoconsacrato, il romanziere si lascia trascinare dalla forza della propria immaginazione: mette sulla pagina ciò che essa gli detta, e dà per scontato, non senza una certa arroganza, che le sue opere debbano essere e saranno lette. L’origine di tale arroganza, se così la si può chiamare, è anch’essa piuttosto misteriosa. In effetti, da un punto di vista razionale o sensato, l’intera faccenda è sconcertante.
Scrivere, secondo Bellow, è «coltivare una stramba fedeltà a cose che abbiamo scoperto da ragazzi». È inchiodarsi a una sedia mentre il resto del mondo si muove, vive e produce, e, mentre ci sentiamo terribilmente patetici e anche un po’ impostori, decidere che il nostro compito nel mondo è quello, ed è da lì che bisogna partire. Non esistono scorciatoie, e nemmeno romantiche predestinazioni: scrittori, si nasce, sì, ma il cammino a volte oltre che lungo può essere grottesco e tutto sommato piuttosto ingrato. Quindi, in definitiva, scrittori si diventa, e tutto può e anzi deveiniziare da noi.
2) Scrittori si diventa in determinati posti (e ambienti)
Oggi è opinione diffusa che New York sia la capitale letteraria degli Stati Uniti. Ma è davvero così? Che cosa può aspettarsi di trovare a New York uno scrittore alle prime armi? Quando arriva da Paducah o Topeka ha la sensazione di essere finalmente sfuggito alla desolazione della periferia, e di essere arrivato al centro. Ma in cosa consiste questo centro? In una fucina di nuove idee e impulsi? C’è davvero una qualunque ragione di pensarlo? (…) New York è il centro dell’editoria, il centro d’affari della cultura americana. È qui che la cultura viene allestita, confezionata e distribuita.
Ma dietro questa parvenza non c’è alcuna sostanza: c’è solo l’idea di una vita culturale. Ci sono manipolazioni, giri loschi, lotte di potere; ci sono guerre intestine, reputazioni gonfiate e poi distrutte. Spacconate, veemenza, vanità, mode, simulacri, condizionamenti mentali: ecco che cosa è in grado di offrire, il centro.
Bellow è diventato scrittore in un sobborgo di Chigago, scrivendo cose più o meno dimenticabili seduto a un tavolino da bridge in casa di sua suocera («Mentre tutte le persone razionali, serie e diligenti erano al lavoro o in cerca di un impiego (…). Sono lieto di affermare che non ricordo cosa scrivessi, a Ravenswood. Dev’essere stato qualcosa di orrendo. Il prodotto finale, comunque, non ha alcuna importanza. La cosa davvero rilevante è che la società americana e S. Bellow finalmente si fronteggiavano»). Nonostante ciò per diverso tempo, ammette, ha creduto che gli scrittori dovessero rispondere a determinati requisiti di provenienza, stile di vita e aspirazioni. Soltanto negli anni quel grande “esperimento” che è l’America è riuscito a fargli capire che i ruoli si intrecciano e si confondono di continuo, e che niente è dato o certo mai né troppo a lungo, a parte i cliché a cui sottrarsi e l’incapacità delle categorie di contenere la verità delle cose. Vivere a NY non farà di te uno scrittore, neppure il tuo gilet in tartan e nemmeno i tuoi amici intellettuali o i festival e le presentazioni e i saloni del libro ti aiuteranno. Che tu ci creda o meno, solo il tavolino da bridge di tua suocera può fare qualcosa per te.
3) Una volta diventati scrittori è fatta
Oggi non è troppo difficile diventare scrittori, ma forse è difficile come non mai esserlo. È più facile fare quel tipo di vita che essere quella cosa. Non basta la foto di un pezzo di pane, per nutrire i nostri corpi. (…) Il pubblico (…) vuole poeti, o persone che ne abbiano l’aspetto. Una grande civiltà ha sempre avuto e deve continuare ad avere i suoi poeti. E la nostra è una grande civiltà. Non è necessario leggerle, le poesie. Gli uomini influenti lasciano ad altri il compito di farlo al posto loro. Ma è importante che tutte le posizioni vengano occupate.
Di tanto in tanto accade che gli scrittori di talento riescano a farsi strada a New York, ma in questo caso hanno la tendenza a ricompensarsi in modo fin troppo generoso per le difficoltà che hanno dovuto affrontare prima di raggiungere il successo. Spesso si trasformano in Grandi Figure Letterarie e per il resto della vita fanno ben poco, a parte rilasciare solenni dichiarazioni a prestigiose riviste, fare i consulenti per la Casa Bianca o andare in aereo alle Bahamas per partecipare a convegni internazionali sulla crisi dell’arte. Spesso lo scrittore viene assorbito dalla figura letteraria. In questi casi a contare, più che la ricerca artistica, è stata la lotta per affermarsi in società.
