Con la festività di Rosh Hashanà inizia il periodo in cui tutte le azioni degli uomini vengono giudicate
Joseph Taché
Elul, giorno ventinovesimo: al calar del sole, il Re che, Unico e Sovrano, regna sui re siede magnifico sul Suo Trono di gloria per riunire il Suo Tribunale; alla sua destra, la misericordia, alla Sua sinistra, la giustizia. Ha inizio il nuovo anno; i libri della vita, si aprono dinanzi a Lui! L’udienza è aperta! Tanto severo quanto longanime e paziente, il Giudice Supremo fa passare sotto la sua verga, ad una ad una, tutte le creature, scrutando a fondo i sentimenti ed i pensieri di ognuna; incorruttibile ed assolutamente imparziale, soppesa ogni azione ed ogni intenzione: nulla sfugge al Suo sguardo penetrante!
Eppure, quando a Rosh Hashanà i suoi fedeli entrano nelle sinagoghe inondate di luce e rivestite dello splendore in cui fa spicco il bianco, essi non hanno affatto l’impressione di varcare l’austera aula di un tribunale; spesso, anzi, essi non sono nemmeno consci di essere sotto processo.
Dice il Signore per voce del profeta Isaia: “(…) Poiché i Miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie (ovvero il vostro procedere) sono le Mie vie.”
L’uomo sa di essere sottoposto al giudizio divino: la solennità di Rosh Hashanà gliene fa prendere atto.
“Suonate nel novilunio lo shofar” proclama il libro dei Salmi “nel giorno della nostra festa in cui (la luna) si nasconde, poiché è legge per Israel, (che sieda) in giudizio il D-o di Giacobbe.”
L’unica festa ebraica a coincidere con il primo giorno del mese (ovvero quando la luna è praticamente nascosta alla vita degli uomini), è Rosh Hashanà. Eppure, benché sia Rosh Hodesh, questo è l’unico capo mese in cui non si leggono i salmi dell’Hallel perché, sostengono i Maestri, non si addice all’uomo integro tessere l’elogio del Giudice durante il processo.
D’altra parte, contrariamente agli altri noviluni, quello di Tishrì non viene preannunciato lo Shabat anteriore perché la gravità del momento è tale che, aggiungono i Maestri, a benedire questo mese ci pensa l’Onnipotente in Persona.
Lungi dall’essere stata abbandonata a se stessa, l’umanità è stata seguita passo passo dal Creatore nel suo arduo cammino verso la civiltà; l’uomo è stato associato al processo creativo; ma ha spesso disatteso il volere divino scostandosi dalla Sua Legge.
Rosh Hashanà celebra la creazione dell’uomo, e per questi è il momento di rendere conto del proprio operato.
Perciò l’anniversario della Creazione è preceduto dalle “Selichot”, periodo di preparazione alla ricerca di “Colui che si fa trovare quando Lo si cerca”, e che si apre proprio con l’enigmatico suono dello Shofar; quello stesso Shofar che scuote le coscienze dei fedeli, risvegliandole dal loro torpore, e che echeggia, maestoso, nei giorni di Rosh Hashanà (ad eccezione del sabato), cosicché la Torà definisce questa solennità “Yom Teruà”, giorno dal suono strepitoso!
Il testo biblico parla di “giorno” al singolare: perché, allora, caso unico, si celebrano due giorni di Rosh Hashanà anche in Israele?
E’ noto che, nell’antichità, il Sinedrio, una volta avuta notizia dell’avvistamento della luna nuova da parte dei testimoni mandava dei messaggeri attraverso il paese affinché venisse fissato il calendario e quindi le festività; ma a volte, la comunicazione arrivava in ritardo, sicché si sentì la necessità di un giorno aggiuntivo onde evitare il rischio di profanare un giorno “consacrato”. In realtà, sostengono alcuni, il secondo giorno di festa fuori da Erez Israel, è un omaggio fatto alle comunità lontane per farle sentire più vicine alla terra dei Padri.
Ma Rosh Hashanà è un caso a parte; è il momento in cui vengono passate al vaglio le azioni e le intenzioni; “poiché Tu ricordi tutto ciò di cui ci si è dimenticati, né v’è dimenticanza alcuna dinanzi al Trono della Tua gloria.” Questo è il giorno della Giustizia! Ma, si affrettano a sottolineare i Maestri, della giustizia avvolta di misericordia, del rigore che si va pian piano attenuando fino ad arrivare al digiuno di Kippur definito “giorno della misericordia nella giustizia”.
Il profeta Isaia promette che il Signore spianerà la strada al Suo popolo sicché “ogni (via) ondulata diverrà piatta”.
Così, il primo giorno di Rosh Hashanà è consacrato alla rigidità che le suppliche dei fedeli, accompagnate dal suono dello shofar, ammorbidiscono, cosicché la durezza ne risulta addolcita nel secondo giorno per passar via via dalla severità all’indulgenza e quindi al perdono nel giorno di Kippur; sono dieci giorni in cui il popolo ebraico, certo della benevolenza divina, si pone nella doppia condizione di figlio e di schiavo: nella prima, invoca la naturale pietà del padre nei confronti del figlio; ma nel caso in cui Israel venisse relegato al rango di schiavo ecco, dicono i Saggi, “i nostri occhi sono rivolti a TE, finché non avrai avuto pietà di noi, ed avrai portato alla luce la nostra sentenza.”
