Lezione per Amicizia Ebraico-Cristiana – 13/2
Fra il VII e l’VIII secolo i musulmani d’Arabia subentrarono all’impero romano bizantino e all’impero sassanide in tutto il vicino ed il medio oriente. Il contatto fra mondo ebraico e mondo islamico diede luogo a numerosi fenomeni di imitazione, che caratterizzarono tutto il medioevo ebraico[1]. Gli ebrei cercarono tuttavia di salvaguardare la propria alterità religiosa e linguistica. Ad esempio ogniqualvolta nei testi arabi veniva citato un verso coranico, cercavano il loro equivalente nella Bibbia ebraica[2].
L’influsso del pensiero musulmano su quello rabbinico produrrà, a partire dal IX secolo un movimento filosofico che proseguirà per tutto il medioevo, facendo sentire il suo influsso sino ai tempi moderni[3].
Gli ebrei nel mondo islamico, nei primi secoli del medioevo, non hanno mai vissuto separati, visto che la loro religione era tollerata, trattandosi di un “popolo del libro”, ma anzi hanno contribuito attivamente al movimento delle idee e agli scambi culturali[4]. Le pressioni politiche portarono però numerosi appartenenti a religioni preislamiche ad abbracciare l’islamismo, e per questo si cercò di soddisfare le nuove esigenze religiose [5]. Le religioni preesistenti infatti, per confrontarsi con l’Islam, si cimentarono in tentativi di sistematizzazione, che rendessero le proprie dottrine attraenti agli occhi dei fedeli, e il medesimo fenomeno avvenne nello stesso mondo islamico e giudaico[6]. In area islamica nasce quindi il kalam, in un primo momento quello muhtazilita[7], e successivamente quello asharita. Sorse anche un kalam ebraico, fra i caraiti, i rabbaniti ed i samaritani, volto a difendere le dottrine religiose ebraiche. L’unico punto nel quale il kalam ebraico si distanzia da quello islamico è la mancata accettazione della dottrina dell’atomismo[8]. Pur accogliendo i principi generali del kalam islamico, i pensatori ebrei affrontarono un compito ben più arduo, perché dovevano confrontarsi con un corpus di dottrine frutto di numerosi secoli di sviluppo, e già irrigidito nelle proprie strutture fondamentali. Altra particolarità dei mutakalimun ebrei è quella di inserire le proprie dottrine non in opere sistematiche, ma all’interno di commenti biblici. Gli aspetti principali di questi commenti sono quelli di prediligere un’esegesi razionale, basata sulla filologia, sul contesto storico e sulla ragione, la traduzione del testo biblico in arabo, la tendenza a dilungarsi su alcuni aspetti in particolare, come la creatio ex nihilo, oltre ad approfondire i temi cari ai muhtaziliti, come quello dell’unità e della giustizia divina. La teologia razionale non aveva preso piede precedentemente nel mondo ebraico, con l’eccezione di Filone Alessandrino, i cui commenti non ebbero però un’influenza significativa nel mondo ebraico[9].
In questo clima culturale e religioso si sviluppò lo scisma dei Caraiti. La setta dei Caraiti[10], detti anche Qaraim o Benè miqrà, si costituì intorno al IX secolo, e fu così denominata perché accettava unicamente la tradizione scritta biblica, rigettando integralmente la tradizione orale talmudica, conferendo una superiorità alla ragione rispetto alla tradizione. La polemica in realtà non era nuova, perché già il movimento cristiano aveva mosso accuse simili ai farisei, con la differenza che, mentre il cristianesimo si era staccato dalla religione materna, uscendo così dalla storia del pensiero giudaico, il caraismo non diede luogo ad una nuova fede, ma si proclamò unico depositario della vera rivelazione[11]. La leggenda vuole che la setta fu fondata nel 765, quando Anan ben David la fondò per sostenere la propria candidatura alla carica di esilarca[12]. Due dei principali esponenti del kalam ebraico del X sec., Abu Yusuf Yaqub al Qirqisani e Yefet ben Eli, erano caraiti. Il primo fu autore di opere legali ed esegetiche; il secondo è ricordato anche per aver composto un Libro dei precetti.
