Tratto da “Il Sabato – Abraham Joshua Heschel”, Garzanti 2001
Prologo – Architettura del tempo
La civiltà tecnica è la conquista dello spazio da parte dell’uomo. È un trionfo al quale spesso si perviene sacrificando un elemento essenziale dell’esistenza, cioè il temp0. Nella civiltà tecnica, noi consumiamo il tempo per guadagnare lo spazio. Accrescere il nostro potere sullo spazio è il nostro principale obiettivo. Tuttavia, avere di più non significa essere di più: il potere che noi conseguiamo sullo spazio termina bruscamente alla linea di confine del tempo: e il tempo è il cuore dell’esistenza.[1]
Conseguire il controllo dello spazio è certamente uno dei nostri compiti. Il pericolo comincia quando, acquistando potere sullo spazio, rinunciamo a tutte le aspirazioni nell’ambito del tempo. Esiste un regno del tempo in cui la meta non è l’avere ma l’essere, non l’essere in credito ma il dare, non il controllare ma il condividere non il sottomettere ma l’essere in armonia. La vita è indirizzata male quando il controllo dello spazio e la conquista delle cose dello spazio diventano la nostra unica preoccupazione.
Nulla è più utile del potere, nulla più temibile. Spesso abbiamo sofferto la degradazione che deriva dalla povertà; ora siamo minacciati dalla degradazione che viene dal potere. Vi è felicità nell’amore della fatica, vi è miseria nell’amore del guadagno. Molti cuori e molte secchie si infrangono alla fonte del profitto. Vendendosi alla schiavitù delle cose, l’uomo diventa un utensile che si infrange alla fonte.
La civiltà tecnica nasce principalmente dal desiderio dell’uomo di sottomettere e governare le forze della natura. La fabbricazione degli utensili, l’arte della filatura e della coltura agricola, la costruzione di case, il mestiere del navigare, tutto questo è svolto dall’uomo nell’ambito dello spazio. La preoccupazione per le cose dello spazio condiziona attualmente tutte le attività dell’uomo. Persino le religioni sono spesso dominate dalla nozione che la divinità risiede nello spazio, in località particolari come le montagne, le foreste, gli alberi o le pietre, che perciò vengono elette a luoghi sacri; la divinità è legata a una terra particolare; il sacro viene associato alle cose nello spazio, e l’interrogativo fondamentale è: Dov’è Dio? Suscita molto entusiasmo l’idea che Dio sia presente nell’universo, ma con questa idea si intende generalmente indicare la Sua presenza nello spazio anziché nel tempo, nella natura anziché nella storia: come se Egli fosse una cosa, non uno spirito. Anche la filosofia panteistica è una religione dello spazio: l’Essere Supremo è concepito come lo spazio infinito. Deus sive natura ha come attributo l’estensione, ossia lo spazio, non il tempo; per Spinoza il tempo è soltanto un accidente del movimento, un modo di pensare. E il suo desiderio di sviluppare una filosofia more geometrico, secondo il metodo della geometria, che è la scienza dello spazio, è caratteristico della sua mentalità spaziale.
La mente primitiva trova difficile concepire un’idea senza l’aiuto dell’immaginazione, e l’immaginazione agisce nel regno dello spazio. Degli dèi essa deve farsi un’immagine visibile: dove non c’è un’immagine, non c’è Dio. Il senso di riverenza per un’immagine sacra, per un monumento o un luogo sacro, non solo è innato nella maggior parte delle religioni, ma è stato persino coltivato da uomini di tutti i tempi, di tutte le nazioni, siano essi religiosi, superstiziosi, o anche antireligiosi tutti continuano a tributare omaggio alle bandiere e ai vessilli, ai santuari nazionali, ai monumenti eretti in onore dei re e degli eroi. Ovunque la dissacrazione dei luoghi santi è considerata un sacrilegio, e il Santuario può divenire tanto importante da far dimenticare l’idea che esso rappresenta. Il monumento commemorativo diventa un ausilio all’amnesia; i mezzi offuscano il fine. Le cose dello spazio infatti sono alla mercé dell’uomo; troppo sacre per essere profanate, non sono troppo sacre per essere utilizzate a proprio vantaggio. Per conservare il sacro, per perpetuare la presenza di Dio, viene modellata una sua immagine. Ma un Dio che può essere modellato, un Dio che può essere delimitato, non è che un’ombra dell’uomo.
Noi siamo tutti infatuati dello splendore dello spazio, della grandiosità delle cose dello spazio. La cosa è una categoria che pesa gravemente sul nostro spirito, tiranneggiando ogni nostro pensiero. La nostra immaginazione tende a plasmare tutti i concetti a sua immagine. Nella nostra vita quotidiana noi badiamo anzitutto a quel che i sensi ci presentano: a quel che gli occhi percepiscono, a quel che le dita toccano. La realtà per noi è il mondo delle cose, costituito da sostanze che occupano uno spazio; perfino Dio viene considerato da molti come una cosa.
