Mentre prosegue nella Striscia di Gaza la controffensiva israeliana sempre più a sud verso il confine egiziano, si intensificano le pressioni internazionali affinché il governo di Benjamin Netanyahu si pieghi a una richiesta di cessate il fuoco definitivo. I palestinesi offrirebbero la liberazione degli ostaggi tuttora in mano di Hamas in cambio del ritiro totale delle forze militari dall’area e il rilascio di un numero spropositato di terroristi attualmente detenuti nelle carceri israeliane per crimini anche molto gravi. Ciò pone un dilemma: cedere per salvare gli ostaggi o preferire la sicurezza dello Stato? Molte considerazioni che seguono sono tratte dal saggio intitolato “Mishnat Chassidim: Minaccia collettiva e sopravvivenza individuale” che pubblicai nel 5778-2018 sul n. 12 della rivista “Segulat Israel”, al quale rimando senz’altro per le fonti e gli approfondimenti.
Del Pidyon Shevuyim Maimonide scrive che “ha la precedenza sulla beneficenza ai poveri e sull’obbligo di dar loro da vestire. Non c’è Mitzwah più grande che riscattare i prigionieri” (Mishneh Torah, Hilkhot Mattenot ‘Aniyim 8, 10-11). Con tutto ciò la Mishnah (Ghittin 4, 6) stabilisce che “i prigionieri non possono essere riscattati oltre il loro valore, per il bene del mondo (mi-ppenè tiqqun ha-’olam)”. Il Talmud spiega questa disposizione con l’esigenza di non incoraggiare i nemici a perpetrare il crimine per l’avvenire, sapendo di poter contare sulla disponibilità economica degli ebrei. È nota la storia di R. Meir di Rothenburg (fine XIII secolo), che proibì ai suoi discepoli di riscattarlo e finì i suoi giorni in prigionia. Va notato, peraltro, che queste fonti si riferiscono a rapimenti a scopo di estorsione, casi lontani dalla situazione attuale relativa agli ostaggi.
Il Talmud Yerushalmì, Terumot, 8, scrive: “Se un gruppo di viandanti (ebrei) si imbatte negli stranieri che dicono loro: ‘Consegnateci uno di voi e lo uccideremo, altrimenti vi uccidiamo tutti’, si lascino uccidere tutti ma non consegnino un’anima in Israel”. Il principio halakhico è che non si sacrifica un’anima al posto di un’altra (eyn dochin nefesh mi-penè nefesh) e pertanto non abbiamo il diritto di consegnare qualcun altro per salvare noi stessi. La ragione è ben espressa dal detto talmudico: “Forse che il tuo sangue è più rosso del suo?” (Pessachim 25b, Sanhedrin 74a). Lo scopo di questa resistenza è anche dimostrare che ogni singola vita ebraica ha per noi importanza e siamo pronti a combattere per essa. “Se però (gli stranieri) hanno indicato per nome uno degli ebrei come era accaduto con Sheva’ ben Bikhrì e abbiano detto: ‘Consegnateci il tale, altrimenti vi uccideremo tutti’, in questo caso è permesso consegnare la persona indicata per salvare le altre”. Dal momento che il soggetto designato è destinato a morire comunque, qui non si sacrifica più un’anima per un’altra. Lungi dall’essere una consegna forzata, lo si convince a farsi avanti per risparmiare la vita di tutti gli altri. Non solo. L’episodio cui il Talmud si riferisce è narrato in 2 Shemuel, 20. Sheva’ ben Bikhrì era passibile di morte per essersi ribellato contro il re David e si era barricato entro le mura di Avèl Bet Ma’akhah. Quando Yoav generale del re mise l’assedio alla città si fece avanti una “donna saggia” nell’intento di trattare con lui la liberazione. Yoav le spiegò di essere alla ricerca di Sheva’ in quanto “aveva levato la sua mano contro il re”. La donna fece uccidere Sheva’ dagli abitanti della città, ne consegnò la testa a Yoav e l’assedio fu tolto.
Neanche questa fonte è sufficiente per dirimere il nostro interrogativo. A differenza di Sheva’ ben Bikhrì i nostri ostaggi odierni non hanno commesso nessun crimine da espiare con la pena capitale. D’altronde non si tratta di consegnarli: essi si trovano già nelle mani di Hamas. Forse possiamo confrontarci con un altro famoso brano, tratto questa volta dal Talmud Bavlì: “Due individui sono in viaggio e uno dei due è provvisto di una borraccia d’acqua: se bevono entrambi muoiono, mentre se beve uno solo dei due ha la possibilità di raggiungere l’abitato più vicino. Ben Petorà interpretava che è meglio che entrambi bevano e muoiano piuttosto che uno debba assistere alla morte dell’altro. Finché giunse R. ‘Aqivà e insegnò: ‘La vita di tuo fratello è con te (ma non più di te)’ (Wayqrà 25, 36): la tua vita ha la precedenza su quella di tuo fratello” (Bavà Metzi’à 62a). Anche in questo caso la controversia riguarda la sopravvivenza individuale a fronte della morte collettiva, ma la Halakhah è stata stabilita secondo R. ‘Aqivà. Qual è la ragione della differenza? “L’apparente contraddizione può essere risolta facendo una distinzione fra consegna attiva (chiyuv o ma’asseh) e consegna passiva (shelilah o meni’ah). Se si segue la logica di R. ‘Aqivà e non si passa la borraccia dell’acqua al compagno, la morte di quest’ultimo è semplicemente la conseguenza passiva di un’azione mancata. All’opposto consegnare un’anima ebraica agli assassini è provocarne attivamente la morte. Ecco perché in quest’ultimo caso il principio per cui ‘la tua vita ha la precedenza’ non vale. È meglio morire piuttosto che consegnare alla morte il proprio fratello” (Rav M.A. Amiel, “Ethics and Legality in Jewish Law”, Amiel Library, Gerusalemme, 1992, p. 67 – ingl.).
