Descrivendo la festa di Rosh ha-shanah, la Torah si avvale di due epiteti estremamente diversi: nella parashah di Pinechas (Bemidbar 29,1) viene definito yom teru’ah (giorno del suono), mentre nella parashàh di Emor (Vaiqrà 23,24) zikhron teru’ah (ricordo del suono). La ghemarà (Rosh ha-shanah 29b) assume che la prima espressione si riferisca a quando Rosh ha-shanah cade in un giorno feriale, mentre il “ricordo del suono” si riferisce a quando Rosh ha-shanah cade di Shabbat e lo shofar non viene suonato.
La ghemarà conclude che l’astensione dal suono dello shofar di Shabbat non deriva da un precetto biblico, ma da un decreto di origine rabbinica, applicato anche ad altri oggetti destinati a compiere delle mitzwot, come il lulav e la meghillah. C’è il timore infatti che qualcuno possa trasportare uno shofar di Shabbat in una proprietà pubblica. La ghemarà non spiega a questo punto la scelta della Torah di usare due differenti espressioni. Cosa vogliono insegnarci? Rav Soloveitchik ha suggerito che la Toràh intende mettere in risalto due aspetti differenti nella mitzwah dello shofar. E’ evidente che il compimento della mitzwah avviene attraverso il suono dello shofar, ma questo da solo non è sufficiente: il completamento della mitzwah si verifica interiormente, attraverso un riconoscimento emotivo del messaggio di cui lo shofar è portatore. Nella mitzwah dello shofar pertanto sussistono due aspetti distinti e complementari, la pratica della mitzwah e il suo completamento. Nella maggior parte delle mitzwot questi due momenti non sono staccati. Quando mangiamo la matzah a Pesach contestualmente esauriamo la mitzwah, senza dover cercare un momento ulteriore.
Questo spiega una apparente contraddizione nel Mishneh Torah di Rambam. Nelle regole sul suono dello shofar (Hilkhot shofar 2,4) il Rambam infatti scrive che se non si ha un’intenzione appropriata, non si mette in pratica la mitzwah dello shofar. Nelle regole su chametz e matzah (6,3) il Rambam sembra dire l’esatto contrario: se una persona viene costretta a mangiare la matzah, sebbene non ne abbia alcuna intenzione, la sua azione è valida. Più in generale non sembra chiaro se secondo il Rambam l’intenzione sia un elemento imprescindibile nella pratica delle mitzwot. Rav Soloveitchik ritiene che i due insegnamenti siano compatibili fra di loro, riferendosi a due tipi differenti di precetti: per quelli in cui la pratica e il completamento della mitzwah si identificano, l’azione stessa parla da sé, e non è necessaria un’intenzione particolare; per lo shofar, che non costituisce un fine in sé, rimandando ad una dimensione ulteriore, quella dell’interiorizzazione, è necessaria un’intenzione particolare. Lo scopo della mitzwah è quello di pervenire al qyium shebalev, l’adempimento nel cuore. Questa espressione richiama la ‘avodah shebalev, il servizio del cuore, che è l’espressione che i chakhamim usano per designare la tefillah. Il Ba’al ha-maor sostiene che l’uso di suonare lo shofar a più tornate, come facciamo al giorno d’oggi, sia un’introduzione abbastanza recente. Originariamente si suonava unicamente durante la tefillah di musaf. Se è così però, quando si recitava la berakhah? Normalmente questa precede l’inizio della mitzwah, ma in questo caso i suoni sono “circondati” dalle berakhot della ‘amidah, e di certo non si poteva interrompere la preghiera per recitare la berakhah! Come facevano? Anche se strutturalmente non assomiglia alle berakhot delle mitzwot così come le conosciamo, la tefillah di musaf svolge questa funzione. Il servizio del cuore introduce l’adempimento nel cuore.
Già lo scorso anno ricordavamo i legami fra shofar e tefillah. Con la sua forma curva lo shofar richiama visivamente l’uomo in preghiera. La ghemarà (Rosh ha-shanah 26b) applica allo shofar il principio “en qategor na’aseh sanegor – un accusatore non può divenire un difensore”. Quando compiamo una mitzwah non possiamo avvalerci di qualcosa che richiami le nostre colpe. Per questo lo shofar non può derivare da una mucca, che rimanda al peccato del vitello d’oro. Obietta la ghemarà che applichiamo questo principio solamente per il qodesh ha-qodashim. Il Kohen gadol infatti non poteva introdursi nel Sancta sanctorum nel giorno di Kippur con i vestiti abituali (i cosiddetti “abiti d’oro”) perché questi avrebbero richiamato il peccato del vitello d’oro. Ma lo shofar non si suona nel Sancta sanctorum, dov’è allora il problema? Risponde la ghemarà, poiché lo shofar funge da zikkaron (ricordo), è da considerarsi come il Sancta sanctorum, e per questo il principio è applicabile. L’adempimento della mitzwah dello shofar ci rende simili al kohen gadol nel giorno di Kippur e per estensione possiamo dire lo stesso per la nostra tefillah, che è rivolta al qodesh ha-qodashim. Che H. possa ascoltare le nostre preghiere. Shanah tovah a tutti voi e ai vostri cari!