Questo nostro legame con le cose ci rende ciechi a ogni realtà che non si presenti come una cosa, come un dato di fatto. Ciò risulta chiaro nel modo in cui intendiamo il tempo, il quale, non essendo una cosa o una sostanza, ci appare privo di ogni realtà.[2]
Noi sappiamo, infatti, che cosa fare con lo spazio ma non sappiamo che cosa fare con il tempo, salvo porlo al servizio dello spazio. La maggior parte di noi sembra affaticarsi per amore delle cose dello spazio. Di conseguenza, soffriamo di un profondo terrore del tempo e rimaniamo atterriti quando siamo costretti a guardarlo in faccia.[3] Il tempo per noi è sarcasmo, un viscido mostro traditore che nella sua bocca da fornace incenerisce momento per momento la nostra vita. Per non dover affrontare il tempo, noi cerchiamo rifugio nelle cose dello spazio. Le intenzioni che non riusciamo a realizzare, le collochiamo nello spazio; i possessi diventano i simboli delle nostre repressioni, giubilei di frustrazioni. Ma le cose dello spazio non sono a prova di fuoco: esse non fanno che aggiungere combustibile alle fiamme. La gioia del possesso è forse un antidoto al terrore del tempo che cresce fino a diventare terrore della morte inevitabile? Le cose, quando vengono magnificate, sono le contraffazioni della felicità, una minaccia per la nostra stessa vita: noi siamo più tormentati che sostenuti dai Frankenstein delle cose spaziali.
L’uomo non può sottrarsi al problema del tempo. Quanto più meditiamo, tanto più constatiamo che non possiamo conquistare il tempo attraverso lo spazio. Possiamo dominare il tempo soltanto nel tempo.[4]
La meta più alta del vivere spirituale non è accumulare una ricchezza di informazioni, ma affrontare i momenti sacri. In una esperienza religiosa, per esempio, si impone all’uomo non una cosa, ma una presenza spirituale.[5] Ciò che resta nell’anima è quel momento di intuizione più che il luogo dove l’atto si è svolto. Un momento d’intuizione è una fortuna che ci trasporta oltre i confini del tempo misurato. La vita spirituale comincia a decadere quando non riusciamo più a sentire la grandiosità di ciò che è eterno nel tempo. Non è mia intenzione condannare lo spazio. Denigrare lo spazio e la benedizione delle cose dello spazio sarebbe denigrare le opere della creazione, le opere che Dio contemplò e vide che «erano buone». Il mondo non può essere visto esclusivamente sub specie temporis. Tempo e spazio sono fra loro correlati; trascurare l’uno o l’altro significa essere parzialmente ciechi. Noi ci opponiamo invece alla sottomissione incondizionata dell’uomo allo spazio, il suo asservimento alle cose. Non dobbiamo dimenticare che non è la cosa che conferisce significato a un momento: è il momento che conferisce significato alle cose.
La Bibbia si interessa più del tempo che dello spazio. Essa vede il mondo nella dimensione del tempo, e dedica maggiore attenzione alle generazioni, agli eventi, che ai paesi, alle cose; si interessa più alla storia che alla geografia. Per comprendere l’insegnamento della Bibbia, bisogna accettarne la premessa che il tempo ha per la vita un significato almeno pari a quello dello spazio; che il tempo ha un significato e una sovranità propri.
Nell’ebraico biblico non esiste un equivalente della parola «cosa». La parola davar che nell’ebraico posteriore è venuta a indicare la cosa, nell’ebraico biblico significa: discorso, parola, messaggio, resoconto, notizia, consiglio, richiesta, promessa, decisione, sentenza, tema, storia, detto, espressione, affare, occupazione, atti,
buone azioni, eventi, modo, maniera, ragione, causa: non significa mai «cosa». E’ un segno di povertà linguistica o non piuttosto l’indizio di una visione del mondo non distorta, cioè del non identificare la realtà (derivata dalla parola latina res, cosa) con il mondo delle cose? Uno dei fatti più importanti nella storia della religione è stata la trasformazione delle festività agricole in commemorazioni di avvenimenti storici. Le festività dei popoli antichi erano intimamente legate alle stagioni. Esse celebravano quello che avveniva in natura nelle varie stagioni. Perciò il valore del giorno festivo dipendeva dalle cose che la natura produceva o non produceva. Nell’ebraismo la Pasqua (Pesach), in origine festa della primavera, divenne celebrazione dell’esodo dall’Egitto; la Festa delle Settimane, un’antica festività della mietitura alla fine del raccolto del grano (chag ha-kazir, Es. 23, 16; 34, 22), divenne celebrazione del giorno in cui fu data la Torà sul Sinai; la Festa delle Capanne, un’antica festività della vendemmia (chag ha-assif, Es. 23, 16), commemora il soggiorno degli Israeliti nelle capanne durante la loro permanenza nel deserto (Lev. 23, 42 ss.). Per Israele gli eventi straordinari della loro storia erano spiritualmente più significativi che non ì processi ricorrenti del ciclo della natura, anche se da quest’ultimo dipendeva il loro sostentamento fisico. Mentre le divinità degli altri popoli erano associate a luoghi o a cose, il Dio d’Israele era il Dio degli eventi: il Liberatore dalla schiavitù, il Rivelatore della Torà, che si manifestava negli eventi storici anziché nelle cose o nei luoghi. Era nata la fede nell’incorporeo, nell’inimmaginabile.
L’ebraismo è una religione del tempo che mira alla santificazione del tempo. A differenza dell’uomo, la cui mente è dominata dallo spazio, per cui il tempo è invariato, iterativo, omogeneo, per cui tutte le ore sono uguali, senza qualità, gusci vuoti, la Bibbia sente il carattere diversificato del tempo: non vi sono due ore uguali; ciascuna ora è unica, la sola concessa in quel momento, esclusiva e infinitamente preziosa.