Sebbene non chieda l’assoluzione, Israel spera perlomeno nella clemenza capace di revocare la condanna.
E la sua speranza viene rafforzata dai quattro tempi dello shofar: “Tekià”, “Shevarim”, “Teruà”, “Tekià”.
Con il suo suono dolce, la “Tekià” rappresenta la misericordia divina e fa sempre da cornice ai suoni centrali che, essendo spezzettati, simboleggiano il rigore della giustizia, a dimostrazione che la benevolenza accompagna l’uomo sia prima che dopo la colpa.
“Ho sentito” dice il poeta “che il Signore combatte contro il peccato”. D’altronde, sostengono i Saggi del Talmud, se l’uomo predisponesse il proprio cuore al Creatore con un’apertura non più larga della cruna di un ago, il Signore si affretterebbe a farne un varco allargandolo a dismisura…
E le note dello shofar dischiudono i cuori.
Analizzandone le fasi, il Rabbino Ieshaya Hurviz insegna:
Il primo suono dello shofar, la “Tekià”, è un suono lineare, letteralmente “diritto”, come a dire che il Signore benedetto che riempie il mondo con la Sua bontà, ha creato l’uomo “retto”;
Il secondo, “Shevarim”, risulta spezzato; è un suono “rotto”, simile ad un singhiozzo, al gemito dell’uomo che, prendendo coscienza delle proprie manchevolezze e quindi della propria pochezza, fatica a trattenere le lacrime;
Il terzo, “Teruà”, è un suono forte, frammentato, a raffica; più che un lamento, è il grido di chi vorrebbe urlare il proprio dolore;
Il quarto, infine, è di nuovo il suono lineare della “Tekià”, un rettilineo appena modulato che fa ritornare l’uomo al suo stato primordiale, alla sua rettitudine originale, aprendo così, di fatto, le porte della ‘Teshuvà’.
La mizvà dello shofar consiste nell’ascoltarne il suono: “Lishmo’a kol shofar”, un suono intenso e prorompente, denso di significati ma, in fin dei conti, nient’altro che un suono assolutamente privo di parole.
“Kol”, tuttavia, è al tempo stesso il suono e la voce. La voce può emettere suoni ma soprattutto parole.
E Mosè ci mette in guardia, facendoci riflettere sull’origine divina della Torà, quando, riferendosi alla Sua promulgazione, dice: “La Voce delle Parole avete udito, ma non avete visto nessuna immagine, soltanto una Voce” …Soltanto ‘KOL’.
La Voce per eccellenza, il suono tuonante della Maestà Divina che squarciava i cieli per proclamare “IO SONO…”
D’altra parte, la Torà specifica che “…tutto il popolo ‘vide’ le voci…”: la Rivelazione fu infatti accompagnata da tuoni e lampi che scaturivano da una “pesante nuvola” insieme al fortissimo suono dello shofar che incuteva il terrore nella nazione.
Lo shofar ci trasporta quindi, con l’immaginazione, ai piedi del Monte Sinai avvolto dal fumo perché il Signore vi era disceso in mezzo al fuoco allorché “il suono dello shofar si faceva via via più forte.”
Ora, c’è chi sostiene che dinanzi al Sinai,il popolo d’Israel sentì soltanto i primi due Comandamenti non riuscendo a sopportarne il fragore; c’è invece chi pensa che udì soltanto ‘La Voce’, senza peraltro riuscire a distinguere le Parole, tale era la potenza scatenata dal Verbo.
L’insieme di vibrazioni scaturite dalla manifestazione della Gloria Divina scosse a tal punto l’accampamento di Israele che il popolo ne avvertì l’effetto fisicamente, quasi che si fosse trattato di un violento terremoto provocato dal clamore della Voce di D-o, e vide il materializzarsi dell’insieme dei suoni come se si fosse trattato di un unico tremendo fragore.
Sicché, più che con l’orecchio, il Verbo fu percepito dal fondo dell’anima di ogni ebreo, simile ad una potentissima scarica elettrica che, facendo brillare dentro di loro il fulmine dell’insegnamento divino, aveva spezzato per sempre le catene della schiavitù per proclamare la libertà di sottomettersi al giogo divino.
“Venga innalzato D-o (attraverso il fragore) della ‘Teruà’,” dice re David “il Signore è nel suono dello shofar”.
Il salmo ci insegna che, come sul Sinai, dalla voce dello shofar emerge la certezza della Presenza Divina, al cospetto della quale ci troviamo e dinanzi alla quale dobbiamo rendere conto.
D’altro canto, su chi mai potremmo contare ed in chi mai potremmo confidare se non nel Santo, benedetto Egli sia?
Dice il poeta Shlomo Ibn Gbirol:
“E se Tu chiedessi conto del mio peccato, fuggirei da Te (per cercar riparo) presso di Te. Mi nasconderei dalla Tua ira (rifugiandomi presso) la Tua ombra. Agguanterei i lembi della Tua misericordia fino a quando non avrai avuto pietà di me, e non li lascerei finché non mi avrai benedetto.”
Possa il nuovo anno essere colmo della benedizione divina.
Shanà Tovà