La critica alla tradizione orale, e la ricerca di abbracciare unicamente la tradizione scritta, diede l’impulso, anche in ambito rabbanita, ad approfondire gli studi biblici, per difendersi dagli attacchi dei Caraiti. In questo periodo fiorì anche l’attività dei masoreti, preoccupati di fissare accuratamente il testo biblico.
L’opera dei Caraiti segnò profondamente il pensiero di Rav Sa’adiah Gaon, che si confrontò continuamente con le loro dottrine, in difesa della tradizione rabbinica. Non tutti i testi polemici di Sa’adiah sono giunti sino a noi.
Certamente la figura di Sa’adiah ben Yosef al-Fayyumi, noto come Rav Sa’adiah Gaon (Rasag)[13] è una delle figure più importanti e dirompenti all’interno del panorama del pensiero ebraico nei secoli, perché visse e costruì un momento di passaggio fondamentale, quello da una cultura prevalentemente orale ad una cultura prevalentemente scritta. I principali testi della tradizione rabbinica, come la Mishnah, hanno infatti bene impressi i tratti stilistici propri di una cultura orale, e si avvalgono di una serie di espedienti per favorirne e facilitarne la memorizzazione. Tante testimonianze nel Talmud ci suggeriscono che la trasmissione orale della Mishnah sia proseguita anche nei secoli successivi la fissazione del testo da parte di R. Yehudah ha-nasì. Possiamo dire lo stesso del Talmud, il cui testo è stato sì fissato, ma che nelle sue modalità di trasmissione richiama nuovamente le strutture proprie di una cultura orale. In un certo senso il popolo ebraico è il “popolo del libro” perché l’unico libro che risponda alla nostra definizione del termine è il Tanakh. Tutti gli altri testi della tradizione ebraica non sono propriamente dei libri, almeno secondo la nostra accezione del termine.
L’altra caratteristica fondamentale della tradizione rabbinica classica è che, sino a questo momento, è costituita da opere collettive. Nella tradizione rabbinica Rav Sa’adiah Gaon è il primo autore che possiamo distinguere in modo definito. Cosa lo ha portato ad intraprendere questa strada, in aperta rottura con la tradizione precedente? Se il sistema precedente funzionava, perché cambiarlo? Un elemento importante per rispondere deriva da un’acquisizione tecnica molto importante, che ha investito con forza il mondo arabo, la diffusione della carta, molto più maneggevole ed economica rispetto ai supporti utilizzati in precedenza.
Inoltre bisogna tenere in considerazione più in generale il rapporto di Sa’adiah con la cultura araba e le sue modalità di trasmissione del sapere, sempre più dipendente dai testi scritti, sebbene che, anche all’interno di quel mondo, l’oralità mantenga una sua importanza.
La scrittura nel mondo ebraico riveste una funzione ancora più importante, perché il numero di persone in grado di leggere era percentualmente molto più alto di quello del mondo islamico e ancor di più di quello del mondo cristiano.
Una differenza da tenere in considerazione, per spiegare perché il kalam ebraico sia nato proprio in oriente, è che nel mondo islamico gli ebrei erano solamente una delle minoranze fra molte, e non vi era l’accusa di deicidio, che influenzò pesantemente la vita degli ebrei in Europa.