L’ebraismo ci insegna a sentirci legati alla santità nel tempo, a essere legati a eventi sacri, a consacrare i santuari che emergono dal grandioso corso di un anno. I Sabati sono le nostre grandi cattedrali; e il nostro Santo dei Santi è un santuario che né i Romani né i Tedeschi sono riusciti a bruciare, un santuario che neppure l’apostasia può facilmente distruggere: il Giorno dell’Espiazione. Secondo gli antichi rabbini, non è l’osservati/a del Giorno dell’Espiazione, ma il Giorno stesso l’«essenza del Giorno» che, con il pentimento dell’uomo, espia le colpe di quest’ultimo.[6]
Il rituale ebraico può essere caratterizzato come l’arte delle forme significative nel tempo, come architettura del tempo. La maggior parte delle sue osservanze – il Sabato la Luna Nuova, le feste, l’anno sabbatico e l’anno del giubileo – sono connesse a una certa ora del giorno una stagione dell’anno. Per esempio, l’invito alla preghiera è legato alla sera, alla mattina o al pomeriggio. I principali temi della fede sono nell’ambito del tempo noi ricordiamo il giorno dell’esodo dall’Egitto, il giorno in cui Israele si fermò al Sinai; la nostra speranza messianica è l’attesa di un giorno, della fine dei giorni. In un’opera d’arte rettamente ideata, un’idea di particolare importanza non viene introdotta a caso ma, come un re a una cerimonia ufficiale, essa è presentata un momento e in un modo tali da mettere in luce la sua autorità e il suo ruolo di guida. Nella Bibbia le parole sono adoperate con cura squisita, specialmente quelle che, come colonne di fuoco, indicano la via nel vasto sterna dei significati biblici.
Una delle parole più eminenti della Bibbia è qadosh, santo; una parola che più di ogni altra rappresenta il mistero e la maestà del divino. Ora, che cosa è stato il primo oggetto santo nella storia dell’universo? E stata una montagna? E stato un altare?
La eminente parola qadosh viene usata per la prima volta nel libro del Genesi alla fine della storia della creazione, ed è estremamente significativo che essa venga applicata al tempo: «E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò».[7] Nel racconto della creazione, a nessun oggetto nello spazio viene attribuito il carattere della santità.
Qui ci allontaniamo radicalmente dal pensiero religioso abituale. Lo spirito mitico si aspetterebbe che, dopo aver fondato il cielo e la terra, Dio creasse un luogo sacro – una montagna o una fonte sacra – sul quale erigere un santuario. Invece sembra che per la Bibbia conti più di tutto la santità nel tempo, il Sabato.
Agli albori della storia vi era soltanto una santità nel mondo: la santità nel tempo. Quando sul Sinai stava per essere pronunciata la parola di Dio, fu elevata una invocazione alla santità nell’uomo: «Voi sarete per me un popolo santo». Soltanto dopo che il popolo cedette alla tentazione di adorare un oggetto, un vitello d’oro, fu ordinata l’erezione di un Tabernacolo, la santità nello spazio.[8] Prima venne la santità del tempo, poi la santità dell’uomo, e infine la santità dello spazio. Il tempo è stato santificato da Dio; lo spazio e il tabernacolo sono stati consacrati da Mosè.[9]
Mentre le festività celebrano gli eventi che si sono verificati nel tempo, la data del mese fissata per ogni festività è determinata dalla vita della natura. La Pasqua e la Festa delle Capanne, per esempio, coincidono con la luna piena, e la data di tutte le festività è un giorno del mese, e il mese è il riflesso di ciò che si svolge periodicamente nel regno della natura, giacché il mese ebraico comincia con la luna nuova, col riapparire della luna nel cielo della sera.[10] Il Sabato invece è completamente indipendente dal mese e non ha relazione con la luna;[11] la sua data non è determinata da alcun evento della natura, ma dall’atto della creazione. L’essenza del Sabato è assolutamente al di fuori dello spazio.
Il Sabato è fatto per celebrare il tempo, non lo spazio. Per sei giorni alla settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione; dal mondo della creazione alla creazione del mondo.
Cap. 1. Un Palazzo nel Tempo
Chi desidera entrare nella santità del giorno deve prima deporre la profanità e il chiasso del commercio, il giogo della fatica. Deve allontanarsi dallo stridore dei giorni dissonanti, dal nervosismo e dalla furia dell’acquisire e dal tradimento perpetrato nel prevaricare sulla sua stessa vita. Egli deve prendere congedo dal lavoro manuale e imparare a comprendere che il mondo è già stato creato e sopravviverà anche senza l’aiuto dell’uomo. Per sei giorni della settimana noi lottiamo con il mondo, spremendo profitto dalla terra; il Sabato ci interessiamo con cura speciale dei semi di eternità piantati nella nostra anima. Al mondo diamo le nostre mani, ma la nostra anima appartiene a Qualcun Altro. Per sei giorni della settimana noi cerchiamo di dominare il mondo, nel settimo giorno cerchiamo di dominare il nostro io.
Quando i Romani notarono con quale intransigenza gli Ebrei osservavano la legge di astenersi dal lavoro nel giorno di Sabato, la loro unica reazione fu il disprezzo. Secondo Giovenale, Seneca e altri, il Sabato era un segno dell’indolenza giudaica.