«Attento a quello che desideri perché rischi di ottenerlo», recita un vecchio detto. Uno dei rischi ai quali chi scrive va incontro, ci dice Bellow, è proprio, dopo tanto lottare, “farcela”, e ritrovarsi invorticati in dinamiche, polemiche e giochi di potere che con la poesia e la scrittura (e le famose promesse cui siamo stati fedeli quando abbiamo iniziato e cui dovremmo restare fedeli ogni volta che ci sediamo alla scrivania, della suocera o la nostra, visto che nel frattempo ce ne saremmo dovuti permettere una) hanno poco a che vedere. Il mondo ha bisogno di quelle che Bellow chiama “Grandi Figure Letterarie”, di poeti e di artisti anche solo di facciata, e il pericolo è di diventare controfigure di noi stessi, e di allontanarci irrimediabilmente da quel centro delle cose – qualunque esso sia – che chi scrive cerca di afferrare.
4) Un bravo scrittore scrive solo di quello che si conosce
Se una persona scrive un libro, ci sentiamo in diritto di verificarne i requisiti e l’esperienza, come se dovessimo assumerla nella nostra ditta. (…) Sembra che ai nostri occhi l’esperienza non possa mai avere nulla di negativo; più se ne accumula, meglio è. (…) L’immaginazione può fare con l’esperienza o con la mancanza di essa esattamente ciò che vuole. Rifiutandosi di affrontare qualunque argomento con il quale non abbia familiarità, lo scrittore americano confessa l’impotenza della propria immaginazione, e accetta di essere relegato in un ruolo secondario.
Bellow diffida dell’ossessione “contemporanea” (ai suoi tempi, ma oggi più attuale che mai) per i fatti, rifugge gli specialisti e i “demoni della conoscenza di prima mano”, e invita chi scrive a fare altrettanto. L’immaginazione, insieme alla lingua, è tutto quello che uno scrittore ha di davvero prezioso e insostituibile a sua disposizione. Cercare di sottometterla alla realtà e all’esperienza, adattarla alle presunte esigenze “oggettive” del mondo culturale e pretendere di ascoltarla immersi nel frastuono generale della vita forse non equivale a tradirla, ma di certo è il primo passo per fraintenderla e quindi perderla per strada.
5) Un bravo lettore legge “in profondità”
Il fardello dell’esperienza non è un pericolo soltanto per chi scrive, ma anche per chi legge. «La lettura in profondità», scrive Bellow nel (sempre lontano e attualissimo) 1959, «si è spinta oltre il limite, ed è diventata pericolosa per la letteratura stessa». Non è necessario né tantomeno giusto attribuire un significato a tutto quello che si legge, interpretare romanzi come “Sacre scritture” intrise di significati nascosti e simbologie più o meno velate. A rimetterci sarà non soltanto la lettura stessa ma, ancora una volta, la vivacità e la ricchezza della nostra stessa immaginazione:
La letteratura sta diventando importante per l’uso che può esserne fatto. Si sta trasformando in una fonte di orientamenti, pose, stili di vita, opinioni. E le opinioni sono costruite mescolando frammenti di marxismo, freudismo, esistenzialismo, mitologia, surrealismo, assurdismo und so weiter: i detriti del modernismo, con l’aggiunta di qualche residuo apocalittico. (…) Siete marxisti? Allora il Pequod, in Moby-Dick di Herman Melville, può essere una fabbrica, con Achab nei panni del direttore e la ciurma in quelli della classe operaia. Il vostro è un punto di vista religioso? Il Pequod è salpato la mattina di Natale, come una cattedrale sull’acqua, diretta a sud. Siete seguaci di Freud o di Jung? In tal caso, avrete a disposizione una quantità infinita di interpretazioni. (…) È difficile che una mente allenata si lasci sfuggire uno qualunque di questi richiami, e chiunque partecipi al gioco è destinato a vincere. (…)
Dobbiamo attribuire un significato a tutto ciò che viene sfiorato dalla penna dello scrittore? La letteratura moderna è l’equivalente delle Sacre Scritture? La critica si è trasformata nel Talmud, in teologia applicata? Lettori profondi di tutto il mondo, siate prudenti! (…) Forse i lettori più profondi sono proprio i meno sicuri di sé. Un sospetto ancor più sgradevole è che preferiscano il significato alla forza dei sentimenti.