Sa’adiah Gaon, o nel suo nome arabo Sa’id ben Yosef al Fayyumi, nacque, probabilmente nel 882, nell’Egitto settentrionale, nei pressi di Al-Fayium, pochi anni dopo la morte di al-Kindi. Non abbiamo molte informazioni sulle comunità in Egitto, così come sappiamo poco dell’infanzia di Sa’adiah, se non che ricevette una solida formazione religiosa, unita ad una profonda cultura profana[14]. Sa’adiah nel Sefer ha-galui, la sua principale opera polemica,scrive di discendere da Chaninà ben Dossà, e per questo chiamerà suo figlio Dossà. Sulla sapienza del padre i caraiti, che lo consideravano una persona di modesta cultura, si trovano in disaccordo con Rav Shrirà Gaon[15], che lo chiama invece Rav Yosef[16]. Molto giovane probabilmente entrò in contatto con il filosofo neoplatonico Ytzchaq Israeli, che tuttavia non influenzò significativamente il suo pensiero. Nel 902 iniziarono a circolare le sue prime opere linguistiche e polemiche. Secondo molti studiosi nel 915, trentatreenne, abbandonò la terra natia, nella quale non sarebbe più tornato, assieme al padre[17], recandosi in Israele, Siria e Iraq. Le cause del suo abbandono non sono note: secondo alcuni fu per via di contrasti con il governo, o con la comunità ebraica locale; è possibile anche che Sa’adiah volesse andare a vivere in un centro ebraico influente, per proporsi come guida[18]. A Tiberiade avrà modo di incontrare i maestri della Masorah, che influenzeranno significativamente le sue concezioni linguistiche. In quegli anni approfondirà anche lo studio della poesia. Nel 921 giunse in Babilonia. Appena arrivato, si trovò coinvolto in una discussione con un Gaon di Yerushalaim, R. Aharon ben Meir, sulla fissazione del calendario. La posta in gioco era molto alta, perché sia Israele che la Babilonia volevano vantare il diritto esclusivo di stabilire le date delle festività. La presenza di Sa’adiah fra i babilonesi fu determinante per avere la meglio, e, per celebrare la vittoria e lasciarne memoria, Sa’adiah compose due opere, di cui una divisa in versi, secondo lo stile dei libri biblici, che venne persino letta in pubblico. Nel 928 viene nominato gaon[19] di Sura, incarico al quale aveva aspirato per tutta la vita, convinto che quello fosse il suo destino[20]. In quegli anni la scuola non passava un buon momento, perché molti studenti l’avevano abbandonata per l’accademia di Pumpedita[21]. Molti di loro in seguito alla nomina di Sa’adiah fecero ritorno. Una volta nominato, cercò di stabilire dei contatti con le altre comunità della diaspora, in particolare quelle spagnole ed egiziane, per ottenere sostegno per la scuola[22]. Subì numerosi attacchi da parte di colleghi e autorità locali, tanto che fu deposto, e successivamente, nel 936, reintegrato. Questo gli permise di dedicarsi a tempo pieno agli studi per cinque anni. In questo periodo Sa’adiah comporrà il suo principale lavoro filosofico, il Sefer emunot wede’ot, terminato nel 933. Morì nel 942 a Baghdad.
Rav Sa’adiah comprese che la scrittura poteva conferire nuovamente forza alla Yeshivah di Baghdad, perché questa innovazione tecnica su larga scala proiettava il mondo in una nuova era, perché permetteva di trasmettere i propri insegnamenti a migliaia di chilometri, e pertanto, per continuare ad esercitare la propria influenza sul mondo ebraico, era indispensabile un cambiamento radicale di mentalità. Rav Sa’adiah fu un “poligrafo instancabile[23]”.
L’opera di Sa’adiah è stata apprezzata a pieno solamente negli ultimi decenni, perché gli studi su questo autore si sono intensificati e la reale portata del suo apporto alla storia della letteratura e del pensiero ebraici sono venuti alla luce. Esercitò una grande influenza sull’ebraismo dei secoli successivi, in modo particolare sugli studiosi arabofoni, e su quelli che potevano leggere i suoi scritti per mezzo di un intermediario[24], almeno sino a quando non iniziò la grande opera di traduzione in ebraico, avviata dai Tibbonidi, delle opere di autori ebrei che scrivevano in lingua araba, paragonabile a quella che consentì il passaggio dal greco all’arabo delle grandi opere filosofiche dell’antichità[25]. Certamente fra le decine di autori del periodo dei Gheonim, Sa’adiah è quello che ha esercitato l’influenza più marcata, perché gli autori successivi, pur non condividendone il pensiero, sentono la necessità di confrontarsi con lui.