In difesa del Sabato, Filone, il portavoce degli Ebrei di lingua greca ad Alessandria, afferma: «In questo giorno ci viene comandato di astenerci da ogni lavoro, non già perché la legge inculchi la rilassatezza… Il suo obiettivo è invece di sollevare un po’ l’uomo dalla continua e incessante fatica e, ristorando il suo corpo mediante un sistema di esenzioni ordinatamente calcolato, di farlo ritornare rinnovato alle sue precedenti attività, così come un intervallo per respirare permette non soltanto alle persone normali ma anche agli atleti di raccogliere le proprie energie con rinnovato impegno, per intraprendere prontamente e pazientemente ciascuno dei compiti assegnati».[12]
Qui il Sabato è presentato non secondo la Bibbia ma secondo Aristotele, il quale dice: «Noi abbiamo bisogno di rilassarci, perché non possiamo lavorare di continuo. Il riposo, dunque, non è un fine»; esso è dato «in vista dell’attività», allo scopo di acquistare energia per nuovi sforzi.[13] Nello spirito biblico, invece, la fatica è un mezzo per il fine, e il Sabato in quanto giorno di riposo dal lavoro non è stato creato per far recuperare le energie perdute e renderci idonei alla successiva fatica: esso è stato creato per amore della vita. L’uomo non è una bestia da soma, e il Sabato non serve ad accrescere la sua efficienza sul lavoro. «Ultimo nella creazione, primo nell’intenzione»,[14] il Sabato è «il fine della creazione del cielo e della terra».[15]
Il Sabato non è a servizio dei giorni feriali; sono invece i giorni feriali che esistono in funzione del Sabato.[16] Esso non è un interludio, ma il culmine del vivere.
Tre atti di Dio caratterizzarono il settimo giorno: Egli riposò, benedisse e santificò il settimo giorno (Gen. 2, 2-3). Alla proibizione del lavoro si aggiunge perciò la benedizione della gioia e l’enfasi della santità. Non soltanto le mani dell’uomo celebrano il giorno, ma anche la lingua e l’anima osservano il Sabato: in esso non si parla come nei giorni feriali; dovrebbe essere evitato persino il pensiero degli affari o del lavoro.
Il lavoro è un mestiere, ma il riposo perfetto è un’arte, il risultato di un’armonia tra il corpo, la mente e l’immaginazione. Per raggiungere la perfezione in un’arte si deve accettarne la disciplina, si deve abiurare l’indolenza. Il settimo giorno è un palazzo che noi costruiamo nel tempo. E fatto di anima, di gioia e di reticenze. Nella sua atmosfera, la disciplina ricorda la vicinanza con l’eternità. Lo splendore di questo giorno è espresso in termini di astensioni, così come il mistero di Dio è reso via negationis, più adeguatamente con le categorie della teologia negativa, secondo la quale non si può spiegare ciò che Egli è ma soltanto ciò che Egli non è. Noi sentiamo sovente quanto sarebbe misero l’edificio se fosse costruito esclusivamente con i nostri riti e i nostri atti, tanto goffi e spesso tanto inopportuni. In quale altro modo potremmo esprimere la gloria dell’eternità se non astenendoci dalla rumorosità degli atti? Queste restrizioni sono canti per coloro che sanno vivere in un palazzo insieme con una regina.
Vi è un’espressione che viene usata di rado per designare una emozione così profonda da essere incomunicabile: l’amore del Sabato. Questa espressione è rara nella nostra letteratura, e tuttavia per più di duemila anni l’emozione ha riempito i nostri canti e le nostre anime. Era come se un intero popolo fosse innamorato del settimo giorno. Molto del suo spirito può essere compreso soltanto come esempio di un amore portato agli estremi. Come nella poesia cavalleresca del Medioevo, «il principio conduttore era che l’amore deve essere sempre assoluto, e che ogni pensiero e ogni atto di chi ama deve in tutte le occasioni corrispondere alle sensazioni o ai sentimenti o alle fantasie più estreme di cui può essere capace un amante».
«Per i trovatori e le loro dame, l’amore era sorgente di gioia. I suoi comandi e le sue esigenze costituivano la legge suprema della vita. L’amore era per i cavalieri un servizio; era lealtà e devozione: era il più nobile dono Umano. Esso era anche sorgente di perfezione, l’ispirazione a compiere nobili gesta».[17] La cultura cavalleresca sviluppò una concezione romantica dell’adorazione e dell’amore che nella sua combinazione di mito e passione domina a tutt’oggi la letteratura e la mentalità dell’Occidente. Il contributo ebraico all’idea dell’amore è nell’amore del Sabato, nell’amore di un giorno, dello spirito in forma di tempo.
Che cosa vi può essere di tanto luminoso in un giorno? Che cosa vi può essere di tanto prezioso da affascinare i cuori? La ragione è che il settimo giorno è una miniera nella quale si può trovare il prezioso metallo dello spirito con cui costruire il palazzo nel tempo, una dimensione in cui l’umano si sente a proprio agio con il divino; una dimensione in cui l’uomo aspira a raggiungere la somiglianza con il divino.
E infatti dove si potrebbe trovare la somiglianza con Dio? Lo spazio non ha alcuna qualità in comune con l’essenza di Dio. Non vi è abbastanza libertà sulla cima di una montagna; non vi è abbastanza gloria nel silenzio del mare. La somiglianza con Dio può essere trovata invece nel tempo, che è eternità mascherata.
L’arte di osservare il settimo giorno è l’arte di dipingere sulla tela del tempo la misteriosa grandiosità del culmine della creazione: come Egli ha santificato il settimo giorno, così faremo noi. Amare il Sabato è amare quello che abbiamo in comune con Dio. La nostra osservanza del Sabato è una parafrasi della Sua santificazione del settimo giorno.
Il mondo senza il Sabato sarebbe un mondo che ha conosciuto solo se stesso; sarebbe scambiare Dio per una cosa, sarebbe l’abisso che Lo separa dall’universo; un mondo senza una finestra che dall’eternità si apra sul tempo.