6) Un bravo scrittore è sempre connesso al mondo
Non so se l’arte possa davvero esistere senza un certo grado di tranquillità o di equilibrio spirituale; senza una certa dose di quiete non può esserci filosofia, religione, pittura o poesia. E poiché una delle specialità della vita moderna consiste nell’abolire proprio la quiete, rischiamo di perdere le nostre arti insieme alla tranquillità dell’anima che l’arte richiede. (…) Se dovessi nominare una forza che oggi, in America, osteggia la disciplina simbolica della poesia (…) citerei il Grande Rumore. È il rumore, il vero nemico. E non mi riferisco solamente al rumore della tecnologia, del denaro e della pubblicità, al rumore dei media e della maleducazione diffusa, ma alla terribile eccitazione e distrazione generata dalla crisi della modernità. (…) La vera grande minaccia è il rumore della vita. A crearlo oggi contribuisce tutta una serie di fattori, reali o meno: ideologie, giustificazioni razionali, errori, illusioni, pseudo-situazioni che sembrano autentiche, pseudo-interrogativi che vanno presi comunque in considerazione, opinioni, analisi ospitate sugli organi di stampa o alla radio, conoscenze settoriali, informazioni riservate, faziosità diffuse, retorica ufficiale, notizie d’ogni sorta. Per farla breve, le mille voci della sfera pubblica, il frastuono della politica la turbolenza e l’agitazione che hanno invaso le nostre vite nel 1914 e che hanno ormai raggiunto un volume intollerabile.
Queste righe sono state scritte nel 1974. Inutile domandarsi cosa ci direbbe il vecchio Saul se davvero potessimo telefonargli oggi. Probabilmente le stesse cose. I pericoli e le minacce che oggi impediscono a un uomo di lavorare e vivere in modo “giusto” (non nel senso di corretto, ma onesto e fedele a se stesso) in fondo sono gli stessi di un tempo; al massimo a loro se ne sono aggiunti degli altri, che portano altri nomi e fanno un rumore diverso, che chi viene dal passato fatica a riconoscere. Ma se il Grande Rumore oggi è più forte e deleterio che mai, le soluzioni per sfuggirgli restano, a ben vedere, sempre le stesse: fissare un ordine di importanza delle cose della vita e condurre in qualche modo un’esistenza segreta, al riparo da tutto e da tutti, per preservare un “valore umano originale” che esista e perduri aldilà delle pose e delle polemiche, dell’attualità e delle mode, dagli stili e dalle astrazioni.
7) Un bravo scrittore vive isolato dal mondo
Sto parlando di persone colte e super educate, convinte però che una valutazione corretta del mondo porti naturalmente alla disillusione, che essere disillusi sia più importante di qualunque altra cosa e che sia un atteggiamento illuminato denunciare i mali del mondo, mostrarsi disincantati, odiare e sperimentare fino in fondo il disgusto. (…) Se uno scrittore è saggio, eviterà dunque certi libri, giornali, riviste e circoli sociali. Ma forse la saggezza non potrà essergli d’aiuto. Tutti parlano. La frittata è ormai fatta. Vai a una festa, e uno psichiatra ti dice che, secondo il suo psicanalista, la letteratura sta morendo. Si tratta di un vero e proprio atto di aggressione. Ma come può uno scrittore tenersi alla larga dai ricevimenti? Deve frequentarli, e sentire inevitabilmente le peggiori accuse, esponendo così la propria innocenza di sonnambulo ai più gravi pericoli. Ancora una volta, la scure cala sui fiori. Ma i fiori ricresceranno. Esistono tanto la grandezza dell’uomo, quanto la grandezza della sua imbecillità, ed entrambe sono eterne.
Un minuto che è un misto tra il “non ti ragioniam di lor” dantesco e una preghiera orientale: in definitiva, non ci sono cose da fare per non perdere fiducia, voglia, ottimismo e capacità. Solo cose da non fare, semmai. Fidarsi dei pessimisti e degli apocalittici per esempio, o cedere alla versione semplificata dei “critici” ad ogni livello. Insomma tutto sommato vivere nel mondo e del mondo imparare a fregarsene, ci dice Bellow, talvolta è sintomo di forza e intelligenza, non di superficialità o di fragilità.