Ci troviamo di fronte ad un personaggio eccezionale, perché a capacità intellettuali fuori dalla norma, univa una spiccata propensione alla gestione del potere. Era dotato della tempra del vero combattente[26]. In particolare viene ricordato per la sua schiettezza, che lo portava ad esprimere in maniera chiara la propria opinione. Questo suo carattere, che lo portava a non avere paura di nessuno, anche per via della sua enorme sapienza, non lo favorì di certo nell’accademia di Sura. Le sue opere sono caratterizzate da lunghe liste di opinioni che non condivide. Ad esempio C. Sirat conta complessivamente 18 opinioni confutate (di cui 12 nel primo libro del Sefer Emunot wede’ot), derivanti in parte da raccolte dossografiche, circa la creazione del mondo[27]. In generale Sa’adiah nelle sue opere si mostra più critico nei confronti della cristianità che dell’Islam, forse anche per il debito che aveva nei confronti del pensiero dei mutakalimun.[28]
Rav Sa’adiah Gaon, pur non essendo il primo ad esprimersi in tutti i campi in cui si cimentò, fece scuola, tanto che la sua eclettica opera costituisce un riferimento indispensabile per chi viene dopo di lui e intende affrontare i medesimi temi. Parlando di lui, si usa riportare un espressione del commentatore Avraham ibn ‘Ezrà, che lo definisce come “colui che ha parlato per primo in tutti gli ambiti[29]”.
Probabilmente l’ambito in cui l’influenza di Rav Sa’adiah fu più consistente fu quello della traduzione e del commento del testo biblico. La sua traduzione nasce in competizione con quella del caraita Yefet ben Eli[30]. Gli studiosi sono in disaccordo circa il periodo in cui Sa’adiah intraprese la sua traduzione: secondo alcuni già in Egitto, per altri a Tiberiade, secondo altri giunto in Babilonia.
Rav Sa’adiah tradusse in arabo[31] e commentò solo alcuni testi: tradusse tutta la Torah (la sua traduzione prende il nome di tafsir, “spiegazione” o “interpretazione[32]”), e commentò la prima parte del libro di Bereshit, sembra tutto Shemot e tutto Vaiqrà. Non è chiaro se ha commentato i libri Bemidbar e Devarim. Ha tradotto e commentato i libri di Yiov, Mishlè, Tehillim, Daniel, Yesha’iahu e quattro delle cinque Meghillot (escluso Qohelet[33]).
Sebbene Rav Sa’adiah non sia stato il primo ad effettuare traduzioni del testo biblico in arabo, possiamo dire che è il primo ad aver elaborato una traduzione araba letteraria, tanto da eclissare tutti i lavori precedenti ed affiancare idealmente questo lavoro alla traduzione aramaica della Torah di Onqelos. Il Malter[34] ritiene che l’impatto esercitato da questo lavoro sia paragonabile a quello della Septuaginta o a quello della traduzione tedesca di Mendelssohn. In questa traduzione Rav Sa’adiah aggiunge e omette termini, divide i versi in maniera differente, inserisce del materiale midrashico, tradizionale o originale. Dopo Sa’adiah, sino ad oggi, questo genere letterario avrebbe avuto una fortuna enorme, ma Sa’adiah, mantenendosi in un contesto tradizionale e utilizzando molto materiale preesistente, lo inaugura secondo nuove modalità. In questo modo Rav Sa’adiah “ripensa” l’uso del testo biblico nel contesto sinagogale.
Come spiegherà in vari passi, fra cui l’introduzione alla sua traduzione, secondo Sa’adiah la conoscenza umana deriva da tre fonti fondamentali: la ragione, le Scritture e la tradizione[35].