Nonostante ogni possibile idealizzazione, non vi è pericolo che l’idea del Sabato diventi una favola. Nonostante tutta l’idealizzazione romantica, il Sabato rimane un fatto concreto, un’istituzione legale e un ordine sociale. Né vi è pericolo che esso diventi uno spirito privo di corpo, poiché lo spirito del Sabato deve essere sempre legato ad atti concreti, ad azioni e astensioni ben precise. Il reale e lo spirituale sono una cosa sola, come il corpo e l’anima nell’uomo vivo. Spetta alla legge preparare il sentiero; spetta all’anima sentire lo spirito.
Gli antichi rabbini intuirono che il Sabato richiede tutta l’attenzione dell’uomo, il servizio e la devozione assoluta di un amore totale. La logica di una siffatta concezione li portò ad ampliare continuamente il sistema delle leggi e delle regole da osservare. Il loro intento era di nobilitare la natura umana e di renderla degna di arrivare a questo giorno regale.
Tuttavia, non sempre la legge e l’amore, la disciplina e la gioia si fondevano tra loro. Nel timore di dissacrare lo spirito di questo giorno, gli antichi rabbini stabilirono un livello di osservanza che è sì alla portata delle anime più alte ma non di rado supera le capacità degli uomini comuni.
La glorificazione di questo giorno, l’insistenza sull’osservanza stretta non condusse però i rabbini a deificare la legge. «Il Sabato è stato dato a voi, non voi al Sabato».[18] Essi sapevano che la religiosità esagerata può mettere in pericolo il compimento dell’essenza della legge:[19] «Nulla è più importante, secondo la Torà, che salvare la vita umana… Anche quando vi è soltanto la minima probabilità che una vita sia in gioco, si può trascurare ogni proibizione della legge».[20] Si devono sacrificare le mizvoth[21] per amore dell’uomo anziché sacrificare l’uomo per amore delle mizvoth. Lo scopo della Torà è di
«recare la vita a Israele, in questo mondo e nel mondo futuro»[22].
Se una continua austerità può seriamente smorzare lo spirito di questo giorno, la leggerezza lo distruggerebbe. Non è possibile correggere una preziosa filigrana con una lancia o fare operazioni al cervello con un vomere. Bisogna sempre ricordare che il Sabato non è un’occasione per svaghi o frivolezze; non è un giorno da dedicare ai fuochi d’artificio o alle capriole, ma un’occasione per rappezzare la nostra vita sbrindellata; per raccogliere il tempo, non per dissipano. Il lavoro privo di dignità è causa di miseria; il riposo privo di spirito è fonte di depravazione. Le proibizioni sono servite a impedire che si sciupasse la grandiosità di questo giorno.
Due cose il popolo romano desiderava ardentemente: il pane e i giochi del circo[23]. Ma l’uomo non vive solo di pane né di giochi. Chi gli insegnerà a desiderare ardentemente lo spirito di un giorno sacro?
Il Sabato è il dono più prezioso che l’umanità abbia ricevuto dal tesoro di Dio. Durante tutta la settimana noi pensiamo: «Lo spirito è troppo lontano», e soccombiamo all’indifferenza spirituale; oppure, nella migliore delle ipotesi, preghiamo: «Concedici un p0’ del Tuo spirito». Al Sabato invece lo spirito ci prega: «Accetta da me ogni perfezione…».
Eppure, ciò che lo spirito ci offre è spesso troppo augusto per la nostra mente grossolana. Noi accettiamo sì l’agio e il ristoro del Sabato, ma ci sfuggono le sue ispirazioni, la sua origine e il suo significato. Questo è il motivo per cui nella nostra preghiera chiediamo: «Possano i Tuoi figli Intendere e capire che il loro riposo proviene da Te, e che riposare significa santificare il Tuo nome»[24].
Osservare il Sabato significa celebrare l’incoronazione di un giorno in uno spirituale Paese delle Meravigli che è il tempo, la cui aria noi respiriamo quando «lo chiamiamo una delizia».
Il Sabato è una delizia[25]: una delizia per l’anima e una delizia per il corpo. Poiché da tanti atti ci si deve astenere nel settimo giorno, «voi potreste pensare che io abbia dato il Sabato per il vostro dispiacere; io invece vi ho dato il Sabato per il vostro piacere». Santificare il settimo giorno non significa: «Mortificherai te stesso» ma, al contrario, santificarlo con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutti i sensi. «Santificate il Sabato con piatti scelti, con splendidi indumenti; rallegrate l’anima vostra con il piacere, ed io vi ricompenserò per questo stesso piacere»[26].
A differenza del Giorno dell’Espiazione, il Sabato non ha finalità esclusivamente spirituali. È un giorno dell’anima come del corpo; il benessere e il piacere sono parte integrante dell’osservanza del Sabato. La sua benedizione deve comprendere l’uomo nella sua interezza, con tutte le sue facoltà.
Una volta un principe fu mandato in cattività e costretto a vivere in incognito tra gente rozza e incolta, Passarono gli anni, ed egli si struggeva di nostalgia per ì re suo padre e per la sua terra natia. Un giorno gli giunse un messaggio segreto in cui il padre gli prometteva di riportarlo al palazzo e lo esortava a non dimenticare la sua educazione principesca. Grande fu la gioia del principe, ansioso di festeggiare quel giorno. Ma nessuno può fare festa da solo. Egli allora invitò la gente nella taverna del paese e ordinò cibo e bevande copiose per tutti. Fu una festa sontuosa, e tutti erano colmi di gioia:
la gente per le bevande e il principe pregustando il suo ritorno al palazzo[27].
L’anima non è in grado di celebrare da sola: anche il corpo deve essere invitato a partecipare alla gioia del Sabato.
«Il Sabato è un ricordo dei due mondi: questo mondo e il mondo futuro; esso è un esempio di entrambi i mondi. Il Sabato infatti è gioia, santità e riposo; la gioia è parte di questo mondo, la santità e il riposo sono del mondo futuro»[28].