A proposito del principio “Non si sacrifica una vita al posto di un’altra” si può citare il caso di Entebbe. Il 4 luglio 1976 l’esercito israeliano intervenne con la forza a salvare gli ostaggi di un volo dirottato da terroristi che avevano condizionato la loro liberazione al rilascio di detenuti pericolosi per la sicurezza internazionale. La vicenda pose almeno due ordini di problemi: 1) è lecito aderire alla richiesta di scarcerare dei terroristi per non mettere a repentaglio le vite di ostaggi innocenti? 2) è lecito mettere a repentaglio le vite dei soldati al posto di quelle degli ostaggi? R. ‘Ovadyah Yossef, allora Rabbino Capo sefardita dello Stato d’Israele, rispose ad entrambe le domande in senso affermativo, invocando il medesimo principio: si ha l’obbligo di mettere a rischio eventuale la propria vita per salvare altri da morte certa. Ciò comporta il permesso di liberare terroristi che in futuro potrebbero attentare a vite umane a fronte dell’imminente esecuzione degli ostaggi. Quanto all’azione dell’esercito, si è esenti dall’intervenire in aiuto della vita altrui solo se il rischio della propria è significativo. In caso contrario esiste l’obbligo di farlo.
Si può obiettare anche a questo proposito che la situazione oggi è cambiata sotto almeno tre aspetti. 1) Le fonti antiche si riferiscono per lo più a episodi localizzati, senza una ricaduta sull’intero popolo ebraico. 2) Oggi c’è una guerra in corso. Le operazioni militari a Gaza non hanno solo lo scopo di liberare gli ostaggi e di punire i responsabili del loro sequestro, ma anche esercitare un’azione deterrente e soprattutto impedire che gli attacchi continuino e si ripetano in futuro. 3) Il punto a mio avviso giuridicamente più rilevante è però il seguente: non abbiamo alcuna garanzia dello stato di salute degli ostaggi, possiamo ancora ritenerli be-chezqat chayyim (“nella presunzione halakhica di vitalità”)? Pur augurandoci che siano ancora vivi, provati da oltre quattro mesi di quel tipo di prigionia potrebbero trovarsi ridotti allo status halakhico di terefah (“malato terminale”), o meglio di gosses bidè adam (“agonizzante per colpa dell’uomo”). Se in altre condizioni la Mishnah (Yomà 8, 7) stabilisce che per salvare chi è finito sotto le macerie si scava di Shabbat anche se la speranza di ritrovarlo in vita è estremamente tenue e se sopravvivrà pochi istanti soltanto, nel nostro caso si pone la domanda se la salvaguardia dell’intera popolazione non diventi una priorità rispetto al salvataggio di queste persone a ogni costo. Sulla base di un episodio occorso a ‘Ullà (Nedarim 22a) una serie di Maestri stabilisce che è permesso a un gruppo di ebrei aggredito da un nemico sanguinario sacrificare uno di loro che sia una terefah piuttosto che venire uccisi (Meirì a Sanhedrin 72b; Minchat Chinnukh, prec. 296; cfr. anche Tif’eret Israel a Mishnah Yomà 8). Ma non tutti sono d’accordo. R. Yechezqel Landau (Praga, sec. XVII) scrive testualmente: “Non si è mai sentito che sia permesso sacrificare una terefah per salvare la vita di un individuo shalem” (“in salute”; Resp. Nodà bi-Yhudah, Mahadurà Tinyanà, Choshen Mishpat n. 59)!
Qui mi fermo: non spetta a me andare oltre una semplice presentazione dei dati principali del dilemma. Che H. ispiri nei governanti la giusta decisione! Mi limito solo a due raccomandazioni. La prima è legata alla Mitzwah del Qiddush ha-Shem (“santificazione del Nome”). Che la linea intrapresa, quale che sia, non sia fonte di ulteriori divisioni nella nostra compagine. Eviteremo il gioco dei nostri nemici i quali, spingendoci all’odio reciproco e alla lite, mettono a repentaglio di proposito l’unità della comunità ebraica. E soprattutto ricordiamoci che ciascun essere umano è stato creato a immagine divina e pertanto ogni singola personalità è dotata di valore infinito.. La somma di più infiniti non può essere maggiore di un solo infinito. Il popolo ebraico non è mai la semplice somma aritmetica dei suoi membri presi indipendentemente l’uno dall’altro, bensì è un organismo in cui ciascuno è indispensabile. Per l’avvenire auspichiamo solo buone notizie!
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