Il professor Joshua Blau, uno dei maggiori studiosi del giudeo arabo, considera la traduzione di Sa’adiah “il più influente lavoro giudeo-arabo medievale[36]”. Rabbì Avraham ibn ‘Ezrà testimonia di aver visto la traduzione di Rav Sa’adiah scritta in caratteri ebraici. Il professor Blau ritiene che vi fossero due versioni della traduzione, una in caratteri ebraici per il pubblico ebraico, e l’altra in arabo, destinata al grande pubblico, che fra l’altro venne adottata anche fuori dal mondo ebraico, fra i copti ed i samaritani.
Sotto molti aspetti è possibile quindi dire che Rav Sa’adiah sia il primo commentatore della Torah. Prima di lui abbiamo abbondante materiale midrashico, dalla natura sensibilmente differente. Per la prima volta in ambito ebraico, Sa’adiah Gaon fornisce una spiegazione razionale del testo biblico[37]. Questo emerge in modo particolare nelle sue introduzioni ai libri biblici, nelle quali Sa’adiah si interroga sull’identità degli autori, l’epoca di composizione e lo scopo del libro. E’ importante ricordare che, sebbene le miqraot ghedolot, escludendo le traduzioni aramaiche del testo biblico, contengano commenti di autori sefarditi e ashkenaziti, questo genere letterario sia nato non nell’occidente cristiano, ma nell’oriente islamico[38].
Sa’adiah in generale si oppone alla lettura allegorica del testo biblico. Non è possibile infatti spogliare il testo del proprio senso letterale. In questo approccio vi era certamente un intento polemico nei confronti dei cristiani, che in questo modo avevano minato alle fondamenta l’edificio del giudaismo rabbinico[39]. Inoltre in questo modo Sa’adiah intendeva confrontarsi, in difesa delle interpretazioni tradizionali, con i caraiti e gli arabi[40].
Nel campo del pensiero, sebbene non sia considerato dagli studiosi un vero e proprio filosofo, quanto piuttosto un esponente del kalam ebraico, con posizioni molto vicine a quelle dei muhtaziliti, l’opera più conosciuta di Sa’adiah è certamente il Sefer emunot wede’ot (Kitab al-amanat wa’l-i’tiqadat, il libro delle credenze e delle opinioni), che riproduce, già a partire dalla sua disposizione, l’organizzazione delle dottrine dei muhtaziliti. Gran parte dell’opera infatti è destinata ad affrontare i temi dell’unità e la giustizia divina, molto cari ai muhtaziliti, che si autodefinivano ahl al-tawhid wa’l-’adl (il popolo della divina unità e giustizia). Il testo fu tradotto in ebraico nel 1186. Il titolo dell’opera è significativo, perché accosta le credenze ebraiche tradizionali alle opinioni dei filosofi in senso aristotelico[41], cercando di dimostrare che i principi dell’ebraismo sono in accordo con la ragione. Molti studiosi non lo considerano un vero e proprio testo di filosofia. E’ significativo tuttavia che Rambam scrisse il suo principale testo filosofico, il Moreh Nevukhim, perché in disaccordo con Rav Sa’adiah praticamente su ciascun punto affrontato nella sua opera, segno del fatto che non poteva affrontare questi temi senza confrontarsi con questo autore.
Molte delle idee di Sa’adiah in ambito filosofico derivano da un testo, all’epoca molto diffuso, l’Enciclopedia degli Ikhwan as-safa – Fratelli della purità[42] e dal kalam muhtazilita, che verrà criticato aspramente da Rambam nell’ultima parte del primo libro del Moreh Nevukhim[43]. La critica di Rambam, che colpisce anche Sa’adiah Gaon, si riferisce in particolare al rapporto che sussiste fra ragione e rivelazione. Infatti il sistema dei muhtaziliti e di Sa’adiah, pur presentandosi come razionale, usa il ragionamento mettendolo al servizio di idee prestabilite, e si basa quindi su uno pseudo-ragionamento. Quanto Sa’adiah sostiene, che la verità della tradizione si basa sulla conoscenza derivante dalla percezione sensoriale e dalla ragione, non è dimostrato nelle sue opere.