Osservare il settimo giorno non significa soltanto obbedire strettamente a un comando divino: significa celebrare la creazione del mondo e creare ogni volta di nuovo il settimo giorno, la maestà della santità nel tempo, «un giorno di riposo, un giorno di libertà», un giorno che è come «signore e re di tutti gli altri giorni»[29], signore e re nel regno del tempo.
Come possiamo valutare la differenza tra il Sabato e gli altri giorni della settimana? In un giorno come il mercoledì le ore sono vuote e rimangono prive di carattere se non si conferisce loro un significato. Le ore del settimo giorno invece sono significative per se stesse; il loro contenuto e la loro bellezza non dipendono dal lavoro, profitto o progresso che ci possono portare. Esse hanno la bellezza della grandiosità: «Bellezza della grandiosità, una corona di vittoria, un giorno di riposo e di santità…, un riposo nell’amore e nella generosità, un vero e genuino riposo, un riposo che largisce pace e serenità, tranquillità e sicurezza, un perfetto riposo del quale Tu ti rallegri»[30].
Il tempo è come una terra deserta: possiede grandiosità ma non bellezza, La sua strana, terribile potenza è sempre temuta, ma di rado bene accolta. Ma poi arriva il settimo giorno, il Sabato, col suo carico di felicità che incanta l’anima, che i insinua nei nostri pensieri con vivificante attrazione. E un giorno in cui le ore non s’incalzano l’una con l’altra; è un giorno che riesce a lenire ogni tristezza.
Nessuno, neppure l’uomo incolto e rozzo, può restare insensibile alla sua bellezza. «Anche l’uomo incolto sente il timore reverenziale di questo giorno»[31]. I vecchi rabbini credevano virtualmente impossibile dire una bugia nel sacro giorno del Sabato.
Che cosa significa la parola «Sabato»? Secondo taluni è il nome del Santo[32]. Poiché la parola Shabbath è un nome di Dio, essa non dovrebbe essere pronunciata in luoghi impuri, là dove non possono essere proferite le parole della Torà. Taluni furono attenti a non nominarla invano[33].
Il settimo giorno è come un palazzo nel tempo con un regno per tutti. Non è una data ma un’atmosfera.
Non è un diverso livello di coscienza ma un clima diverso; è come se in qualche modo fosse cambiato l’aspetto di tutte le cose. La prima consapevolezza è il sentirci nel Sabato più che sentire il Sabato in noi. Possiamo anche non sapere se il nostro giudizio è corretto o se i nostri sentimenti sono nobili, ma l’aria di questo giorno ci circonda come la primavera, che si diffonde sulla terra senza il nostro aiuto o la nostra consapevolezza.
«Com’è meravigliosa la Festa delle Capanne! Quando dimoriamo nella Capanna, anche il nostro corpo si sente circondato dalla santità della Mizvà, disse una volta un rabbino a un suo amico. Al che questi osservò: «Il Giorno del Sabato è ancora più di questo. Durante la
Festa tu puoi anche lasciare per un momento la Capanna; il Sabato invece ti circonda ovunque tu vada».
La differenza tra il Sabato e gli altri giorni non si può riscontrare nella struttura fisica delle cose, nella loro dimensione spaziale: le cose non cambiano in quel giorno. Vi è soltanto una differenza nella dimensione del tempo, nel rapporto dell’universo con Dio. Il Sabato precedette la creazione e il Sabato completò la creazione: esso è il massimo di spirito che il mondo possa portare.
Il Sabato nobilita l’anima e rende saggio il corpo. Un esempio servirà a chiarire questo fatto.
Una volta un rabbino fu murato dai suoi persecutori in una caverna, dove nessun raggio di luce poteva giungere fino a lui a rivelargli quando fosse giorno e quando notte. Nulla lo tormentava quanto il pensiero di essere impedito di celebrare il Sabato con il canto e la preghiera, come era abituato a fare sin dalla giovinezza. Inoltre un desiderio quasi incontenibile di fumare lo fece molto soffrire. Si tormentava e si rimproverava per non esser capace di dominare questa passione, quando tutt’a un tratto si accorse che questa era sparita; una voce interna gli disse: «Ora è venerdì sera! Questa infatti è sempre stata l’ora in cui regolarmente mi abbandonava il desiderio di ciò che è proibito di Sabato». Gioiosamente egli si alzò e ringraziò Dio a voce alta e benedisse il giorno del Sabato. Così continuò da una settimana all’altra: il suo insistente bisogno di fumare scompariva regolarmente all’arrivo del Sabato[34].
Il Sabato è una delle più alte ricompense della vita, una fonte di forza e di ispirazione per sopportare gli affanni, per vivere nobilmente. Il lavoro dei giorni feriali e il riposo del settimo giorno sono tra loro correlati. Il Sabato è l’ispiratore, gli altri giorni sono da esso ispirati.
Le parole: «Il settimo giorno Dio terminò la Sua opera» (Gen. 2, 2) sembrano un enigma. Non è forse scritto: «Egli si riposò il settimo giorno», e: «In sei giorni il Signore creò il cielo e la terra» (Es. 20, 11)? Noi ci saremmo certamente aspettati che la Bibbia dicesse che Dio terminò la Sua opera il sesto giorno. Gli antichi rabbini ne conclusero che ovviamente vi fu un atto di creazione al settimo giorno: il cielo e la terra furono creati in sei giorni, la menuchà fu creata di Sabato. «Dopo i sei giorni della creazione, che cosa mancava ancora nell’universo? La menuchà. Venne il Sabato, venne la menuchà, e l’universo fu completo».[35]
Menuchà, che generalmente si traduce con «riposo», qui ha significato più ampio che astensione dal lavoro e dallo sforzo, libertà dalla fatica, dalla tensione o da attività di qualsiasi tipo. Menuchà non è un concetto negativo ma qualcosa di reale e di intrinsecamente positivo. Questo deve essere stato il punto di vista degli antichi rabbini se credettero che ci volle un atto di creazione particolare perché esistesse la menuchà, senza la quale l’universo non sarebbe stato completo.