8) Un bravo scrittore è sempre engagé
Quando mi chiedono un’opinione su alcune questioni particolarmente complesse dei nostri tempi, a volte rispondo dichiarando che sono a favore delle cose buone, e contro quelle cattive. Non tutti trovano la battuta divertente. (…)
Ogni scrittore che raggiunge un certo livello di prominenza negli Stati Uniti può scegliere se appartenere o meno al jet set. Sta solo a lui decidere. Molti anni fa mi è capitato di leggere delle pagine del critico e filosofo russo Lev Šestov, secondo cui il pubblico vuole che gli scrittori siano dei gladiatori. E in effetti, il pubblico vuole davvero che gli scrittori combattano e sanguinino nell’arena del Colosseo, anche se, è chiaro, al giorno d’oggi nessuno versa veramente il suo sangue, a parte la gente più umile, che non può evitare di farlo. Se guardo a molti scrittori americani di cui non ho problemi a fare il nome – gente come Norman Mailer, Truman Capote e Gore Vidal – noto come amino sul serio esibirsi a beneficio dei mass media, e diventare figure pubbliche. Questo non è sempre e soltanto un fattore negativo. Molti scrittori del passato hanno ricoperto un ruolo simile e hanno saputo sfruttarlo con esiti assai positivi. Voltaire era una figura pubblica, e anche Victor Hugo. Nessuna di queste cose è necessariamente negativa in sé, purché vi sia anche solo una parvenza di verità o di passione in quel che lo scrittore sta facendo, anche se alcuni suoi colleghi possono trovarlo sgradevole. Perciò, se Norman Mailer vuole fare il buffone in televisione, non ho nulla da obiettare, sempre a patto che produca opere letterarie interessanti, come accade molto spesso. Non c’è alcun motivo di assumere un atteggiamento ideologico nei confronti di queste scelte; e io non intendo farlo.
Serve altro?
9) Un bravo scrittore scrive per cambiare il mondo
I seguaci del disordine non amano i romanzi. Preferiscono seguire altri percorsi. Possono diventare avvocati specializzati in infortunistica stradale o promotori finanziari, non certo romanzieri. È per questo che ho sempre un moto di fastidio quando leggo l’ennesimo attacco ai romanzieri moderni scritto da caporedattori strapagati di riviste da milioni di dollari. Chiedono agli scrittori americani di rappresentare il paese in modo corretto, di esaltarne i valori, di accrescerne il prestigio in questo periodo tanto pericoloso. Forse, però, i romanzieri hanno un’idea differente di cosa vada affermato ed esaltato. Forse sono impegnati in una mappatura personale delle cose da affermare.
Vedi alla voce: scrivere solo di quello che si conosce ed essere sempre engagé. Chi scrive non lo fa per sfogarsi, né accrescere il proprio potere e tantomeno per cambiare il mondo. O almeno, ci avverte Bellow, non dovrebbe. Chi scrive cerca un ordine tutto suo (morale, estetico, sociale, personale…); probabilmente non lo troverà mai, ma sarà salvo solo se continuerà a perseguirlo senza sosta. Cosa riguardi di preciso quest’ordine è un’altra cosa, forse impossibile da stabilire o comunque giudicare, se non sul metro della scrittura e della sua potenza. È, ancora una volta, una partita che si gioca prima di tutto con noi stessi, e nei confronti di ciò che riteniamo debba essere protetto dal Grande Rumore e dal senso perenne di una fine che incombe.
10) Il romanzo è morto
Sono state così tante le mani impegnate a scavare la fossa al romanzo – da Paul Valéry agli editor delle riviste letterarie, agli studiosi che decidono quando un genere può considerarsi in auge o in declino, per non parlare di un numero infinito di perfette nullità – che non posso fare a meno di sentirmi sollevato ogni volta che si verifica una resurrezione. La gente legge i libri di storia e sembra si convinca che tutto deve concludersi nell’arco della propria vita. «Abbiamo letto i libri di storia, perciò la storia è finita», pare vogliano dire. In realtà, tutto ciò che questi sedicenti critici hanno il diritto di affermare è che i bei romanzi diventano sempre più rari e sporadici. Questo è assolutamente vero. Ma lo stesso vale per qualunque altra cosa bella. Se i critici in questione volessero essere sinceri fino in fondo, dovrebbero confessare di annoiarsi. La noia, come ogni altra forza rilevante, va rispettata. (…) Quando mi sento giù di corda arrivo quasi a persuadermi che il romanzo, come la produzione delle ceste indiane o delle bardature equestri, è un’arte residuale e senza futuro. Conviene però stare attenti, quando si tratta di profetizzare. Perfino le profezie basate su un’analisi storica corretta sono rischiose, e il pessimismo, non meno dell’ottimismo, può facilmente trasformarsi in una moda da consorterie.
Nel Grande Rumore non c’è solo il mondo, ma anche la letteratura stessa, o quantomeno il chiacchericcio incessante che le gravita attorno. Quello cinico e spietato della critica, quello vuoto o derivativo delle pose contemporanee, quello apocalittico e al contempo frivolo di un mondo culturale incapace di guardare intorno o davanti a sé. Quindi il “nemico” contro cui uno scrittore deve combattere non è solo il Resto del Mondo, quello distante e lontano dalla sua vita, ma anche e soprattutto quello con cui è a contatto ogni giorno, quel resto del mondo che gli dà da mangiare e lo ha legittimato nel suo ruolo. Il nemico talvolta è il vicino più prossimo dello scrittore, se non, udite udite, perfino lo scrittore stesso.
http://www.rivistastudio.com/standard/saul-bellow-troppe-cose-a-cui-pensare/