Per la prima volta[44] nel Sefer Emunot wede’ot l’ebraismo viene visto dall’esterno, fornendo una serie di definizioni, individuabili anche nel Talmud, ma con modalità totalmente differenti, perché per lo più basate sul pensiero associativo.
Rav Sa’adiah scrisse anche un commento al Sefer Yetzirah. Tradizionalmente questo enigmatico testo è attribuito al patriarca Avraham. Contrariamente all’idea dominante, Rav Sa’adiah riteneva che si trattasse di un’opera “filosofica”, e non mistica.
Nel campo della liturgia Rav Sa’adiah compose un siddur, molto diverso da quello degli altri gheonim. Si tratta di un testo di studio, più che di preghiera, che modifica in modo significativo la struttura della tefillah, molto diversa da quella che oggi conosciamo. Fra gli altri, questo lavoro, doveva perseguire anche un intento polemico nei confronti dei caraiti, che sostenevano che nei formulari dovessero essere presenti solo testi tratti dal Tanakh[45].
Rav Sa’adiah fu anche poeta e grammatico. Molto giovane, scrisse il primo lessico ebraico ad oggi superstite, il Sefer Agron (Libro del lessico).
Nella halakhah Rav Sa’adiah fu il primo autore a scrivere trattati halakhici, genere letterario che ebbe enorme successo. Questo sistema di codificazione della legge è profondamente differente da quello adottato dal Talmud, che procede per associazioni di idee, ma quasi da subito lo soppiantò, dando il la alla rivoluzione che il Rambam compirà scrivendo il Mishneh Torah, e seguendo l’impostazione di Sa’adiah.
[1] M. ZONTA, La filosofia ebraica. Storia e testi, Roma-Bari 2002, p. 10.
[2] M. R. HAYOUN, Filosofia e teologia ebraica, in Figure del Pensiero Medievale, vol. 4, Milano 2008, p. 193.
[3] E. BERTOLA, La filosofia ebraica, Milano 1947, p. 68.
[4] Vedi M. R. HAYOUN, La filosofia ebraica, Milano 2009, p. 21.
[5] M. ZONTA, cit., p. 11.
[6] M. ZONTA, cit., p. 12.
[7] Le cinque tesi principali (al-usul al-khamsa) che caratterizzano il pensiero dei muhtaziliti sono a) l’unità di D. b) la credenza nella giustizia divina; c) lo stato intermedio (un peccatore non è mai dannato in modo irreparabile; d) comandare il bene; e) bandire il male.
[8] M. ZONTA, cit., p. 14.
[9] AA.VV. Encyclopedia of the Bible and Its Reception 14, Berlin-Boston 2016, voce Kalam.
[10] I testi dei caraiti sono stati studiati e pubblicati dall’orientalista Julius Furst nel XIX sec. e da Leon Nemoy alcuni decenni fa.
[11] E. BERTOLA, cit., p. 77.
[12] M. ZONTA, cit., p. 11.
[13] Si consiglia di ascoltare la lezione (in lingua ebraica) del prof. N. Ilan dal titolo Rav Sa’adiah Gaon – demutò umishnatò, visualizzabile all’indirizzo internet https://www.youtube.com/watch?v=Rq_Mt0mwJng&t=31s, dalla quale sono tratte varie informazioni contenute in questo scritto. Sulla figura di Rav Sa’adiah Gaon si rimanda al classico H. MALTER, Saadia Gaon his life and works, Philadelphia 1921, che, pur essendo la più completa opera in inglese sul tema, presenta varie imprecisioni (ad esempio la data di nascita di Sa’adiah), come successivamente dimostrato in seguito ai ritrovamenti della Ghenizah del Cairo.
[14] M. R. HAYOUN, I filosofi ebrei nel medioevo, Milano 1994, p. 27.
[15] Sino al XIX sec. la lettera di Sherirà Gaon fu una delle principali fonti sulla vita di Sa’adiah.
[16] E. SCHLOSSBERG, Hanagatò umanigutò shel Rav Sa’adiah Gaon, Amadot 5, p. 214.