«Che cosa è stato creato il settimo giorno? La tranquillità, la serenità, la pace e il riposo»[36]. Nello spirito biblico menuchà è sinonimo di felicità[37] e silenzio, di pace e armonia. La parola di cui si servì Giobbe per descrivere lo stato che egli avrebbe desiderato dopo la vita deriva dalla medesima radice di menuchà: è lo stato in cui l’uomo giace tranquillo, in cui i malvagi cessano di far soffrire e gli stanchi possono riposare[38]. E lo stato in cui non vi è contesa né lotta, né paura né diffidenza. L’essenza di una vita retta è menuchà: «Il Signore è il mio pastore, io mm mancherò di nulla. Egli mi fa riposare sui verdi pascoli. Egli mi conduce in riva alle acque tranquille» (le acque di menuchoth[39]) Più tardi, menuchà divenne sinonimo della vita nel mondo futuro, della vita eterna.[40]
Per sei sere della settimana noi preghiamo: «Proteggi la nostra uscita e la nostra entrata»; il venerdì sera[41] invece noi preghiamo: «Accoglici sotto la tenda della Tua pace». Tornando dalla sinagoga, intoniamo il canto:
«La pace sia con voi,
Angeli della Pace».[42]
Il settimo giorno canta. Un’antica allegoria racconta:
«Quando Adamo vide la maestà del Sabato, la sua grandezza e la sua gloria, e la gioia che conferiva a tutti gli esseri, intonò un canto di lode come per esprimere gratitudine al giorno del Sabato. Allora Dio gli disse: Tu elevi un canto di lode al giorno del Sabato, e non canti per Me, il Dio del Sabato? Allora il Sabato si alzò dal suo seggio e si prosternò davanti a Dio, dicendo: E cosa buona esprimere gratitudine al Signore. E tutto il creato aggiunse: E cantare lode al Tuo Nome, o Altissimo».[43]
«Gli angeli hanno sei ali, una per ogni giorno della settimana, con cui cantano la loro lode; ma essi rimangono silenziosi il Sabato, poiché è il Sabato stesso che eleva un inno a Dio».[44] Il Sabato ispira tutte le creature a inneggiare al Signore.
Così dice la liturgia per il mattino del Sabato:
«A Dio che riposò da ogni atto il settimo giorno e ascese sul Suo trono di gloria.
Egli ha rivestito di bellezza il giorno del riposo;
Egli ha chiamato il Sabato una delizia.
Questo è il canto e la lode del settimo giorno, in cui Dio si riposò dalla Sua opera.
Il settimo giorno è di per sé un’espressione di lode.
Un canto del giorno di Sabato:
«E giusto esprimere gratitudine al Signore!
Perciò, tutte le creature di Dio Lo benedicono».
Il Sabato insegna a tutti gli esseri chi bisogna lodare.
[1] Cfr. A.J. HESCHEL, L’uomo non solo, trad. it. Rusconi, Milano 1970. p. 206.
[2] Secondo Bertrand Russell il tempo è «una caratteristica poco rilevante e superficiale della realtà… Una certa emancipazione dalla schiavitù del tempo e essenziale per il pensiero filosofico… Riconoscere l’irrilevanza del tempo apre la porta al sapere» (Our Knowledge of the External World, New York 1929, pp. 166-167).
[3] «Il tempo è un male, una malattia mortale, che provoca una fatale nostalgia. Il suo trascorrere induce il cuore dell’uomo alla disperazione, e rende il suo sguardo colmo di tristezza» (N. BERDYAEV, Solitude and Society).
[4] Cfr. anche A.J. HESCHEL, The Earth is the Lord’s, New York 1950, pp. 13 ss.
[5] È questo uno degli aspetti che differenziano l’esperienza religiosa da quella estetica.
[6] Maimonide, Mishnè Torà, Teshuvà, 1, 3, sulla base di Mishnà Joma, 8, 8. Un concetto più radicale si trova in Sifra, 23-27, e in Shevuoth, 13a (traduzione di Soncino): «Potei pensare che il Giorno dell’Espiazione non servisse l’espiazione senza digiuno e lo chiamai una convocazione sacra (includendo nelle preghiere di quel giorno: Sii benedetto, o Signore… che hai santificato Israele e il Giorno dell’Espiazione; e indossando abiti da te, per dimostrare che questo Giorno è stato accettato come un giorno sacro; si veda Tosafoth Keritoth, 7) e quindi mi astenni dal lavoro. Ma se l’uomo non digiunasse e non lo considerasse una convocazione sacra e lavorasse come potremmo dedurre [che questo Giorno espii per lui]? La Scrittura dice: “E un Giorno d’Espiazione – e in ogni caso espia”». Tuttavia, l’opinione che questo Giorno espii anche per coloro che non si pentono, ma peccano effettivamente nel Giorno stesso, non è condivisa dalla maggior parte delle fonti. Si confronti anche l’opinione di Rabbi, Joma, 85b. Interessante è la concezione di Rabbi José sui tempi particolari, Sanhedrin, 102a. Cfr. anche Tanchuma su Gen. 49, 28. Cfr. anche i pareri espressi da Rabbi Jochanan in Ta’anith, 29a e da Rabbi José in Erachin, 11b. Inoltre: PEDERSEN, Israel I-II; E. PANOFSKY, Studies in Iconology.
