Yeshayahu Leibowitz z”l
La questione dell’ebraismo riformato – o della Riforma nell’ebraismo – non assume di per sé carattere religioso. Non è espressione di uno scontro interno all’ebraismo sul proprio significato o sulla propria identità, ma nasce piuttosto da una lotta fra religione e laicismo, fra i valori dell’una e dell’altro. Affermare questo non comporta di per sé la presa di alcuna posizione verso la riforma; si tratta solo di stabilire dei fatti senza che da ciò derivi alcun accordo o disaccordo nei suoi confronti.
Difatti tutta quanta la discussione sorta sul ruolo storico della riforma nell’ebraismo – ossia se si tratta di un fenomeno creativo o distruttivo, se abbia un suo valore per la conservazione dell’ebraismo, se sia di supporto o di impedimento alle aspirazioni politiche e nazionali del popolo ebraico – è errato, in quanto capovolge il dibattito sul significato della religione in uno di carattere politico-religioso privato di ogni contenuto religioso. Ciò in quanto la religione non è, non è mai stata e non potrà essere, un mezzo per raggiungere un fine o per dar corpo a un determinato obiettivo. Essa stessa costituisce il fine e l’obiettivo, altrimenti è priva di ogni significato.
Da questo discende che dobbiamo analizzare la riforma solo ed esclusivamente in base alla definizione che dà di se stessa quale fenomeno religioso e secondo le spiegazioni e le giustificazioni che fornisce per i cambiamenti che introduce nella tradizione e nei valori ebraici.
Le spiegazioni addotte dai riformati – e non c’è motivo di dubitare della loro buona fede – possono essere sostanzialmente ridotte a una fondamentale: i cambiamenti basilari nel modo di servire il Signore e nei costumi di vita tradizionali, siano essi più o meno numerosi, daranno soddisfazione alle aspirazioni religiose, ai bisogni sentimentali e/o intellettuali a cui, secondo loro, l’ebraismo halakhico tradizionale non è in grado di rispondere.
Tuttavia, questa stessa spiegazione definisce la riforma, tanto da un punto di vista psicologico che sociologico, come un movimento laico e perfino anti-religioso, di rivolta contro la religione nel pieno significato del termine. Con la riforma si dà priorità alla soddisfazione dei bisogni dell’uomo in luogo del rispetto degli obblighi imposti all’uomo dal Signore.
Si rifletta sullo stesso significato del termine latino “religo” che significa “avvinco”, che fa quindi riferimento alla sottomissione dell’uomo con i suoi bisogni, interessi, volontà e possibilità, all’autorità sovraumana. In altri termini, mentre la religione è teocentrica, la riforma è antropocentrica e vede il proprio obiettivo nell’uomo, con le sue volontà e le sue aspirazioni. Quindi, la riforma non è affatto un fenomeno religioso, ma umano che svolge un ruolo umano così come la medicina, i servizi sociali, le credenze, i divertimenti etc, tutte attività legittime, serie e molto utili che ben utilizzano il talento dell’uomo e le sue capacità mentali, ma, sottolineiamo, solo il talento e le capacità umane.
La religione è servire il Signore, e questo è l’unico suo valore, piaccia o non piaccia all’uomo, così come la difesa della patria è il principio supremo per il patriota, che questo gli convenga o meno. Il rispetto di un obbligo non ha niente in comune con la soddisfazione la quale, come il piacere perfino spirituale o intellettuale, non ha a sua volta alcun legame con il rispetto di un obbligo. Rendere la religione un mezzo per soddisfare l’uomo pone l’uomo al centro e lo rende metro di misura di qualsiasi cosa, così come faceva l’ateo Protagora. La religione, per sua stessa definizione, racchiude in sé, la negazione delle richieste dell’uomo, seppur creato ad immagine di Dio, di soddisfare le proprie aspirazioni, volontà e fini.
Se la religione diverrà strumento di soddisfazione dei bisogni dell’uomo e verrà quindi cambiata in base alle sue richieste, quale sarà mai la differenza fra una sinagoga e un cinema?
La religione in genere, e l’ebraismo in particolare, non è l’etica. Nei millenni di storia ebraica, gli ebrei non hanno affrontato la lotta per la vita o la morte con l’etica ma solo con la Torà e le mitzvoth. In nessuno dei Profeti troviamo riferimenti alla “coscienza” e anzi, nell’ebraico della Mikrà non esiste una parola che significhi “coscienza”, che è stata poi inventata dai filosofi-teologi del Medioevo.
Le parole dei Profeti perdono di qualsiasi significato se perdiamo di vista come derivano dalla Torà e come conducono al rispetto dell’halakhà. “La morale dei profeti” non preceduta dalla Torà e non seguita dal Talmud rimane un’opera letteraria, che forse non è in grado di competere con gli scritti di Omero, Sofocle, Shakespeare, Goethe o Puskin. Storicamente parlando, tutti i profeti furono un disastro totale: non riuscirono a condurre neppure un’anima alla fede nel Signore né ad impedire l’idolatria. Il fenomeno di un popolo che serve e che teme il Signore si è reso possibile storicamente soltanto grazie alla halakhà.
Questo principio trova la sua corretta espressione in Rosh Hashanà. È una festa che simboleggia il riconoscimento della sovranità del Signore, e la sottomissione dell’uomo rispetto a Lui. Rosh Hashanà perde ogni significato se l’uomo è libero di determinare il proprio rapporto con Dio. I due capitoli del libro di Bereshit che leggiamo nei due giorni di Rosh Hashanà hanno la più profonda valenza di fede: la cacciata di Agar e Ishmael da parte di Abramo e il sacrificio di Isacco, esprimono la rinuncia a qualsiasi valore umano e la cancellazione di ogni sentimento e di ogni comportamento naturale a favore del timore e dell’amore di Dio. E’ di questo concetto della fede che la riforma intende liberarsi.
Tratto dalla rivista “Letter to the diaspora”, Kislev 5716, Dicembre 1957
Traduzione di Daniele Liberanome