[17] Il padre di Sa’adiah Gaon morirà a Yaffo.
[18] E. SCHLOSSBERG, cit., p. 215.
[19] Sono detti gheonim i capi delle accademie babilonesi fra il VI e l’XI secolo.
[20] E. SCHLOSSBERG, cit., p. 213.
[21] Id.,p. 217.
[22] Id.,p. 218.
[23] M. ZONTA, cit., p. 26.
[24] E, VIEZEL, The rise and Fall of Jewish Philological Exegesis on the Bible in the Middle Ages: Causes and Effects, The Rewiew of Rabbinic Judaism 20 (2017), p. 58.
[25] M. R. HAYOUN 2008p. 193.
[26] C. SIRAT, La filosofia ebraica medievale, Brescia 1990, p. 40.
[27] Id., p. 44.
[28] D. J. LASKER, Saadya Gaon on Christianity and Islam, in The Jews of Medieval Islam, Community, Society & Identity (Ed. D. FRANK), Leiden – New York – Koln 1995, pp. 165-166. Il testo nel quale Sa’adiah Gaon si mostra maggiormente critico nei confronti dell’Islam è il commento al libro di Daniel. Le critiche al cristianesimo in particolare erano incentrate sulla natura della divinità (unità contro trinità), la redenzione messianica (se è avvenuta o meno) e lo status della legge a quei tempi (se la legge della Torah è ancora applicabile).
[29] La professoressa S. Stroumsa (The Cambridge Companion to Medieval Jewish Philosophy, p. 71) nota che l’espressione medaberim utilizzata da ibn ‘Ezrà può essere una traduzione letterale di mutakalimun.
[30] M. ZONTA, cit., p. 26.
[31] Sino a pochi anni fa fra gli studiosi circolava l’idea che Rav Sa’adiah sia stato il primo a tradurre il Tanakh in arabo, ma gli studi più recenti (in particolare di Y. Blau e S. Hopkins) hanno evidenziato che non è così. Questo dato non sminuisce però il valore dell’opera di Sa’adiah.
[32] D. M. FREIDENREICH, The use of islamic sources in Saadiah Gaon’s Tafsir of the Torah, The Jewish Quarterly rewiew, XCIII 3-4 (2003), p. 354.
[33] Rav Qapach riteneva di avere individuato il commento di Rav Sa’adiah al Qohelet, ma gli studiosi non sono di questo avviso. Nonostante ciò, visto che siamo in possesso del commento a quattro delle cinque Meghillot, si può presumere che esistesse anche un commento a Qohelet, andato perduto.
[34] H. MALTER, Saadia Gaon his life and works, Philadelphia 1921, p. 142.
[35] AA.VV., Encyclopedia of the Bible and Its Reception 14, cit.
[36] J. BLAU, Some Instances Reflecting the Influence of Saadya Gaon’s Bible Translation on Later Judeo-Arabic Writings,Occident and Orient: A Tribute to the Memory ofAlexander Scheiber, ed. R. Dan, Leiden, 1988, p. 21.
[37] E. SCHWEID, Hafilosofim ha-ghedolim shelanu, Tel Aviv 2007, p. 19.
[38] D. FRANK, Search scripture well. Karaite exegetes and the origins of the jewish Bible commentary in the islamic east, Leiden-Boston 2004, p. IX.
[39] M. R. HAYOUN, Filosofia e teologia ebraiche, cit., p. 195.
[40] E. SCHWEID, cit., p. 20.
[41] M. R. HAYOUN 2009, cit. p. 23.
[42] Ibid.
[43] Moreh Nevuchim I, 73-76.
[44] La professoressa S. Stroumsa in un lavoro di dottorato ha individuato un’opera, che esercitò però un’influenza infinitamente inferiore nei secoli successivi, che perseguiva i medesimi fini, ‘Ishrun maqalat di Daoud ibn Merwan al-Muqammis, un ebreo convertito al cristianesimo, e poi tornato all’ebraismo.
[45] E. SCHWEID, cit., pag. 20.