[7] Gen. 2, 3 . «Ricorda il giorno del Sabato per santificarlo… poiché in sei giorni il Signore creò il cielo e la terra… Il Signore benedisse il giorno del Sabato e lo fece santo» (Es. 20, 8-11). Nei Dieci Comandamenti, il termine santo viene applicato a una parola sola, al Sabato.
[8] Cfr. Tanchuma, Es. 34, 1 (31); Seder ‘Olam Rabbà, c. 6. Rashi su Es. 31, 18; cfr. anche Nachmanide su Lev. 8, 2. La santità del tempo sarebbe stata sufficiente per il mondo; ma la santità dello spazio era un compromesso necessario, data la natura dell’uomo. La costruzione di un tabernacolo non venne ordinata nel Decalogo; essa fu iniziata per corrispondere a una diretta richiesta che il popolo rivolgeva a Dio: «O Signore dell’universo! I re delle nazioni posseggono palazzi dove siedono a tavola, hanno candelabri e altre insegne regali che li fanno riconoscere come tali. Non vuoi anche tu, nostro Re, nostro Liberatore e nostro Sostenitore, adoperare insegne regali affinché tutti gli abitanti del la terra possano riconoscere in te il loro Re?» (Midrash Aggadà, 27, 1; LOUIS GINZBERG, The Legends of the Jews, Filadelfia 1911, III, pp. 148 ss.).
[9] Num. 7, 1.
[10] Ogni rivoluzione della luna costituisce un mese lunare, e comprende all’incirca ventinove giorni e dodici ore.
[11] Il settimo giorno babilonese veniva osservato ogni settimo giorno mese lunare (cfr. J. BARTH, The Jewish Sabbath and the Babylonians, «The American Israelite», 20 novembre 1902; H. WEBSTER, Rest Days, New York 1916, pp. 253 ss.).
[12] Filone, De specialibus legibus, Il, 60 (Loeb Classics. Philo. VII).
[13] Ethica Nicomachea, X, 6.
[14] Rabbi Solomo Alkabez, Lechà Dodi.
[15] Dal servizio serotino del Sabato.
[16] Zohar, I, 75.
[17] HENRY OSBORNE TAYLOR, The Medieval Mind, Londra 1922, I, pp. 588 ss.
[18] Mekiltà su 31, 13.
[19] Gen. Rabbà 19, 3.
[20] A eccezione della proibizione dell’idolatria, dell’adulterio e dell’assassinio.
[21] I precetti (N.d.T).
[22] Otzar ha-Gheonim, Joma, pp. 30, 32.
[23] «Duas tantum res anxius optat, panem et circenses» (Giovenale, Satire, X, 80).
[24] Dalla preghiera pomeridiana del Sabato.
[25] Is. 58, 13. «Chi diminuisce la gioia del Sabato, è come se defraudasse la Shechinà poiché la giornata di Sabato è l’unica figlia di Dio» (Tikkunè Zohar, 21, Mantova 1558, 59b).
[26] Deut. Rabbà, 3, I; cfr. Midrash Tehillim, ed. Buber, c. 90.
[27] Cfr. Toledoth Ja ‘akov Josef, Koretz 1760, p. 203c.
[28] Perciò recitiamo nel giorno di Sabato: «Si rallegri il cielo e si rallegri la terra» (Sal. 96, 11). «Il cielo è il simbolo del mondo futuro, del mondo delle anime, mentre la terra simboleggia questo mondo che è terrestre e mortale» (Al Nakawa, Menorath ha-Maor, ed. Enelow, II, 182).
[29] Shibbolè ha-Leketh, c. 126.
[30] Dalla preghiera pomeridiana del Sabato.
[31] Jer. Demai II, 23d.
[32] Zohar, 88b cfr. 128a.
[33] Rabbi Zvi Elimelech di Dynow, Bnè Issachar, Shabbath, 1.
[34] B. AUERBACH, Poet and Merchant, New York 1877, p. 27.
[35] Citato come Midrash da Rashi su Megillà, 9a; su Gen. 2, 2; Tosafòth Sanhedrin, 38a. Secondo il filosofo ebraico ellenistico Aristobolo, nel settimo giorno è stata creata la luce che permette di vedere tutte le cose, cioè la luce della saggezza (cfr. Eusebio, Preparatio Evangelica, ed. Gifford, I. XIII, e. 12, 667a).
[36] Gen. Rabbà, 10, 9.
[37] Deut. 12, 9; cfr. 1 Re, 8,56; Sal. 95, 11; Rut, 1, 19.
[38] Giob. 3, 13-17; cfr. 14, 13 ss.
[39] Sal. 23, 1-2.
[40] Shabbath, 152b; cfr. anche Kuzari, V, 10; Jalkuth Reubeni, Amsterdam 1700, 174a, e la preghiera El male rachamim.
[41] All’inizio del Sabato (N.d.T.).
[42] Cfr. Shabbath, 11 9b.
[43] WERTHEIMER, Batei Midrashoth, Gerusalemme 1950, p. 27; cfr. L. GINZBERG, The Legends of the Jews, Cit., I, 85; V, 110.
[44] Or Zarua, II, 18c. Cfr. l’emendamento suggerito da L. GINZBERG, The Legends of the Jews, cit., V, 101; Geonica, lI, 48. Si confronti anche la bellissima leggenda in Jalkuth Shimoni, Tehillim, 843.